tag:blogger.com,1999:blog-26424387874265436692024-03-06T03:36:12.264+01:00Capitano mio Capitanoe risuona il mio barbarico YAWP sopra i tetti del mondoCapitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.comBlogger153125tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-66915337739217804802020-12-24T11:29:00.008+01:002020-12-24T11:33:18.812+01:00PELLI DI FOCA<p>La neve è una scoperta recente per me. Non dico la neve di un giorno, di quella anch'io ho i miei ricordi d'infanzia, ma la neve quotidiana, la neve fuori dalla finestra ogni mattina, la neve che quassù copre ogni cosa in dicembre e non si scioglie fino ad aprile, e per quei quattro mesi è l'elemento principale che abbiamo intorno. Questa neve l'ho scoperta verso i quarant'anni: più che l'incanto dei fiocchi dal cielo è una storia di scarpe bagnate, pala fuori dalla porta, la macchina che fa fatica e prima o poi toccherà decidersi a cambiarla con un fuoristrada, il semplice problema di andare da qui a lì. Per andare da qui a lì, o fare un giro intorno a casa nella neve, per qualche tempo ho usato le ciaspole, ma non mi hanno mai convinto molto. È un camminare goffo, a piedi larghi, in cui si avverte tutto il proprio peso di esseri umani, e per me invece l'andare in montagna è una ricerca di leggerezza, mi piacerebbe un giorno riuscire a passare come un soffio di vento.</p><p>Succederà magari quando di me non resterà che l'anima, ma per ora, intanto che ho ancora un corpo, ho preso un paio di sci con le pelli di foca, e sto imparando a usarli. Gli sci – è bene ricordarlo e farsene ispirare – sono stati inventati dai montanari di un tempo semplicemente per questo, per spostarsi sulla neve (poi subito si scoprì quant'era divertente). Ci sono tanti racconti di sci di Mario Rigoni Stern, lui amava molto girare per boschi d'inverno e le forme dolci del suo Altipiano invitavano a farlo, uno in particolare si intitola “L'altra mattina sugli sci con Primo Levi”: è un incontro immaginario, Primo era morto da anni e un grande rimpianto di Mario era quello di non essere mai andati in montagna insieme, benché se lo fossero promessi tante volte.</p><p>Dunque è una passeggiata sugli sci tra due vecchi amici, uno in carne e ossa, l'altro in spirito, e io mi sogno di seguirli da lontano, che sulla neve è un riconoscere la traccia e andarle dietro, quando esco una di queste mattine per fare pratica con le mie pelli di foca. La giornata è luminosa: la neve cambia in tanti sensi il paesaggio, ne ammorbidisce gli spigoli, nasconde i segni dell'uomo, rende tutto nuovo e come appena creato, ma soprattutto illumina, riempie la montagna di luce, e di questo sì, provo ancora l'incanto.
È un paio d'anni ormai che ho cominciato a sciare e salire non è più un problema, è questione di ritmo, fiato, scegliere una pendenza giusta e partire, con l'entusiasmo che serve a rompere la fatica finché le gambe non si scaldano e il cuore pompa a regime. Salgo per il bosco, per la strada poderale che d'estate serve gli alpeggi sopra a casa, ma dopo un po' la taglio e la abbandono, tanto d'inverno non c'è più strada né sentiero. Lucky mi corre davanti, nella neve alta. Lui è nato qui, figlio di generazioni di cani nati e vissuti qui, e di tutti gli elementi di questa montagna la neve è di gran lunga il suo preferito (poi vengono l'aria, l'erba, il legno, la roccia, e solo ultima a distanza l'acqua). Ci salta dentro mangiandola, rotolandosi, può continuare per giornate intere, sembra non abbia mai freddo e non sia mai stanco di neve, la scorsa estate il regalo più gradito che gli ho fatto è stato portarlo in cima al Castore, a 4200 metri: cordate di alpinisti imbragati, imbottiti, ramponati, e questo cane che si rotolava tra i crepacci come fosse nel prato davanti a casa. A proposito di leggerezza...</p><p>Alla fine del bosco raggiungiamo la pista da sci, o meglio quella che dovrebbe essere la pista ma che adesso, con gli impianti fermi per pandemia, è solo un pendio innevato. Niente pali, reti, cartelli, niente pisteur, operatori di rinvio, maestri di sci. I cannoni che spuntano dalla neve sono pennoni senza bandiera, e la seggiovia ferma è triste come un rudere industriale. Non che mi piaccia tanto quell'industria, ma è una fabbrica i cui impiegati e operai sono i miei amici, quassù tutti lavorano per lei: e adesso stanno a casa a far niente. Non c'è nessuno intorno a me e le impronte di una lepre attraversano la pista chiusa. È davvero bizzarro, da qui, pensare che la città sia il luogo dove abbiamo deciso di contenere il virus, pensare ai viali e agli uffici e ai negozi e alle case come a una forma di sicurezza, e a questi spazi aperti e sconfinati come a un rischio di contagio.</p><p>Dalla stazione d'arrivo della seggiovia, dove di solito lavorerebbe Gabriele – è lui l'omone che dà la mano ai bambini per farli scendere, lui quello con la faccia bruciata dal sole e le mani come due padelle – mi viene voglia di andare a vedere se è tutto in ordine a casa sua, dato che sta proprio qui sotto. È la sua casa dell'estate, la baita di Gabriele, l'alpeggio dove una volta saliva con il bestiame e adesso ci sale da solo, perché è proprio impossibile per lui passare l'estate giù in paese. Ecco la cantinetta che tante volte ci ha dissetati, ecco la stufa all'aperto dove giravamo la polenta, ecco la vasca da bagno per lavare le pentole e i ruderi dell'antico villaggio intorno a casa sua, che è tra le poche ancora in piedi. Mi ha sempre un po' disturbato, come una stonatura o un intervento di cattivo gusto, che proprio davanti al villaggio fossero piantati i cannoni da neve, ma oggi comincio a vedere la faccenda in un modo diverso, oggi l'acciaio dei cannoni comunica meglio con queste pietre. In fondo sono entrambi segni di una storia. O di una guerra, chissà: sembrano raccontare che un tempo i cannoni hanno bombardato le baite e l'esito dell'attacco si vede bene dai tetti crollati, dai muri smangiati e sbilenchi. Però poi sono stati lasciati lì anche i cannoni, come quei residuati bellici che si trovano sul fronte della Grande Guerra, che ancora oggi spuntano dai ghiacciai in ritiro.</p><p>Adesso in montagna non c'è più nessuno, né vincitori né vinti, né mucche al pascolo né sciatori, solo io e questo cane che si rotola nella neve. Che ne dici, Mario? Che ne dici, Primo? Il montanaro e il chimico, uno che aveva rifiutato un bell'ufficio a Milano e l'altro che per tutta la vita era stato in fabbrica a Torino, il vecchio e il nuovo mondo, eppure amici: come sarebbe bello, adesso, poter avere una parola da voi due.
Poi è ora di strappare via le pelli, infilarmele sotto la giacca per tenerle al caldo, stringere gli scarponi alla caviglia. Rimettere gli sci e bloccare il tallone per la discesa. Scendo per la pista che non è una pista, e per uno che sta imparando a sciare, da autodidatta, a quarant'anni, potete credermi che la discesa è ben più difficile della salita. Non serve fiato, casomai un po' di coraggio. L'incoscienza dei ragazzini nella neve. Via!</p><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSqV47OB6EneeTAOVV9GdefyOM8GOZctKv7iqzNnd1Lm4sE_AqIalaNyb-ebL0G2-3b0oJIAInJCSqyTFuIVgAIHjxLM49jL2h9rqz4XaePR7CrYHR6PvXxm8mPPJub-h-HIetXrYG26Y/s2048/IMG_20201217_102359.jpg" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2048" data-original-width="1536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiSqV47OB6EneeTAOVV9GdefyOM8GOZctKv7iqzNnd1Lm4sE_AqIalaNyb-ebL0G2-3b0oJIAInJCSqyTFuIVgAIHjxLM49jL2h9rqz4XaePR7CrYHR6PvXxm8mPPJub-h-HIetXrYG26Y/s320/IMG_20201217_102359.jpg" /></a></div>Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-21906543256670511852020-11-28T17:57:00.003+01:002020-11-28T18:02:54.238+01:00FUORIPISTA<div>È avvilente, per chi ama e vive la montagna, assistere in questi giorni al dibattito sull'apertura natalizia delle piste da sci. Gli impiantisti dicono: Noi teniamo in piedi l'economia di montagna, se a Natale non ci lasciate lavorare la montagna è morta! – come se in montagna non ci fosse altro da fare che sciare sulle piste. E il governo risponde: Rassegnatevi, non ripeteremo l'errore di Ferragosto, quest'anno niente Natale sulla neve. Come se la neve fosse solo quella (in buona parte artificiale) delle piste da sci.</div><br />Per cui è bene ripeterlo ancora una volta: le piste da sci stanno alla montagna come le spiagge a pagamento stanno al mare. Al mare si può nuotare, passeggiare, andare in barca, sedersi su uno scoglio a leggere un libro, trovarsi una spiaggia libera e fare tante altre cose che non siano affittare un ombrellone e una sdraio fino all'ora di andare al bar, e così in montagna. Si può camminare sulla neve o sui sentieri, vagabondare per i boschi o sedersi al sole, si può ciaspolare e perfino sciare dove non serve il biglietto e non c'è la funivia: strano a dirsi, ma lo sci non è nato sulle piste. Ed è molto più bello praticarlo dove la montagna non è stata ridotta a un'autostrada. Bisogna ripetere anche questo, che una pista da sci è montagna disboscata, spianata e cementificata, è percorsa da mezzi a motore per tutto l'anno, e consuma tante risorse per produrre neve artificiale e far girare gli impianti. <br /><br /> C'è parecchia arroganza nella convinzione, da parte di imprenditori e amministratori, che l'economia invernale della montagna dipenda dallo sci su pista, perché oggi non esiste la controprova. È vero che lo sci dà lavoro a tante persone, ma non è detto che quel lavoro non possa trasformarsi (in meglio). Quest'anno qualcosa è cambiato, non per nostra volontà: la pandemia ha dato un taglio ai viaggi all'estero e forse anche ai lussi superflui; il lungo confinamento ha messo in molti di noi la voglia di vita all'aria aperta, di tempo e spazio per sé, di andarsene in giro liberi e senza troppa gente intorno; l'obbligo o la facoltà di lavorare da casa hanno aperto una possibilità inaspettata, quella di trasferirsi con la propria famiglia da un appartamento di città verso luoghi più piacevoli e spaziosi. In montagna si è lavorato bene, la scorsa estate. Per la qualità oltre che la quantità di presenze. Alcuni sono perfino rimasti. A noi che la montagna la osserviamo, la studiamo, cerchiamo di immaginarla nel futuro, tutto questo ha dato molto da pensare. <br /><br /> Insomma, perché ridurre il discorso intorno all'economia di montagna a un “lasciateci aprire le piste a Natale”? Forse invece è l'occasione buona per scoprire se un'altra montagna è possibile – con un turismo che consumi meno, invada meno, passi meno di fretta, e si trasformi almeno in parte in un ripopolamento, portando alla montagna non solo clienti e denaro, ma umanità e cultura. Quella montagna fuoripista per favore non chiudetela.<div><br /></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEimZ7sE32bf1N90l4tZU4tQu04b3Z17KmCA93BjG3_h8cOrGPncEDQQG9eJptous2rJLlUiIL13SJ0T6N5yFm9bPP4FjWwAy66gZzgyShEyjkJTOUyRFltTiBzbR99hCF-ZMTIfRKRIZUw/s2048/Foto+15-01-14+12+55+07.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1536" data-original-width="2048" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEimZ7sE32bf1N90l4tZU4tQu04b3Z17KmCA93BjG3_h8cOrGPncEDQQG9eJptous2rJLlUiIL13SJ0T6N5yFm9bPP4FjWwAy66gZzgyShEyjkJTOUyRFltTiBzbR99hCF-ZMTIfRKRIZUw/s320/Foto+15-01-14+12+55+07.jpg" width="320" /></a></div><br /><div><br /><br /></div>Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-83063056241756671342020-07-21T18:03:00.005+02:002020-11-28T18:05:52.803+01:00PER PAOLO FINZIPaolo Finzi ci ha lasciati, l'altro ieri. Con lui Milano perde un testimone storico, un figlio appassionato e gentile, un vulcanico agitatore di periferia, e il movimento anarchico italiano perde uno dei suoi pilastri, di cui in qualche modo dovremo raccogliere l'eredità. Io Paolo l'ho conosciuto una decina d'anni fa alla Scighera, il circolo libertario in cui veniva spesso per parlare d'anarchia, per salutare gli amici e per tornare alla Bovisa a cui si era affezionato fin dai tempi in cui frequentava un altro circolo, il Ponte della Ghisolfa di piazzale Lugano. Sì, proprio quel leggendario buco di rivoluzionari.<div>Paolo veniva preceduto dalla sua fama, era stato il più giovane tra i fermati per Piazza Fontana (nato nel '51, nel '69 era appena maggiorenne), amico e compagno di Pinelli e per noi che con questi miti c'eravamo cresciuti era come incontrare un pezzo di storia. La storia veniva da ancora più lontano perché Paolo era figlio di due ebrei antifascisti e partigiani, Ulisse Finzi e Matilde Bassani, lui mantovano e lei ferrarese, una madre insegnante e pedagogista che si era fatta valere durante la resistenza romana. Si erano trasferiti a Milano dopo la guerra e in quegli anni di boom economico e lotte operaie Paolo aveva trovato la sua via, anzi la sua Idea nel pensiero anarchico, entrando nel gruppo Bandiera Nera di Giuseppe Pinelli. Una scelta minoritaria e anticonformista, in anni in cui la lotta politica era rigidamente inquadrata. Dopo Piazza Fontana c'era da riorganizzare da zero il piccolo movimento anarchico milanese, e nel '71 Paolo fondò con alcuni compagni “A rivista anarchica”, in cui poi lavorò per quarantanove anni, proprio fino all'altro ieri. In mezzo secolo di storia, “A” è diventata senz'altro la voce più importante dell'anarchismo italiano. Pedagogia, antiautoritarismo e antimilitarismo, diritti delle minoranze (donne, bambini, detenuti, stranieri), da sempre sono i suoi cavalli di battaglia e sono anche i temi di cui Paolo ha scritto per tanti anni, come nei suoi studi sulla resistenza anarchica e lo sterminio nazista di rom e sinti. Fondò o sostenne la fondazione di tante altre realtà come il Centro Studi Libertari/Archivio Giuseppe Pinelli, la casa editrice Eleuthera.</div><div>La vicinanza con il popolo rom fu all'origine di un'amicizia fondamentale nella sua vita, quella con Fabrizio De André. Paolo raccontava che una volta, chiudendo i concerti, De André domandava se tra il pubblico ci fossero anarchici del posto, perché gli sarebbe piaciuto salutarli. Fu così che una sera Paolo stesso bussò alla porta del camerino, non mancando di portare la rivista di cui De André sarebbe diventato un fedele sostenitore. Furono Paolo e la compagna Aurora, anni dopo, ad aiutare Fabrizio nelle ricerche che l'avrebbero portato a scrivere <i>Khorakhané – A forza di essere vento</i>. Paolo trovò in Fabrizio una grande fonte d'ispirazione, forse il modello dell'anarchico che aveva in mente: colto, libero, duro e gentile, ironico e romantico al tempo stesso. Puro.</div><div>Era così anche lui. Me lo ricordo ridere spesso, parlare a voce troppo alta, raccontare mille storie e perdersi a metà: era un uomo rumoroso e ingombrante, riempiva i posti dove entrava, eppure si intuivano bene i suoi momenti bui, forse anche le sue grandi delusioni. Era molto affettuoso, anche con me. Mi dava carezze, mi abbracciava. Ho avuto l'onore di scrivere per “A” mentre Paolo c'era ancora, perché lui me l'aveva chiesto e sono stato io a ringraziarlo quella volta. Me lo ricordo ai pranzi del Primo Maggio alla Fai di viale Monza, Aurora che serviva ai tavoli e Paolo che faceva da anfitrione in quell'altro buco di sovversivi. Lui non avrebbe mai detto “padrone di casa”. Padrone era una di quelle due o tre parole che non avrebbe mai usato. È stato un nostro maestro di libertà e così sempre ce lo ricorderemo.</div>Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-40559261321294644892020-04-15T17:57:00.012+02:002020-11-28T18:02:12.745+01:00CHINATOWNIn montagna mi ero sempre lamentato di avere un cane che non serve a niente – non sa fare il pastore, non trova i tartufi, si rifiuta di trainare una slitta sulla neve – non immaginavo che un giorno in città sarebbe stato la mia fortuna. Quando la quarantena è iniziata, l'8 marzo, ho avuto anch'io qualche ora per decidere dove stare, e confesso di aver accarezzato l'idea di andarmene in baita, pensando che lì avrei vissuto più libero e mi sarei goduto la mia casetta in mezzo ai boschi (allora non sapevo che la montagna stava per essere militarizzata, ma questo è un altro discorso). Invece poi ho scelto Milano, e senza molte esitazioni: perché qui vive la persona a cui volevo restare vicino, ma anche per un motivo più ideologico, per così dire. Benché io abbia con questa città un rapporto difficile, ci sono nato e cresciuto. Non mi andava di fare lo sfollato. Erano i giorni in cui la gente prendeva d'assalto i treni e a me sembrava uno di quei momenti in cui restare in un luogo assume un valore, diventa una specie di atto di resistenza. Qualcosa che poi ricorderemo, insieme agli altri che sono rimasti, e che fa l'anima di una città, specie ora che le città sono sempre più luoghi senz'anima, almeno quelle come Milano. Città-occasione, città di passaggio, città per studiare, lavorare, arricchirsi, città-catapulta per il mondo: usala, prendi il meglio che ti può offrire, ma non restare a Milano durante il coronavirus. E io ci resto, ho pensato (Michele Mari ti voglio bene).<div><br /></div><div>Dicevo del cane: è grazie a lui, a questo cane che non tira slitte e non scava tartufi, che per due mesi ho potuto uscire la mattina e la sera, camminare, fare anche qualche incontro. Un'auto della polizia rallentava sospettosa, lui prontamente alzava la zampa contro il primo paracarro, e l'auto tranquillizzata ripartiva. Lucky è stato per due mesi il mio lasciapassare, il mio socio, il mio cane da rapina. Ne abbiamo approfittato per esplorare il quartiere: da un po' di tempo abbiamo cambiato casa, a Milano, e siamo venuti a vivere a Chinatown, e mai come in questi due mesi l'abbiamo percorsa con passione, mai più con altrettanta credo che la percorreremo. In via Paolo Sarpi i cinesi hanno chiuso molto prima di noi, ricordate? Sulle serrande dei negozi ci sono ancora i cartelli lasciati il 22 o 23 febbraio, quando i cinesi di Milano sono entrati in quarantena tutti insieme, di loro iniziativa, due settimane prima che fosse imposta dal governo. In un angolo c'è un manifesto che mi piace particolarmente, uno di quei vecchissimi manifesti di due mesi fa, in cui un braccio fasciato dalla bandiera cinese stringe la mano a un braccio fasciato dalla bandiera italiana, e lo slogan dice “Il nemico è il virus, non le persone. Forza Cina”. È la preistoria dell'epidemia, oggi a nessuno verrebbe in mente né di fare gli auguri alla Cina, né di disegnare mani che si stringono senza alcuna protezione.</div><div><br /></div><div>Mi pare un manifesto molto più efficace, poco più avanti, la macelleria del signor Walter, una bottega milanese storica nella via principale dei cinesi, con cui convive felicemente. Lì ancora le persone si chiamano il Walter, la Silvia. Io sono vegetariano, il Walter non lo sa e se non legge questo articolo non lo saprà mai: vado da lui per il piacere di entrare in un negozio che è rimasto aperto per tutta la quarantena, un posto dove sono tranquilli, sorridono, non si lamentano di nulla, hanno chiaramente deciso di fare come se niente fosse. Anche il Walter avrà pensato: e io ci resto. E io penso che me lo ricorderò. Prendo due porzioni di ravioli di magro e un chilo di misto-cane per il mio socio, è un trito di frattaglie di cui va pazzo.</div><div><br /></div><div>In cerca d'erba, siccome ci hanno chiuso il Parco Sempione qui dietro, andiamo davanti al Cimitero Monumentale. Prima i prati dalla parte degli acattolici, poi quelli dalla parte degli israeliti, attraversando il grande piazzale dominato dal Famedio, la cripta dei milanesi illustri dove giace il più citato scrittore della quarantena. Passiamo tre fontanelle, tre draghi-verdi presidiati da un matto per ciascuno, nel senso che vicino a ogni drago c'è qualcuno che parla da solo, che sbraita non si sa con chi, che fa strani calcoli chino su un quadernetto. Ci sono loro, i fattorini africani con gli zaini gialli e le bici, la ragazza rom a cui più di una volta ho lanciato una moneta, perché non riesco a resistere a quelli che mi chiamano amico. E poi ci sono i carri funebri che arrivano, uno via l'altro. Quando la lunga automobile si presenta, un cancello si apre e la fa entrare nel cimitero, senza corteo né parenti né niente. Il Monumentale non è per tutti: questi sono i morti delle famiglie milanesi storiche, gli industriali, gli editori, una borghesia che arriva dritta dal Diciannovesimo secolo, e forse chissà, nel Ventunesimo muore anche lei alla Baggina. Guardando il Famedio io non penso tanto al Manzoni ma ad altri che sono lì, a Gaber, a Jannacci, a Dario Fo.</div><div><br /></div><div>Torno verso casa facendo il giro delle mura. Mi piace passare accanto alla sede della SEM, la gloriosa Società Escursionisti Milanesi, per salutarla e ricordarmi un po' della montagna. Lì accanto, una mattina, ho sentito cantare il gallo e nell'aria un odore di fuoco di legna. Chi accende la stufa e alleva galline in centro a Milano? Era un signore un po' malandato che poi è uscito a salutarmi, ed è finita che abbiamo fatto amicizia. Occupa un locale scalcinato, ha galline, un cane, “topi grossi così”, mi ha detto tutto contento, e si scalda coi rami degli alberi che raccoglie nei giardinetti. Il tetto della catapecchia è mezzo crollato: “è stata la nevicata dell'85”, mi fa, “te la ricordi?” E come no, ero un bambino, andavo in giro con mio padre e mia sorella a godermi tutta quella neve a Milano. Ecco, forse questi giorni mi ricordano un po' la nevicata dell'85. Non per la neve, ma perché è una Milano a cui voglio di nuovo bene. “Passa a salutarmi, quando vieni col cane. E se vuoi farti una fumata davanti al fuoco, in amicizia eh...”
Te la ricordi la quarantena del '20?, diremo magari nel '55. Eh sì che me la ricordo. Ci andrei volentieri, a trovarlo, quando sarà finita, ma mi sa che quel giorno io e Lucky ce ne torniamo in montagna.</div>Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-81923375439399234072019-07-30T11:58:00.001+02:002019-07-30T11:58:38.445+02:00TIZIANO<i>(Questo pezzo è uscito sulla Repubblica, per i 15 anni dalla morte di Terzani)</i><br />
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Ho un maestro che non ho mai incontrato, si chiamava Tiziano Terzani. Amavo in lui l'irrequietezza, la testardaggine, la fragilità, il conflitto tra il bisogno di famiglia e quello di nomadismo, i dubbi e i ripensamenti della sua mente libera, il modo in cui l'umanità lo incuriosiva, lo meravigliava e a volte lo deludeva, l'allegria contagiosa, la depressione altrettanto contagiosa, gli slanci e le crisi. Se lo immagino vivo, in carne e ossa, dentro di me non vedo il vecchio con la barba bianca e la veste indiana ma il ragazzo alto, bello, sorridente, ancora prima che si faccia crescere i baffi, già abbracciato alla sua Angela davanti all'obiettivo. È il 1961 e Tiziano ha ventitré anni. Negli occhi vedo la giovinezza e l'ambizione, l'ironia e la seduttività, è uno sguardo che dice “sto arrivando, mondo!”. Vedo la forza di un figlio della periferia e del dopoguerra che per emanciparsi studia, studia, si fa strada a forza di libri, avrebbe dovuto finire sì e no le medie e invece viene ammesso nel miglior liceo di Firenze, e poi alla Normale di Pisa. Lo vedo qualche anno dopo a Ivrea, a Milano: fuma la pipa, fa carriera all'Olivetti, lavora nell'eccellenza illuminata dell'industria italiana ma ha in testa altro, il giornalismo, l'Asia, una vita tutta diversa da quella in cui si è cacciato. Lo mandano in missione in Giappone e in Sud Africa e lui usa ogni momento libero per scrivere. Durante una conferenza interviene da par suo contro l'America che ha invaso il Vietnam e un funzionario britannico, un cacciatore di talenti, per convertirlo gli offre una borsa di studio nella tana del nemico, in qualsiasi disciplina a sua scelta. Tiziano non ci pensa due volte: lascia il posto da manager e sulla soglia dei trent'anni torna a fare lo studente, attraversa con Angela l'oceano ma non per diventare americano, con una splendida beffarda trovata ha chiesto di studiare il cinese in America. Lo vedo in un appartamento di New York in quegli anni di fuoco, tra il '67 e il '69: ora ha i capelli un po' più lunghi, fa esperimenti con la barba e i baffi, si traveste da hippie durante un viaggio in California, incontra le Black Panther e gli anarchici, va nel sud a capire come stanno gli afroamericani. Ha un figlio ma nessuna tentazione di mettere radici qui, non ora che ha visto con i suoi occhi l'America che spara a Robert Kennedy e Martin Luther King, l'America della ricchezza sfrenata, della miseria nera, delle disparità e della violenza sociale: nelle aule della Columbia e di Stanford legge tutto quello che trova sulla Cina di Mao, il paese che sogna per il suo futuro, il più grande esperimento di giustizia e di progresso della storia. Eccolo, Tiziano, eccolo a inseguire il suo sogno con un'altra capriola di coraggio e fantasia, nessun giornale italiano gli dava fiducia e allora lui è andato fino ad Amburgo, ha convinto la redazione di Der Spiegel e ora scrive in tedesco dall'Asia. Ha trentacinque, trentasette, trentanove anni, due figli piccoli, una moglie che a volte lo segue e altre lo aspetta nelle case di Singapore o di Hong Kong, case coloniali, case con pappagalli e tartarughe, case piene di libri che viaggiano da una casa all'altra, intanto che Tiziano gira il continente per raccontare le sue rivoluzioni. Fa un mestiere che non esiste più, quello di Hemingway, il corrispondente di guerra, e come Hemingway comincia a sembrare più vecchio della sua età. Sarà il sibilo dei proiettili a imbiancargli i capelli, saranno le facce dei morti a incidergli quelle due rughe tra gli occhi? È alto, lo immagino sempre alto Tiziano, una spanna più alto dei piccoli vietnamiti e cambogiani e laotiani che lo circondano, ha cominciato a indossare camicie bianche, a portare la Leica al collo, ha la sigaretta tra le dita. Sorride e anche i piccoli vietnamiti intorno a lui sorridono perché sanno che è loro amico, Monsieur Moustache, è il '75 e gli americani se ne sono appena andati da Saigon, lui è lì a festeggiare la liberazione. Lo vedo quel giorno, forse è l'ultima volta che ci crede davvero, è una specie di fine della giovinezza, Tiziano seduto sul carro armato tra le bandiere che sventolano e i guerriglieri esultanti. Comincia a smettere di crederci quando vede arrivare le dittature e i massacri nei paesi che credeva liberati, perde del tutto la fede quando la Cina apre le frontiere ai giornalisti e lui entra tra i primissimi, andando a vivere con la famiglia a Pechino. La realizzazione del sogno e insieme la sua fine. Eppure è vero amore: lo vedo, Tiziano, a quarantacinque anni, viaggiare per le province più remote, sfuggire ai funzionari di partito, se loro dicono di andare a destra lui va a sinistra, lo vedo girare in bicicletta su strade polverose, lo vedo mischiarsi alla gente nei mercati. È incantato dai contadini, dagli artigiani. I mercati sono la sua grande passione, colleziona le cose più astruse, le gabbiette di legno per i grilli, i fischietti per piccioni. Si dà un nome cinese, parla e mangia e veste cinese tra i cinesi, manda i figli alla scuola pubblica con i bambini cinesi, ma intanto in Manciuria, in Tibet, nella stessa Pechino la realtà è davanti ai suoi occhi: e gli occhi di Tiziano sono troppo acuti per non vedere, la sua penna troppo onesta per non raccontare. Non ho fotografie della paura, non lo so immaginare mentre viene avvertito e minacciato, mentre decide di mettere Angela e i bambini al sicuro, li rispedisce a Hong Kong e resta solo a Pechino, mentre viene arrestato, interrogato, tenuto in carcere e infine espulso a vita dal paese che amava, nel 1984.
Lo vedo cupo e silenzioso negli anni del Giappone. Alla fine dei sogni, dei libri che ha letto, delle idee politiche che si è pazientemente costruito, deluso e tradito mentre prende la metropolitana, si mischia alla folla di impiegati di Tokyo, osserva le ruspe che perennemente demoliscono la città, gira per i locali notturni, si sente di nuovo in America. Anzi peggio che in America in quest'Asia che rinuncia alla sua cultura e alla sua storia, quest'Asia che inseguendo l'Occidente si arrende e muore. Nel '90 riesce a farsi trasferire a Bangkok, ma non è che in Thailandia trovi una storia poi tanto diversa; nel '91 attraversa ciò che resta dell'Unione Sovietica per dare la buonanotte al comunismo e vede i musulmani delle provincie asiatiche abbattere le statue di Lenin invocando Allah. È stanco, Tiziano, a poco più di cinquant'anni è perfino stanco del mestiere che era la sua passione, stanco di partire per le guerre, le rivolte e i colpi di stato, stanco di vedere morti, di ascoltare le bugie dei dittatori, di incontrare affaristi che si arricchiscono con finte rivoluzioni, di raccontare sempre la stessa storia. Il fuoco è spento e per uscirne, da questa crisi che è cominciata in Cina ed è la più grande della sua vita, ci vuole un altro numero di coraggio e fantasia, probabilmente il suo capolavoro, quando dice al giornale che per un anno non potrà prendere aerei, a causa di un vecchio indovino e di una profezia funesta. Se non sono dimissioni ci manca poco. Lo vedo, Tiziano, in quel 1993, salire su treni e navi, viaggiare per giorni e notti su vagoni lentissimi e sovraffollati, percorrere su mezzi di fortuna la Malesia, la Birmania, la Thailandia, la Cambogia, ritrovare i mercati e le fumerie d'oppio e i retrobottega dei chiromanti, riscoprire la sua Asia amatissima, cercarla dove sopravvive. Comincia a guardare all'India come a un nuovo sogno. Tradito da Mao, vede una possibilità in Gandhi; deluso dalla politica sente che è l'ora di una ricerca personale. Nel '94 si trasferisce a Delhi e due anni dopo abbandona davvero i giornali, decide di proseguire per conto suo, di provare a vivere scrivendo libri. Lo vedo di nuovo felice e curioso in quell'immensa città brulicante, ora si veste tutto di bianco, anche i capelli sono già completamente bianchi, sente un dolore che ignora per un po', sente di cominciare una seconda o terza vita e non sa cosa lo aspetta.
Poi lo vedo a New York dove non avrebbe mai pensato di tornare, gira intorno alla casa dove abitava con Angela trent'anni prima, cammina per Central Park e fino all'ospedale della chemioterapia. New York gli piace anche se fatica ad ammetterlo, gli ricorda tante cose. I figli ormai sono andati per la loro strada e lui è più libero e solo che mai, si è tagliato barba e capelli prima che cadano, così è il volto di un Tiziano vecchio e giovane, un Tiziano del presente e del passato che vaga pensieroso per Manhattan. Questa crisi non se l'è cercata lui, però ci sta trovando un senso. Anche Angela non c'è, la rivede a Firenze, in India; insieme cercano un posto dove, tra un ciclo e l'altro di terapia, lui possa stare tranquillo e praticare la meditazione buddista, con cui curarsi a modo suo. È un altro giro di giostra fino a Binsar, nell'Himalaya indiana, in una casetta davanti al Nanda Devi, ospite di un vecchio maestro.
Vedo Tiziano lassù con i suoi due corvi, la coperta sulle spalle, la candela davanti a cui medita la notte; fa freddo e lui sta scrivendo sulla malattia e sul male. A Tiziano della montagna non è mai importato granché, ha sempre voluto essere un uomo della città, della politica, del vivere con gli altri, ma quest'Himalaya lo riporta all'Appennino della sua infanzia. Certi giorni è incantato dalle albe, dalla luce riflessa dai ghiacciai, dagli sbuffi di nebbia tra i rami dei rododendri giganti, vorrebbe essere un pittore per dipingere tutto quello che vede, certi altri gli manca terribilmente Angela e ha nostalgia della loro vita. Tutti quei viaggi, le case, le guerre, quell'avventura di quarant'anni che è stata il loro matrimonio, tutte quelle parole su parole su parole. È così che deve finire? In silenzio davanti all'Himalaya?
Sì, forse finirebbe così se l'11 settembre 2001 due aerei dirottati non piombassero su New York e se l'America non reagisse nell'unico modo che conosce da sempre, con la guerra. Un'altra guerra. Vedo Tiziano raggiunto lassù dal fragore della guerra. Si sente richiamato dal mondo, lui che aveva perfino rinunciato a un nome, ma adesso Anam è di nuovo Tiziano Terzani, se lo riprende e fa arrabbiare il suo maestro che lo vorrebbe definitivamente distaccato, pacificato, indifferente alla tragedia umana, ma Tiziano non potrà mai essere così, e adesso scende dalla montagna a fare per l'ultima volta il suo vecchio mestiere, l'inviato di guerra. Ha poco più di sessant'anni ma ne dimostra ottanta, cammina curvo e con un bastone, ha barba e capelli lunghi e bianchissimi, è ammalato eppure vivo già ben oltre le previsioni dei medici di New York, si scopre amatissimo dai suoi lettori. Non sapeva di averne conquistati tanti. Va in Afghanistan, scrive da sotto le bombe, scrive lettere contro la guerra, scrive come scrive da una vita intera.
L'ultima estate lo vedo all'Orsigna perché ha capito che quello è il posto, non Binsar, non l'Himalaya. C'è Angela. C'è Folco. C'è Saskia. Passa il tempo a chiacchierare con loro, non vuole incontrare nessun altro. Lo vedo bianco, tranquillo, in pace, su un poggio da cui guardare le montagne o nella capanna che si è fatto costruire, dove dorme da solo. Ha tempo di ripensare a tutto. Poi vedo tutto finire e ricominciare. Ciao Tiziano. La fine è il tuo inizio.Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-3090128022652499342019-04-15T13:07:00.001+02:002019-04-15T13:07:27.185+02:00DI LUPI E ANARCHIA<i>(questo pezzo è uscito su A rivista anarchica)</i><br />
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Gennaio. Poca neve, boschi spogli, prati bruciati dal gelo. L'altro giorno un amico passava per casa mia la mattina presto, e ha visto due cani o forse due lupi attraversare il pascolo accanto alla baita. Erano grigi e appena si sono accorti di lui sono filati via nel bosco. Più tardi è salita la forestale che ha trovato e seguito le impronte nella neve, raccolto un campione di sterco e confermato: lupi. Li aspettavamo, sapevamo che prima o poi sarebbero arrivati. E adesso eccoli qui.<br />
Il lupo sulle Alpi occidentali era scomparso dagli anni Venti del Novecento. Un secolo fa, quando la montagna era tutta abitata e coltivata, l'avevamo sterminato fino a estinguerlo. Era sopravvissuto in Appennino, nel Parco Nazionale d'Abruzzo che fu appunto fondato nel '22, e solo nel dopoguerra, con l'abbandono di tanti paesi e campi, ha potuto tornare a riprodursi e a muoversi per le valli. Ecco due cose che il lupo ci insegna a proposito di anarchia: la prima, che lo spopolamento umano costituisce un'occasione di libertà per un'altra specie, anzi per tutte le altre diverse dalla nostra, perché siamo noi i dittatori della terra, noi la specie più violenta e feroce; la seconda, che per i fuggiaschi e i clandestini la montagna non è affatto una barriera, è piuttosto un rifugio e una via di comunicazione. Il lupo ha fatto un lungo viaggio per arrivare fin quassù, tutto attraverso le terre alte d'Italia: negli anni Settanta ha risalito l'Appennino, nei Novanta è comparso sulle Alpi Marittime, nel 2016 per la prima volta si è mostrato in Valle d'Aosta, dove ormai gli avvistamenti sono frequenti. Dunque quei due che girano qui intorno devono essere figli o nipoti di qualche emigrante, un lupo d'Abruzzo che a un certo punto è partito per il nord, come i nostri padri e i nostri nonni.
E proprio come gli emigranti di ogni epoca, dove il lupo arriva incrina l'ordine costituito, disturba il sonno della brava gente, si procura odio diffuso e rare amicizie. Quassù sono in tanti che vorrebbero imbracciare il fucile. Il punto è che il lupo per vivere ha bisogno di carne: la prende dove può, non distingue tra giusto o sbagliato ma solo tra prede facili e prede difficili. Oggi in montagna la fauna selvatica è molto più abbondante di un tempo (di nuovo, evviva l'abbandono): tra cinghiali, cervi, caprioli, camosci, stambecchi, un cacciatore come lui ha l'imbarazzo della scelta. Tuttavia, qualche volta incontra un gregge di pecore o una mandria di mucche al pascolo, specie dove il bestiame viene lasciato brado. Altre volte attacca un capriolo appena fuori da un paese, dove tutti possono assistere al triste spettacolo di un animale sbranato. Ce l'ho negli occhi e posso capire che chi abita in montagna, magari in un posto isolato come casa mia, non dorma tranquillo: è difficile levarsi il pensiero che siamo carne anche noi. Bisogna informarsi per scoprire che, in vent'anni di presenza sulle Alpi, non c'è mai stata notizia di attacchi all'uomo. Dunque la paura è ingiustificata e si odia il lupo più per quello che rappresenta, che per un reale pericolo. È reale invece il bisogno dei pastori di proteggere il loro lavoro.<br />
Dall'altra parte ci sono gli adoratori del lupo, quelli che vedono in lui la Natura, la Libertà, la Selvatichezza, non solo un animale ma un simbolo, di nuovo, e una ragione di lotta. Lo osservano, lo studiano, lo fotografano, lo difendono. Però spesso sono persone che non vivono a stretto contatto con lui, o che non hanno bestiame al pascolo, o che non devono tornare a casa di notte attraversando il bosco. È un fatto che spesso le battaglie ambientaliste siano combattute dai cittadini contro i montanari, ormai l'ho visto succedere tante di quelle volte... Come succede in ogni questione ideologica, le due fazioni si parlano poco o nulla, le posizioni si estremizzano, e qualunque cosa uno dica, anche in un articolo tranquillo come questo, finisce per farsi dei nemici. A me è capitato di trovarne al bar, dove difendevo il lupo da chi avrebbe voluto organizzare ronde di cacciatori, e di ricevere insulti digitali per aver scritto che mi pareva giusto tenerlo lontano dal bestiame, anche col fucile se necessario. Oggi non ne sono più sicuro, allora ero stato molto colpito da alcuni episodi capitati ai miei vicini e ai loro animali.
Il fatto è che il lupo mette in crisi anche me. È difficile capire cosa pensarne e cosa scriverne, allora ho chiesto aiuto a un'amica, Irene Borgna, che lo studia da anni. Irene è un'antropologa, una nuova montanara (da Savona è andata a vivere in Valle Gesso), una guida naturalistica nel Parco delle Alpi Marittime. Tra le altre cose collabora a un progetto che si occupa di osservare il lupo sulle Alpi, dare un'informazione corretta sulla sua diffusione e sul suo modo di vivere, proteggerlo ma anche studiare strategie per proteggersi da lui, immaginare una convivenza più o meno pacifica. Irene mi scrive:
“Mi trovo di fatto tutti i giorni in mezzo a discussioni che riguardano lupi (che predano, che vengono ammazzati e crocifissi, che vengono idealizzati e infiocchettati) e - lavorando per il Parco, ma avendo lavorato anche in una stalla e con amici pastori e cacciatori - sono nella posizione adatta per fare la passeuse di idee. Porto un pezzo di lupo vero (quello che puzza, fa danno, rompe i coglioni) dalla parte degli animalisti estremi (che però in montagna non ci stanno e il lupo lo vedono solo nei documentari) e faccio passare un pezzo di "lupo solo lupo" a pastori e cacciatori. Infatti per quanto riguarda i pastori, nella stragrande maggioranza dei casi, coi danni veri e col lupo di carne e pelo in qualche modo un accordo si trova, ma è l'idea del lupo che è inaccettabile: il lupo è la burocrazia delle norme europee che vuole le sale di mungitura immacolate e impossibili e i formaggi tutti uguali, i culi appiattiti dalle sedie dei legislatori che non conoscono la materia che pretendono di normare, la globalizzazione dei mercati che fa svendere latte, carne e lana. Per i cacciatori, che vogliono essere padroni a casa loro e signori di tutto ciò che si muove e respira nel comprensorio di caccia, il lupo è un rivale - che caccia a sbafo, non ha il porto d'armi e non paga nemmeno il tesserino stagionale. Ma nello stesso tempo sarebbe anche un bel trofeo da appendere sopra al camino.
Insomma, porto a spasso pezzi di lupo qua e là nella testa delle persone. E ce li scambiamo eh, non è che io li distribuisca e basta. Infatti anche la mia idea è in continuo aggiornamento. Come la popolazione di lupo: che noi ce li immaginiamo ancora in montagna e invece (in provincia di Cuneo) sono alle porte delle città pedemontane. E non hanno nessuna intenzione di fermarsi.”
Più avanti aggiunge: “Tutte le specie sono tornate per restare. Tutte ci mettono in difficoltà. Tutte ci offrono un'opportunità. Con la loro presenza i lupi insegnano una cosa che abbiamo dimenticato: che siamo animali tra gli animali. Ce lo ricordano rimettendoci nel ruolo più scomodo: quello della preda. Lo fanno attraverso qualcosa di antico e di prezioso: la paura. Ci riportano al nostro posto nell'ecosistema, ricordandoci che siamo tutti commestibili. Che il bosco non è casa nostra. Che metterci piede equivale ad accettare leggi diverse da quelle umane. Per questo un bosco con il lupo è più di un bosco senza il lupo. Una montagna con l'orso è più alta di una montagna che ne è priva. La montagna con i selvatici smette di essere una cartolina rassicurante e torna a essere un ambiente condiviso, dove di volta in volta siamo colleghi, rivali, complici. Considerarci al di sopra del mondo naturale ci ha condotti dritto verso la catastrofe ecologica, comprenderne di esserne parte è il primo passo nella direzione opposta. I selvatici incrinano la nostra onnipotenza, la presunzione di poter essere sicuri e padroni dappertutto, l'idea di essere al di là e al di sopra del resto del mondo naturale.”<br />
Lupo, maestro di anarchia. Forse dovrei uscire di casa e dargli il benvenuto.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-71596951953698395382019-03-19T10:36:00.003+01:002019-03-19T10:36:43.043+01:00FRONTIERE<i>(questo pezzo è uscito sulla Repubblica)</i><br />
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Non so se esista al mondo una frontiera più insanguinata delle Alpi. Anche in quest'angolo di nord-ovest, dove la Grande Guerra non è passata, i segni di altre guerre sono ovunque, confusi nel paesaggio ai segni del lavoro umano: ai muretti a secco, ai terrazzamenti, ai canali d'irrigazione che ora il bosco si sta riprendendo insieme alle vecchie ferite. A volte saltano fuori all'improvviso, come la palla di piombo che un amico ha trovato abbattendo un larice, ben conficcata nel tronco. Aveva forse trecento anni, quell'albero, e il mio amico ha bestemmiato quando ha sentito i denti della motosega mordere il metallo. Prima ha pensato a un chiodo, poi ha estratto dal legno una palla da moschetto che qualche soldato deve aver sparato nel corso dell'Ottocento. È strano immaginare i soldati tra questi boschi che ora sono delle lepri, delle volpi, dei caprioli, e da poco anche dei lupi. Come è strano immaginare il motivo per cui il lago lassù, che a 2500 metri riflette soltanto il cielo, è chiamato Lago della Battaglia, benché nessuno sappia più quale battaglia fosse. Ancora più in alto, verso i 3000, un giorno camminavo come piace a me, fuori dai sentieri, quando nel mezzo della pietraia ho trovato una gavetta di ferro arrugginito, con tanto di numero di matricola, tra gli ultimi nevai di luglio e le rocce venate di licheni. Quella era chiaramente una reliquia del Novecento. Sono state tutte guerre diverse, secoli diversi, che ora si confondono tra loro nel silenzio della montagna abbandonata. Non è un male che l'uomo con le sue guerre se ne sia andato altrove. Ora lassù è tutto delle aquile, dei camosci, degli stambecchi, delle marmotte e degli ermellini, il tronco del vecchio larice fa da fontana davanti a casa mia e la gavetta è un vaso di fiori appeso al balcone.
C'è un passo, poco oltre il villaggio dove abitiamo, che oggi separa soltanto due valli, due pascoli, due alpeggi, due fianchi della stessa montagna, ma per molto tempo ha separato due Stati (o Regni, o Imperi, o come si chiamavano allora). Abbiamo trovato in una vecchia cassapanca un documento in cui si stabiliva quanti soldati dovessero stare di guardia su quello e gli altri punti di transito dello spartiacque. Due o tre soldati sui passi più impervi, venti o trenta su quelli più battuti. Sul passo in questione ci sono una cappella e un muretto a secco, e chi ci sale oggi difficilmente immagina che quella cappella era un posto di guardia, quel muretto una frontiera. A guardar bene si distingue dai muretti che dividono i pascoli perché la sua faccia superiore non è in piano, è un po' inclinata verso valle. L'inclinazione serviva a sparare. Oltre il passo, scendendo di qualche metro sull'altro versante, nel prato dove le mucche pascolano e corrono le marmotte c'è un rudere che sembrerebbe una vecchia stalla, ma anche lì la forma è un po' strana, e i pastori lo chiamano ancora “l'ospedale di Napoleone”. Forse non di Napoleone in persona, ma certo di qualche suo soldato che attaccò e conquistò quel passo nel maggio del 1800, mentre gli austriaci dal muretto sparavano. A pochi passi dalla cappella c'è una madonnina, sotto la madonnina una targa che ricorda il passaggio non di eserciti, ma di uno scrittore: Lev Tolstoj che qui transitò il 20 giugno 1857, annotando sul suo diario “aria pura e rarefatta, suoni chiari sui monti, odori di segala e melissa, un ragazzo canta”.
Tanti altri che nessuno ricorda sono passati per le transumanze, per andare a lavorare da una valle all'altra, per emigrare in Francia o in Svizzera e per tornare a casa. Qualcuno, chissà, sarà passato per amore; qualcun altro per salvarsi la vita. Una famiglia di ebrei torinesi in fuga, nell'inverno del '44, salì al villaggio con l'idea di valicare poi quel passo e proseguire verso la Svizzera: un uomo, una donna e una bambina che il nonno del mio amico ospitò per qualche giorno nella sua stalla. Li teneva nascosti in attesa di qualcosa o qualcuno, forse una guida, un passeur, o una notizia dalla valle, o uno spiraglio di tempo buono in quell'inverno così rigido. I tre non erano preparati alla montagna, non immaginavano tanta neve. Il passo era impraticabile. Quella bambina che adesso è un'anziana signora ricorda ancora il buio, la stalla, i volti scuri dei montanari, l'altra bambina con cui aveva giocato per un po', la zia del mio amico. Alla fine rinunciarono, furono portati giù per tentare da un'altra parte, non so più come riuscirono a mettersi in salvo.
Da quel passo se ne vede un altro che sta proprio di fronte, e che è il luogo dove Primo Levi fu arrestato quello stesso inverno. Era il 13 dicembre del '43. Primo amava queste montagne: quassù assaggiò la “carne dell'orso” col suo amico Sandro, che è “il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”, quassù fece per tre mesi il partigiano e fu catturato in un rastrellamento, quassù continuò a tornare anche dopo il lager. Appena oltre il passo di Primo Levi si vede la piana d'Aosta dove Mario Rigoni Stern fece la scuola d'alpino e da dove nel giugno del '40 fu spedito al fronte, per il vigliacco attacco alla Francia già sconfitta dai tedeschi. Scendendo oltre il Piccolo San Bernardo si accorse di trovarsi sì oltre la frontiera, in un altro paese, sotto un'altra bandiera, ma sulla stessa montagna. “Dall'orlo di un bosco vidi un rustico fabbricato d'alpeggio, ma non c'erano mandrie né persone. La porta era spalancata, sul tavolo c'erano umili stoviglie sbeccate e i rimasugli di una fredda polenta; sul pavimento erano sparsi in disordine poveri capi di biancheria femminile. Provai vergogna verso chi aveva profanato quell'intimità, ma anche di me”. Avrebbe provato la stessa vergogna in Russia, andando a fare la guerra tra i contadini. Nei lunghi anni da soldato, e poi da prigioniero, Mario scoprì che al di là di ogni frontiera c'erano le stesse stalle, lo stesso bestiame, gli stessi mestieri, lo stesso attaccamento alla terra, lo stesso coraggio, la stessa dignità. “Al mondo siamo tutti paesani”, scrisse.
Ora lassù è tutto delle aquile, dei camosci e dei lupi. Qua e là anche degli esseri umani che restano o che tornano. Quegli uomini avevano sognato l'Europa come fine delle guerre tra fratelli, perché sulle montagne scomparissero le frontiere e restassero le culture, i boschi e i campi che sono il rapporto dell'uomo con la terra, le vite delle persone. Non vanifichiamo le loro sofferenze, non offendiamo la loro memoria infrangendo quel sogno.
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-17968686909876954822019-01-13T20:43:00.001+01:002019-01-13T20:44:04.239+01:00LA SCRITTURA DEL PAESAGGIO<i>(questo pezzo è uscito sulla Stampa)</i><br />
<i><br /></i>Ho scritto “Senza mai arrivare in cima” su un quaderno nero, a righe, morbido ma robusto, che mi aveva regalato Mauro Corona quasi un anno prima. Mauro era stato molto generoso con me all'uscita del mio romanzo: l'aveva letto ancora in bozze, aveva accettato di presentarlo in un festival letterario, e in quell'occasione mi aveva portato uno dei suoi quaderni e la sua penna preferita. Il quaderno era rimasto in baita, su una mensola vicino alla stufa, per un intero inverno e una primavera e un'estate, aspettando che il momento della scrittura tornasse. Quando lo incrociavo con lo sguardo mi sembrava che mi ricordasse la cosa più importante, e di non distrarmi troppo con tutto il resto. In autunno finalmente venne in Nepal con me: avevo davanti un lungo cammino su un altipiano al confine con il Tibet, e lì dentro volevo scrivere quel che avrei visto.<br />
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Non so se in qualche biblioteca esista un genere chiamato “scrittura del paesaggio”, nella mia sì. Su quegli scaffali custodisco i taccuini dei viaggiatori (Chatwin, Terzani, Tesson), le memorie dei luoghi abitati (Blixen, Hemingway), le osservazioni del mondo naturale (Thoreau, Rigoni Stern). Non importa che sia Parigi o la taiga siberiana, il paesaggio è ciò che abbiamo intorno, ciò che è fuori da noi: i grandi scrittori sono capaci di renderlo vivo, di costruire una relazione tra quel fuori e la propria personalità, la propria storia, indagando se stessi insieme all'anima di un luogo (Tiziano Terzani e l'Asia, Karen Blixen e l'Africa, Mario Rigoni Stern e l'Altipiano di Asiago). “La città non rispose”: così suona l'ultima riga di un vecchio racconto di Erri De Luca, che amo molto. Lo sguardo interroga, il paesaggio risponde o rimane muto; la scrittura del paesaggio è trascrizione di questo dialogo.<br />
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E c'è qualcos'altro che ho scoperto praticandola a mia volta. Sento che mi cura dalla claustrofobia del romanzo tanto quanto il viaggio mi porta via da casa. Voglio dire che anche il romanzo è una casa: è una casa che abiti per anni insieme ai tuoi personaggi, che esistono solo per te, dunque è una sorta di casa stregata; è una casa piena di specchi e senza finestre, perché la realtà che hai intorno non penetra in quelle stanze, sono versioni della tua stessa immagine quelle che ti circondano. Io certe volte non ne posso più di stare lì dentro, ho bisogno di uscire, camminare, respirare. Sento che la scrittura del paesaggio rappresenta questo per me, è un prendere aria che poi, a ben vedere, ha qualcosa a che fare con la parola <i>ispirazione.</i> Cercare ispirazione è cercare aria, uscire dalla propria casa ispira nuova scrittura.<br />
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In viaggio ho sempre un libro con me, o anche più libri, ma meglio se di un autore solo. Mi piace che diventi il mio compagno di viaggio. È un maestro che mi indica le cose e mi insegna a capirle, ma finisce per essere anche un amico intimo. Questa volta il libro era <i>Il leopardo delle nevi </i>di Peter Matthiessen, un autore poco conosciuto in Italia ma ben noto agli amanti di <i>nature writing</i> americano, e addirittura di culto in Nepal, dove il <i>Leopardo</i> è esposto in lingue ed edizioni diverse nella vetrina di ogni libreria (può sembrare strano, ma a Katmandu le librerie sono parecchie). Matthiessen sta al Nepal come Chatwin alla Patagonia, come Castaneda al Messico: quel tipo di viaggio esistenziale fu compiuto da Peter nell'autunno del 1973, a quarantasei anni, ufficialmente per andare a studiare le pecore azzurre dell'Himalaya e il leopardo loro predatore, intimamente per uscire da una lunga stagione di illusioni, e cercare ciò che non è illusorio nella montagna, nella solitudine, nel cammino, negli sperduti monasteri tibetani. Divenne un “pellegrinaggio in Oriente”, per usare un titolo di Hermann Hesse che quella tensione verso l'Asia l'aveva raccontata tra i primi, e un breviario per i pellegrini come me, che sarebbero venuti dopo. Io avrei ripercorso lo stesso sentiero di Matthiessen quarantacinque anni dopo. Lui, Hesse e Terzani erano gli autori che sentivo più vicini durante il cammino.<br />
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C'è molto tempo per leggere e scrivere in un viaggio del genere. Uno parte pensando che le giornate saranno faticose e impegnative, e questo è vero, ma non si può camminare in montagna per più di sei o sette ore al giorno, se lo si fa per venti giorni di fila. Uscivamo dalla tenda al sorgere del sole e poco dopo mezzogiorno piantavamo già il campo dove avremmo passato la notte. In un mondo senza telefoni, computer, televisori, mi pareva di essere tornato all'adolescenza, a quel tempo del tutto vuoto in cui per arrivare a sera non restava che parlare con un compagno, o aprire un libro. Il momento della scrittura arrivava verso il tardo pomeriggio. Una borraccia di whisky scozzese era il mio unico genere di conforto, la centellinavo perché arrivasse alla fine: al freddo dei quattromila metri, con la tosse e la febbriciattola che vengono sempre in alta quota, bevevo whisky diluito in acqua bollente, un toccasana. Nel quaderno non mettevo alcun pensiero. Mi ero dato la regola ferrea di descrivere soltanto quello che vedevo, insieme al divieto di fare fotografie. Volevo che la macchina fotografica fosse il mio occhio collegato alla mia mano, e nel tempio più sacro che incontrai, una sorgente che scaturiva da una parete di roccia dove tutto era arido e deserto, mi bagnai le palpebre e le labbra ed espressi questa preghiera: <i>fa' che io abbia occhi buoni per guardare e fa' che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto.</i> Sento che lì c'è il senso della mia scrittura.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-41430297055910369512018-12-25T20:06:00.001+01:002018-12-25T20:10:27.847+01:00IL RICHIAMO DELLA FORESTA<i>(questo pezzo è uscito su </i>A rivista anarchica<i>)</i><br />
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<i>Il richiamo della foresta</i> è il festival che organizziamo nei boschi di Estoul, il villaggio della Valle d'Aosta dove abito da una decina d'anni. Nel tempo si è trasformato per me da ritiro personale a centro di molteplici relazioni, e fu tra cinque amici, nell'inverno del 2017, che nacque il desiderio di portare in montagna il lavoro che avevamo sempre fatto in città. Avevamo esperienze diverse e un legame comune con la Scighera di Milano, glorioso circolo libertario della Bovisa, dove alcuni di noi si erano fatti le ossa. Con quel modello in testa avevamo tentato, senza successo, di prendere in gestione un rifugio alpino, progettando di trasformarlo in laboratorio culturale d'alta quota. Così aggiustammo la mira: anche senza il contenitore, o in attesa di trovare quello giusto, non potevamo cominciare a lavorare sui contenuti? Di qui l'idea di fondare un'associazione culturale, che battezzammo <i>Gli urogalli, </i>e organizzare un festival a 1800 metri d'altezza. Estoul si trova su un piccolo altipiano in gran parte utilizzato per il pascolo, un paesaggio aperto e raro per la Valle d'Aosta. Avevamo in mente il luogo adatto, una radura circondata da un bosco di larici di proprietà comunale. Parlando con il sindaco di Brusson l'idea divenne più concreta: il bosco poteva essere usato come campeggio, e la radura, dotata dei servizi necessari, poteva ospitare il festival.
Sarebbe noioso benché istruttivo raccontare il lungo lavoro che seguì: gli incontri con gli assessori comunali e regionali, con i consiglieri di una fondazione bancaria, con gli imprenditori a cui chiedere una sponsorizzazione, con i donatori privati; la campagna di raccolta fondi e gli eventi di finanziamento. La bella idea si era rivelata costosa, perché un conto è fare un festival in un circolo a Milano e un altro attrezzare un ambiente selvatico con palco, tensostrutture, bagni, cucina, impianti e generatori, invadendolo con grande dispendio di risorse (e questa è la contraddizione che, personalmente, sento più dolorosa). In ogni caso, né i finanziatori né le istituzioni ci imposero o vietarono nulla rispetto ai contenuti, per cui la fatica di dover gestire questi rapporti fu ripagata dalla libertà di fare quello che volevamo.
Che cosa volevamo fare? Portare arte, musica, libri, teatro, fotografia nei boschi, e portarci anche il discorso sul nostro vivere comune che ci ostiniamo a chiamare politica. Parlare di montagna “come occasione di libertà e bellezza”, scrivemmo nel manifesto. Volevamo, soprattutto, condividere dei giorni e questi luoghi con persone appassionate, respirare libertà e bellezza insieme a loro, fondare relazioni da coltivare nel tempo. Nelle nostre intenzioni la montagna non era tanto il fine quanto il mezzo, ciò che avrebbe tenuto insieme questa comunità effimera, con la speranza di renderla sempre più solida e duratura. Avevamo già scoperto da tempo che in alta quota nascono grandi amicizie.<br />
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Per questo, nelle prime due edizioni del festival (quella “del lupo” nel 2017 e quella “del camoscio” nel 2018, dalle locandine dipinte dall'amico Nicola Magrin), una parte importante è stata data al racconto di esperienze di ritorno e vita comunitaria, in montagna o in ambiente rurale. Nuovi montanari italiani e stranieri accanto a realtà storiche come la comune agricola di Urupia, in Salento, o il villaggio ecologico di Granara sull'Appennino parmense. Chi studia e sostiene i progetti di ritorno, chi in montagna ospita e fa formazione: l'associazione Dislivelli di Torino, la fondazione Nuto Revelli di Cuneo (ma la sua sede simbolica è il borgo di Paraloup in Valle Stura), il centro studi valdese di Agape in Val Pellice. Abbiamo ascoltato racconti di giornaliste e antropologhe, viaggiatrici e montanare (Linda Cottino, Irene Borgna, Michela Zucca, Anna Torretta, Marzia Verona) e di ragazzi che negli anni Settanta avevano fatto del loro andare in montagna un atto politico, di protesta e di liberazione (Enrico Camanni). E ancora abbiamo provato a raccogliere le voci della montagna ribelle, quella storica delle minoranze, delle resistenze, delle eresie, e quella che oggi lotta in Val Susa o in Kurdistan. Abbiamo ricordato i maestri a cui siamo legati – Mario Rigoni Stern, Primo Levi, Tiziano Terzani – e imparato cos'è l'alpinismo secondo Hervé Barmasse, Nives Meroi, Romano Benet: esplorazione del rapporto tra uomo e ambiente selvatico, e tra esseri umani che vanno in montagna insieme. Più che esaurire l'argomento, ci è sembrato che ogni voce aprisse a tante altre possibilità di racconto, e innumerevoli sono le strade da battere in futuro.
Dovrei ancora raccontare del teatro, dei concerti, dell'arte dal vivo, delle mostre fotografiche, ma anche dei balli a notte fonda e dei risvegli dopo i temporali. Sono state circa cinquecento, lo scorso luglio, le persone che hanno partecipato al festival in tenda, in un campeggio del tutto autogestito e sparso per i boschi intorno alla radura. Credo che la notizia migliore sia proprio l'esistenza di questa gente, così appassionata da sopportare per tre giorni le asperità della montagna e così rispettosa da lasciarla, alla fine, senza nemmeno un segno del proprio passaggio. Per uno come me è stato come vedere una piccola anarchia realizzata.<br />
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Erri De Luca ha chiuso il <i>Richiamo</i> di quest'anno (o aperto il prossimo, ha detto lui) parlando di geografia e di migrazioni, e dipingendo un grande sud del mondo che si estende molto al di là dell'emisfero australe: è il sud delle periferie urbane, dei mari solcati dagli uomini, delle coste lungo cui si mescolano, delle montagne che attraversano. “Le montagne, bordi della terra, prove della sua forza d'elevazione, margini in cui l'umanità si incontra”: ecco gli appunti che ho preso durante il discorso di Erri. I bordi, i margini, le periferie del mondo: sono i luoghi che ci interessa coltivare perché li sentiamo più fertili e tolleranti, aperti alle possibilità d'incontro, vivi come questa montagna in festa. Per il silenzio e la solitudine occorrerà passare un'altra volta.<br />
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Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-34861688857908326512018-11-28T19:18:00.003+01:002018-11-28T19:18:57.540+01:00LE STORIE CANTICCHIATE DELLA VITA QUOTIDIANA<i>(questo pezzo è uscito su Robinson)</i><br />
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Ci dev'essere un'anima femminile nel racconto breve, in quest'arte di collezionare frammenti di esistenze, setacciare rivolte e silenziose illuminazioni, registrare sulla pagina la musica della vita quotidiana. O canticchiarla facendo altro, avrebbe detto Grace Paley, così disposta a lasciarsi distrarre dal mondo da avere prodotto appena tre raccolte di racconti in trent'anni di lavoro: <i>Piccoli contrattempi del vivere</i> (1959), <i>Enormi cambiamenti all'ultimo momento</i> (1974), <i>Più tardi nel pomeriggio</i> (1985), che oggi l'editore Sur ripubblica in un unico volume (<i>Tutti i racconti</i>, nella nuova traduzione di Isabella Zani). Quarantacinque piccole storie che fanno brillare il nome di Grace Paley nel firmamento americano del Novecento: per usare un'immagine di Raymond Carver, che della materia se ne intendeva, ecco una delle stelle con cui orientarsi quando si leggono racconti, o si cerca di imparare a scriverne.<br />
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Quelle storie sono un tutt'uno con l'epopea di New York nel Novecento. Figlia di ebrei ucraini fuggiti dalla Russia all'epoca degli zar, Grace era nata nel Bronx nel 1922, ovvero quando la città si avviava a diventare, senza che nessuno l'avesse programmato o previsto, il più grande esperimento di convivenza sociale del secolo. A New York allora vivevano sette milioni di persone: due di ebrei dell'Europa Orientale, uno di italiani, mezzo di afroamericani; tanti altri stavano per arrivare dall'Asia e dall'America latina. Nei racconti di Grace Paley furono voci, schiamazzi, litigi, chiacchiere, risate, grida. Il Bronx, Brooklyn, il Lower East Side risuonavano di lingue e dialetti, le radici si smarrivano o forse si intrecciavano, i figli propri si mischiavano con quelli altrui, il vecchio mondo sopravviveva nei riti e nella nostalgia. In un racconto di una sola pagina, <i>Madre</i>, i genitori di Grace ascoltano Mozart in salotto, dentro casa c'è la vecchia Russia polverosa, per strada New York brulica di vita: lui, medico, ha ricevuto pazienti tutto il giorno; lei ha appena lasciato il negozio per la cucina. Canta, le dice lui, una volta cantavi così bene. Lei non risponde. Sembrano smarriti e un po' stanchi. Ma dove siamo? Dopo trent'anni a lui pare ancora di essere appena sceso dalla nave, di avere appena ridato l'esame di anatomia in inglese. Lei è preoccupata per la figlia adolescente, testarda, infatuata di idee rivoluzionarie, una ragazza che torna tardi la sera, ormai così americana. Ci può stare tutto questo in un racconto di una sola pagina? Sì, nelle mani di un artista.<br />
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Le origini, gli ambienti, l'umanità che li abita fecero rientrare Grace Paley, all'inizio, in una corrente che a New York nasceva nel secondo dopoguerra, quella della letteratura ebraico-americana. Negli stessi anni esordivano Bernard Malamud, Saul Bellow, Philip Roth, il lettore americano familiarizzava con le massime talmudiche e la cucina kosher, in città lo yiddish era la seconda lingua dopo l'inglese. Grace però non intendeva proseguire su quella strada. Poco più che ragazza si era sposata ed era andata a vivere al Greenwich Village, quartiere di artisti, scrittori, intellettuali, culla della Beat Generation; aveva fatto due figli ma poi il marito se n'era andato, lei era rimasta sola con i bambini. Intorno, ancora una volta, la città ribolliva. La strada chiamava e restare in casa non era proprio possibile, nemmeno se eri una giovane madre divorziata e lavoratrice. Al Village fin dagli anni Cinquanta si era formato un comitato in difesa del parco di Washington Square, la piazza che è il cuore del quartiere e che un'autostrada urbana avrebbe dovuto sventrare: per la prima volta nella storia newyorkese un gruppo di cittadini, principalmente donne, si opponeva a un progetto di lavori pubblici, e fece tanto di quel rumore che finì per averla vinta. Negli anni Sessanta un movimento sempre più grande si formò intorno a quel nucleo originario: per il diritto alla casa, alla scuola, agli spazi di socialità urbana, e poi contro la guerra in Vietnam e l'uso dell'energia atomica. Grace in quel movimento fu sempre in prima fila, tenne discorsi e scrisse manifesti, fu arrestata più volte. Faith Darwin, il suo alter ego letterario, in un racconto è <i>Faith sull'albero</i>: proprio un albero del parco di Washington Square, arrampicata lassù mentre osserva le donne, le sue amiche, i figli che sono figli di tutte, bambini che giocano tra madri che chiacchierano tranquille, e lei sola è lassù a fare la sentinella, angosciata da ciò che sta per capitare. Si sentiva spesso sull'orlo di una tragedia storica, un disastro ecologico, una fine del mondo; chissà se in quell'angoscia c'era anche un ebraismo risvegliato da ciò che era successo in Europa.<br />
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Ma non le interessò mai definirsi ebrea, piuttosto newyorkese, e donna più che scrittrice. E femminista, ambientalista, anti-militarista, tutte declinazioni della stessa non-violenza che fu sempre il suo credo.
Negli anni Ottanta la comunità letteraria cominciò a tributarle il giusto riconoscimento. Grace intanto si era risposata con un compagno di penna e di battaglie che sarebbe restato con lei fino alla fine, giunta in tarda età, nel 2007. Viveva ancora al Village e ancora distribuiva volantini all'angolo della sua strada. Smise di scrivere racconti e si dedicò ad altri amori, la poesia e l'insegnamento: una sua studentessa fu A.M. Homes che la ricorda come maestra di rigore morale, attenzione verso l'altro, responsabilità, ascolto. Una donna per cui la scrittura veniva dopo le persone e correva dietro alla vita, una newyorkese per cui il richiamo del mondo là fuori era sempre stato troppo potente per starsene sola a casa a scrivere storie.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-83059785946305988822018-11-06T10:10:00.004+01:002018-11-06T10:12:36.839+01:00SENZA MAI ARRIVARE IN CIMADa qualche anno i miei libri preferiti sono libri di viaggio. Le vite dei lettori hanno stagioni, e a un certo punto della mia l'interesse si è spostato dalle storie allo sguardo, alla scrittura intesa come esplorazione di sé e del mondo. La narrativa di viaggio è un vecchio genere, forse è il viaggio stesso ad appartenere a epoche più romantiche della nostra, e io sono legato ad autori per cui viaggiare era un'arte e una filosofia, qualche volta un mestiere, sempre un modo di vivere. Della scrittura di viaggio, mi piace che nasca da un'attentissima osservazione. Ma l'osservazione non basta, per farne racconto il paesaggio deve dialogare con chi lo attraversa, diventare specchio di un paesaggio interiore. Direi che i grandi racconti di viaggio mettono in relazione un luogo e una personalità memorabili. I miei preferiti: <i>Festa mobile</i> di Hemingway e <i>La mia Africa</i> di Karen Blixen, <i>In Patagonia</i> di Chatwin e <i>Nelle foreste siberiane</i> di Sylvain Tesson, <i>Il leopardo delle nevi</i> di Peter Matthiessen e <i>Un indovino mi disse</i> di Tiziano Terzani. Gli ultimi due mi sono molto cari da quando la ricerca del viaggio mi ha portato in Himalaya. “Per tornare viaggiatori bisognerebbe ritornare a essere come gli unici veri viaggiatori”, disse Terzani: “i pellegrini.” Ho trovato il mio pellegrinaggio e il racconto che ne ho scritto intende essere, anche, un dialogo con Tiziano, che considero un maestro dell'arte di viaggiare, di cercare, di osservare e voler capire, di interrogarsi, di amare il mondo e la sua varietà, di rendere la scrittura uno strumento di tutto questo. Il libro si intitola <i>Senza mai arrivare in cima</i> ed esce oggi. Parla di quel che cerchiamo quando andiamo in montagna, e di qualche altra cosa. Il mio amico Nicola è riuscito a essere allo stesso tempo un personaggio del libro, il suo destinatario e l'autore della copertina; sono contento che sia, anche, un libro sull'amicizia.<br />
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Infine, è un libro che aiuta delle persone. Con i guadagni sostengo due associazioni che ho conosciuto in Nepal: <a href="http://www.sanonani.house/home.html" target="_blank">Sanonani House</a> e <a href="https://apeirononlus.it/project/risposta-allemergenza/project-3/" target="_blank">CASANepal</a>, due Onlus italiane che operano a Katmandu, case-famiglia per bambini e donne vittime di violenza. Quel piccolo paese ai piedi dell'Himalaya mi ha dato tanto, nella vita e nella scrittura, e in questo modo spero di potergli ridare qualcosa indietro.<br />
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“Tashi delek” è il saluto tibetano, vuol dire più o meno “Buona fortuna”, e in Nepal lo si sente quando, superata una certa quota, si entra nel mondo dell'alta montagna e anche l'umanità cambia. Cambiano i volti, gli abiti, cambia la lingua, compaiono gli yak al pascolo e i segni di devozione che si agitano al vento. Il “Namasté” delle pianure e delle valli cede il passo al saluto dei montanari: lassù è ormai Tibet, il regno perduto. Dunque, <i>tashi delek</i>.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-80770814999122442652018-09-09T00:44:00.002+02:002018-09-09T00:44:37.984+02:001999<i>(Questo pezzo è uscito su Repubblica Milano del 5 settembre)</i><br />
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Nel 1999 avevo ventun anni, ero appena uscito dalla scuola di cinema e con un amico girai un documentario in cui alcuni “ragazzi del '77” ci portavano, ormai quarantenni, nei luoghi della loro formazione a Milano. Ero affascinato tanto da quella generazione quanto dalla mia città a quell'epoca, dalle parti di lei che avevano generato o accolto i movimenti giovanili degli anni Settanta, i centri sociali, le radio libere, gli esperimenti di autogestione. Leggevo “L'orda d'oro” di Nanni Balestrini e Primo Moroni, “Costretti a sanguinare” di Marco Philopat, “Zone Temporaneamente Autonome” di Hakim Bey. Molti dei luoghi che esplorammo in quel documentario erano nel Ticinese, proprio intorno alla libreria Calusca di Primo Moroni, con la topografia politica del quartiere che scoprivo allora: via Torino in cui sfilavano i cortei del sabato, via De Amicis ferita dai colpi di pistola, via Santa Marta in cui rifugiarsi dalle cariche della polizia, piazza San Giorgio ritrovo dei primi punk di Milano. Ma c'era anche il Virus di via Correggio (ci ero cresciuto accanto!), il Parco Lambro dei festival nel fango, la Statale in cui una ragazza aveva cominciato a far politica, lo slargo di via Padova in cui un ragazzo si era fatto il primo buco. A ventun anni imparavo daccapo la città in cui ero nato, mi dotavo di occhi nuovi per guardarla. Me ne innamoravo, anche, dopo un'adolescenza in cui era stata per me una città fredda e distante, e mi preparavo a impossessarmene, a esercitare il mio diritto generazionale.<br />
Oggi il quarantenne sono io e chissà cosa racconterei a un ventenne del 2019, se mi chiedesse dove mi sono formato a Milano, che cosa succedeva nel mio mondo allora, quali erano i posti importanti per me. Forse gli direi che nel 1999 il baricentro della città, quanto a Zone Temporaneamente Autonome (quelle che si liberano finché dura, e poi si scappa), sembrava essersi decisamente spostato da sud a nord. Il Ticinese ormai si divideva tra reduci dei bei tempi andati e Milano da bere. Al suo posto c'era l'Isola, magari, ma in pochi allora la chiamavano così, era solo il pezzo di città tra via Farini e Melchiorre Gioia, la Stazione Garibaldi e il Monumentale: uno strano quartiere fatto di scali ferroviari e cimiteri, edifici pubblici dismessi, erbe infestanti che spuntavano nell'abbandono. Era proprio quel genere di vegetazione che interessava a me.<br />
Per qualche anno fu la parte di Milano in cui tornai più spesso, quasi sempre di sera. In via Don Sturzo c'era il Deposito Bulk, occupazione di una scuola in disuso, dove noi ragazzi bevevamo e ballavamo tra le vecchie aule e i corridoi, sembravamo i bambini liberati di “Another Brick in the Wall”. All'Isola di centri sociali ce n'erano ben due: Pergola e Garigliano con la musica, la cucina, il cinema, i concerti reggae, la birra a tremila lire. C'era Metropolix, ostello autogestito in piazza Minniti, da cui passava gente di tutto il mondo. Ma quello a cui mi affezionai di più era un posto che si chiamava Stecca degli artigiani, un'altra occupazione su via Confalonieri, una vecchia corte di officine che in parte ospitava ancora meccanici e falegnami, in parte un circolo culturale. Durò qualche anno e riuscii perfino a festeggiare lì alla Stecca l'uscita del mio primo libro, nel 2004. Poco dopo fu sgomberata e demolita per fare spazio al progetto a cui ci eravamo opposti per tutto il tempo, il cosiddetto Bosco verticale, cioè i due condomini per milionari che ora sorgono al suo posto.<br />
Ecco, questo è il giro che la mia memoria ha fatto quando Piero Colaprico mi ha chiesto: vuoi scrivere un pezzo su quel che pensi di piazza Gae Aulenti? Ma certo, ho risposto, prima di rendermi conto che di quella piazza non ho quasi niente da dire. Non ho rapporti con lei. L'ho vista una volta sola e non ci sono più voluto tornare, così come evito di passare sotto il Bosco verticale (che io chiamerei, più correttamente, Orto). Il fatto è che non potrò mai guardare quel pezzo di Milano senza pensare a quel che c'era prima e a cosa significava per me, e forse è questa la prova definitiva che una città è la tua. È tua perché a un certo punto l'hai esplorata, hai trovato rifugio in certe sue strade, te ne sei innamorato. È tua perché hai difeso la parte di città che amavi – la sua anima, per come la vedevi allora – hai perso e ti sei sentito derubato di lei. È tua perché quando la guardi i tuoi occhi vedono in quattro dimensioni, e la quarta è il tempo: vedono la città di oggi sopra a quella di ieri, e le mettono in relazione.<br />
Non c'entra la nostalgia. È giusto che una città si trasformi, anzi più si trasforma e più è viva, e io riesco perfino ad apprezzare le forme dei grattacieli, a trovarli belli, a riconoscere in loro una prova dell'intelligenza e del gusto umani. Intanto però mi chiedo: che cosa si fa lì dentro? Che cosa si fa per Milano? Oltre quelle finestre ci sono luoghi aperti o chiusi, luoghi che possono essere anche miei o che saranno per sempre di qualcun altro? Scambiando la Stecca con l'Orto verticale, chi abita a Milano ne è stato arricchito o impoverito?<br />
Per fortuna nel tempo ho scoperto anche un'altra cosa, e cioè che l'anima di una città non muore, si sposta soltanto. Forse dovrei essere io a chiedere al ventenne del 2019 dov'è la sua città, di quale Milano si sta innamorando lui. E lasciarmi portare lontano dalla bellissima piazza Gae Aulenti.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-76053347445045195552018-08-15T18:48:00.000+02:002018-08-15T18:51:46.905+02:00Per l'Alpe DeveroCari amici del <a href="https://m.facebook.com/comitatotuteladevero/" target="_blank">Comitato Tutela Devero,</a><br />
sono con voi nella difesa del vostro splendido territorio di montagna dalla costruzione dell'ennesimo e distruttivo comprensorio sciistico.<br />
So di cosa parlo perché vivo in mezzo a pascoli che, d'inverno, diventano piste da sci: lo sci di discesa richiede una trasformazione profonda del paesaggio, la costruzione di strade, edifici, impianti di risalita, la presenza costante di mezzi a motore, il disboscamento e il livellamento di interi versanti della montagna. Non solo: lo sci senza neve artificiale non è più immaginabile, e questo significa la costruzione di grandi bacini idrici a monte delle piste, lo spreco d'acqua e di energia elettrica, lo scavo di lunghe condutture e l'installazione di cannoni su tutto il percorso. Alla fine di questi lavori (che poi si riveleranno infiniti, perché una pista richiede continua manutenzione) la vostra montagna sarà irriconoscibile.
Come capita dalle mie parti, immagino che la maggioranza degli abitanti della vostra valle sia a favore del progetto. Succede perché sono male informati e credono alle promesse di amministratori e imprenditori interessati solo al loro tornaconto. Progetti come questo danno lavoro, sì, ma solo a breve termine: qui a Estoul si discute da anni della convenienza del nostro impianto che, come in tanti piccoli comprensori, è sempre in perdita, prima o poi smetterà di essere sostenuto dal denaro pubblico e chiuderà. Allora nessuna amministrazione spenderà i soldi necessari a smantellarlo: ci terremo i piloni, le stazioni in cemento, le vasche dell'acqua, i versanti spianati, le strade, e la montagna impiegherà secoli a riprendersi quello che era suo, a rigenerare la propria bellezza. Agli abitanti della valle dovete spiegare questo: si stanno giocando una grande ricchezza, cioè la bellezza della loro montagna, per avviare un'attività economica che è in perdita in tutta Italia. Quella ricchezza la stanno togliendo a se stessi e ai loro figli, che non potranno riaverla indietro. Ciò che rovinate in questo modo, lo rovinate per secoli e secoli a generazioni di discendenti.<br />
Poi parlate ai montanari delle persone che arrivano sulle Alpi da ogni parte del mondo per vedere boschi, torrenti, rocce, animali selvatici, un paesaggio non toccato dall'uomo che è sempre più raro sulla terra. È un bisogno diffuso, in un'umanità sempre più urbana, e lo dimostrano i dati del turismo dolce che sono in crescita dappertutto. Una crescita lenta, che non porterà le effimere invasioni di sciatori delle domeniche d'inverno, però solida, radicata, rispettosa del vostro territorio, non a rischio di fallimento. È quello il futuro. La conservazione della vostra montagna non è solo ecologia: è anche il vostro futuro economico, un paesaggio integro varrà sempre di più nei prossimi anni e ancora di più per i vostri figli, varrà oro.<br />
Un abbraccio<br />
Paolo
Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-72300087497497936522018-08-06T11:31:00.001+02:002018-08-06T11:36:22.635+02:00TRE SEDIEIl momento più difficile è quando vanno via tutti. I tavoli vuoti, l'erba piegata dove c'erano le tende, lo striscione nell'aria che minaccia pioggia. Allora i boschi intorno alla baita tornano al loro silenzio, io alla mia solitudine. È la stessa di prima ma è dura abituarsi di nuovo a lei, dopo tre giorni in cui migliaia di persone hanno popolato questa montagna: hanno dormito, mangiato, bevuto, discusso, cantato, ballato nei boschi in cui di solito cammino solo. Sono i luoghi in cui vado a scrivere, o meglio a osservare e pensare, che è l'inizio della scrittura: questo per me è il camminare. È un rapporto silenzioso con il paesaggio e per questo sono sempre stato un camminatore solitario. A lungo ho praticato la montagna come allontanamento, un andar via dagli altri, una forma di eremitaggio, di immersione nel mondo interiore.<br />
Però, a un certo punto, qualcosa è cambiato. È successo quando in montagna ho cominciato ad abitarci. La solitudine è buona se dura un giorno, un mese, un anno, se è una stanza tutta per te in cui sei libero di entrare e uscire, non se è una condanna di cui non vedi la fine. Nemmeno il vecchio Thoreau aveva davvero la stoffa dell'eremita, se della sua capanna sul lago Walden scrisse: “In casa mia avevo tre sedie: la prima per la solitudine, la seconda per l'amicizia, la terza per la società.” Dopo un po' di solitudine era tornato anche a me il desiderio di amicizia e società, però non volevo scendere in città per ottenerle. Volevo vedere se, a mettere le tre sedie nel bosco, qualcuno ci si sarebbe seduto.<br />
Questa è l'origine dell'associazione culturale di cui faccio parte, “Gli urogalli”, del festival che organizziamo e dell'ostello che stiamo costruendo a Estoul, la frazione di Brusson dove abito da dieci anni. Abbiamo battezzato il festival “Il richiamo della foresta” con l'idea che, prima che un programma culturale, proponesse alle persone un luogo e un tempo da condividere: si sta per tre giorni nei boschi, si fondano relazioni, si sperimenta una comunità effimera perché poi magari i giorni si trasformino in settimane e mesi, l'effimero in duraturo. Dovrei aggiungere che siamo persone di idee libertarie (alcune preferiscono dire anarchiche, altre tenersi le idee ma non definirsi in alcun modo). Per questo, tra i tanti modi di parlare di montagna, più che la chiave naturalistica, alpinistica, antropologica, letteraria, che pure ci interessano, abbiamo scelto quella sociale e politica. Che significa chiedersi: a quali bisogni risponde il nostro andare in montagna? Che relazioni genera? Che cosa vogliamo, noi che ci andiamo ad abitare? Come possiamo costruirlo insieme?<br />
Non siamo certo i primi a farci queste domande, ed è bene sapere cos'è successo a chi ci ha preceduti. Enrico Camanni ha inaugurato il festival raccontando del movimento del Nuovo Mattino e di quando, negli anni Settanta, dai ragazzi della contestazione nacque un nuovo modo di scalare, un atto di gioia, amicizia, ribellione, libero dalla retorica della conquista. Linda Cottino ha parlato di alpiniste, delle loro storie sconosciute, della necessità di riempire quel vuoto che è la narrazione della montagna femminile, e Irene Borgna dei montanari tra cui lei stessa, donna e cittadina, è andata ad abitare, riuscendo con pazienza a esserne accolta. I villaggi di Urupia, Granara, Agape e Paraloup hanno portato esperienze di ripopolamento e vita collettiva sulle Alpi e sugli Appennini e mostrato come la montagna possa essere luogo non di arretratezza e chiusura, ma di diversità, tolleranza, sperimentazione; o di resistenza e di lotta, in Val Susa come in Kurdistan, nei racconti di Michela Zucca, Ezel Alcu, l'editore Tabor, la rivista Nunatak. Infine Nives Meroi e Romano Benet hanno raccontato del loro matrimonio di montagna, di come nasce l'amore sulle rocce della Carnia e di cosa diventa sui ghiacciai dell'Himalaya e del Karakorum, ed Erri De Luca ha chiuso il festival (o aperto il prossimo, dice lui) parlando di geografia e di migrazioni, e descrivendo un grande sud del mondo che si estende molto al di là dell'emisfero australe: è il sud delle periferie, dei mari solcati dagli uomini, delle coste lungo cui si mescolano, delle montagne che attraversano. “Le montagne, bordi della terra, prove della sua forza d'elevazione, margini in cui l'umanità si incontra”: ecco gli appunti che ho preso durante il discorso di Erri. C'è un'altra forza d'elevazione nel nostro paese, contraria a quella di gravità che lo tira verso il basso, e in questi tre giorni a duemila metri ha dato una piccola prova di esistere.<br />
Ora il bosco tace e io sono tornato alle mie letture e camminate, ai rari incontri e ai piccoli lavori. Salgo per i vecchi sentieri e il silenzio della montagna mi sembra vibrare di echi. So che, se li ascolto abbastanza a lungo, presto prenderanno corpo, diventeranno scrittura.
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-13581296683496573732018-06-16T11:02:00.000+02:002018-06-16T11:04:03.221+02:00DIECI ANNIOggi è il decennale della morte di Mario Rigoni Stern. Me lo ricordo bene, il 16 giugno 2008: era la mia prima estate in baita e m'innamoravo dei suoi libri, quando lui morì. Ma come, pensai, io sono appena arrivato e tu vai via? Non avrei più fatto in tempo a scrivergli, ad andarlo a trovare, ad ascoltare la sua voce, a bere un bicchiere di vino con lui: non mi restava che leggerlo, seguire le sue tracce, ricordarlo. Ho poi capito che questo poteva essere un compito che mi era stato assegnato, il compito della memoria che tocca a chi, come me, viene dopo. Cerco di svolgerlo meglio che posso. Quest'anno la casa editrice Einaudi mi ha fatto il grande onore di affidarmi l'introduzione a una nuova edizione del "Bosco degli urogalli", il primo libro di montagna di Mario, del 1962. Lo trovate in libreria. Ve ne riporto qui una parte, e spero che oggi tanti di noi brindino al ricordo di questo nostro maestro.<br />
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Il sergente maggiore Rigoni tornò a baita dalla guerra il 9 maggio 1945. Ci tornò a piedi, attraversando le montagne per raggiungere il suo Altipiano. Con sé non aveva più armi né divisa ma il cucchiaio d'ordinanza, una cintura di molti buchi più stretta di quando era partito e il cappello con la penna nera che portava dal primo dicembre 1938, data del suo arruolamento volontario come “aspirante specializzato sciatore rocciatore”. In sei anni e mezzo da alpino aveva partecipato agli attacchi contro la Francia, la Grecia, la Russia, era sopravvissuto alla ritirata nella steppa in cui erano morti tanti suoi compagni, dopo l'armistizio aveva rifiutato di aderire alla Repubblica di Mussolini e per questo era stato internato nei campi di prigionia tedeschi, dove dall'autunno del '43 aveva combattuto la sua personale Resistenza. Diventato soldato a diciassette anni, spinto dalla voglia di avventura e dal patriottismo di un adolescente, smetteva di esserlo a ventitré con l'aspetto e lo spirito di un reduce: non volendo più saperne di esercito, rinunciò alla carriera militare e andò in congedo definitivo. Dunque il sergente maggiore Rigoni tornò a essere Mario Stern, figlio di Giobatta, montanaro dell'Altipiano, al momento senza lavoro. Incredibilmente, era ancora un ragazzo.<br />
Così comincia <i>Una lettera dall'Australia</i>, uno dei racconti più belli di questo libro: “In quell'anno, il 1945, ritornavano a casa quelli che erano rimasti. Come nelle sere d'autunno ritornano alle stalle le pecore, le mucche e le capre a piccoli gruppi o isolate, così tornavano dalla Germania, dalla Russia, dalla Francia e dai Balcani quelli che la guerra aveva portato via e lasciato vivi. Chi era stato dalla parte dei fascisti si rintanava in casa e non aveva il coraggio di uscire; quelli che erano stati partigiani passavano cantando per il paese con fazzoletti rossi verdi attorno al collo, e quelli che ritornavano dalla prigionia sedevano in silenzio sull'uscio di casa a fumar sigarette e a guardare il volo degli uccelli.”<br />
Dunque Mario, disoccupato, aspettava. L'uscio è il punto della casa da cui si può scegliere se partire o restare, e in un'indecisione simile si trovava anche lui. Veniva l'estate, ma erano troppo presenti i ricordi per lasciarseli alle spalle e andare avanti. Aveva sofferto la fame e il freddo, la privazione della libertà, la violenza dei carcerieri. Questo era niente, aveva ucciso e visto morire: morti, tanti morti. Chissà se lo torturavano di più i nemici che aveva ammazzato o gli amici che non era riuscito a salvare? Di notte si svegliava gridando al pensiero dei morti. Quanto aveva camminato e quanta neve! A volte provava a raccontare, ma aveva già capito che nessuno voleva ascoltare le sue storie: tutti avevano avuto la propria parte di guerra e non ne potevano più della guerra degli altri. Così aveva messo via il manoscritto del lager, le pagine in cui furiosamente, quell'inverno, aveva trascritto i ricordi della ritirata di due anni prima. Era stata la neve a farglieli tornare in mente. Forse c'era davvero un libro, dentro quelle memorie sgualcite, ma adesso non era ancora pronto a rimetterci mano.<br />
Pensò che per il momento, dato che tra la gente non gli andava di stare, poteva andare a far legna per sua madre. A cavar ceppi, cioè sradicare i resti degli alberi abbattuti, legna utile e gratuita, però un lavoraccio: si dà di piccone tutt'intorno al ceppo e si tira finché la terra non lo lascia andare. Ad avercelo si fa prima con un mulo, e ancora prima, ad avercela, con un po' di dinamite. Ma lavorare era una cosa buona, aiutava a non pensare troppo e a rimettersi in forma, e poi stare in bosco da solo gli era sempre piaciuto. Così Mario si alzò dalla soglia, spense la sigaretta, buttò qualcosa nello zaino e andò in montagna.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-58937545962186058352018-05-17T20:23:00.000+02:002018-05-17T20:23:09.924+02:00LOUISDopo un inverno così nevoso da far tornare ricordi lontani alla memoria dei vecchi, la Val di Rhêmes in aprile è tutta segnata dalle valanghe. Sale da nord a sud, al rovescio, per quella destra orografica della Valle d'Aosta che chiamiamo appunto l'<i>envers</i>, gole ombrose e selvatiche tagliate dai torrenti tra pareti di roccia scura. Lungo la Dora di neve non ce n'è più, ma i versanti sono così ripidi da scaricare di continuo quella che si è accumulata su in alto, per canaloni e colatoi: le slavine scavano i pendii e portano giù terra, pietre, tronchi d'albero, perfino animali travolti e trascinati a fondovalle. “Ieri due camosci”, dice Louis Oreiller, come aggiornando il conto della primavera. Io alzo gli occhi a ogni borbottio di distacco, lui non ci fa nemmeno caso. A Rhêmes Notre-Dame, 1700 metri d'altezza, dove la valle si apre in una conca glaciale e concede un po' di dolcezza e di luce, quello delle valanghe dev'essere un rombo familiare.<br />
Louis ha 85 anni, tutti spesi ad ascoltare la montagna. È un vecchio magro e ha una barba bianca ingiallita dal tabacco, ma qui non si muore di fumo, si muore di vino e lui non beve come chi ne ha vista troppa di gente ammazzarsi in quel modo. Ha gli occhi azzurri, arrotola sigarette di trinciato, cammina con quel passo che io ho provato molto a imitare (lento, assorto, un po' curvo in avanti, il passo di chi ha sempre vissuto in salita e si ritrova a disagio nel piano), a vederlo non sai se dargli vent'anni di meno, per il fisico, o cento di più, perché c'è qualcosa di vecchissimo in lui.<br />
Dopo averla ascoltata per una vita intera, e averne imparato la lingua, ha scritto o meglio dettato a Irene Borgna il più bel libro di montagna che io abbia letto nell'ultimo anno. Si intitola “Il pastore di stambecchi” e parla una lingua strana, non c'entra il patois né la erre arrotolata della <i>petite patrie</i>, è una lingua che sembra venire da un altro paese. O da un tempo molto, molto lontano.
Quella montagna è qui fuori dalla sua finestra. Dai vetri della cucina, mentre la moglie di Louis prepara il pranzo sulla stufa a legna, osservo la Granta Parey, la piramide di roccia che chiude la Val di Rhêmes a sud, poco prima dei valichi che danno in Francia. Un'altra frontiera non si vede, tutta la destra della valle è dentro il Parco Nazionale del Gran Paradiso: fin da ragazzo, negli anni Cinquanta, Louis ha fatto avanti e indietro per quei confini come contrabbandiere e bracconiere, portando pelli da vendere o barattare, corna di stambecco per soldi, carne di camoscio per fame. È stato inseguito da gendarmi, doganieri, forestali, ha imparato a fuggire di notte e su sci di legno costruiti in casa, si è stampato in testa la mappa di tutti i passaggi segreti, tutte le scorciatoie e i nascondigli della montagna. Poi è passato dall'altra parte perché una volta quelli come lui li assumevano, così in un colpo solo ti levavi un problema e ne risolvevi molti altri: per quarant'anni Louis ha fatto prima il guardaparco, poi il guardacaccia nella riserva della valle, in alto su quei pendii da cui si staccano le slavine. Tutto il giorno lassù, quasi sempre da solo. Lui e la montagna.<br />
Io sono a mio agio seduto in questa cucina, mi è sempre piaciuto stare con i vecchi. Raccontami qualcosa di quello che hai sentito, gli chiedo. “La voce delle cascate”, dice lui. Come? “Se ascolti con pazienza, scopri che le cascate cambiano voce ogni due ore. Fino alle quattro di pomeriggio, poi tornano indietro. Però devi stare lì seduto tutto il giorno per sentirla cambiare.” E gli alberi, Louis, hanno una voce anche loro? “Ce l'hanno sì, tutto ha una voce, solo che noi non la sentiamo. Una volta ho tolto un pezzo di corteccia alla base di un larice, poi ho cominciato a battere con il rovescio dell'accetta e ho avvicinato l'orecchio alla pianta. Il colpo aveva come un'eco, andava su e tornava giù come un'onda. Ho poi scoperto che un albero morto non lo fa, lo fa solo un albero vivo.”<br />
Ora riaccende la sigaretta che si era spenta, e sento bene che è tabacco da pipa. Alle pareti, foto di famiglia e di montagna. Louis, Nathalie, il figlio Silvio, un lupo, un bivacco, tanta neve. Louis a quarant'anni aveva già i capelli bianchi e una bellezza dura, che adesso ha perso. Adesso è un vecchio dolce, non si può più immaginare la sua forza di un tempo. Parlami ancora, Louis, parlami delle rocce. “Le rocce, quante ne ho accarezzate. Tante volte ho traversato senza corda per dei posti da accopparsi. Appoggiavo la guancia alla roccia e chiedevo alla montagna di lasciarmi passare. Bisogna chiedere permesso e capire la risposta, se lei ti dice di no e non sai ascoltare è finita.” E la neve, anche quella hai ascoltato? “Ho lavorato tanto per il servizio valanghe, tutti i giorni d'inverno mandavo giù il grado di pericolo. Usavo gli strumenti in dotazione più qualche altro metodo. A contare gli strati di neve mi aveva insegnato un vecchio bracconiere, Elso, il mio maestro: ti tiri su la manica della camicia, affondi il braccio nella neve e li conti, uno per uno. A prevedere le valanghe mi hanno aiutato anche le femmine di stambecco, che scompaiono dalla montagna qualche ora prima del distacco. I maschi invece sentono la neve in arrivo, prima di una nevicata si mettono in cerchio intorno a un dosso e posano la testa verso l'interno, formano una specie di rosa con le corna. Sono sempre in numero dispari: tre, o cinque, o sette.”<br />
Ecco, in questo libro che commuoverà gli amanti della montagna ci sono stambecchi che fanno la rosa, c'è un corvo che attacca il cucciolo di camoscio agli occhi mentre la madre lo sta partorendo, c'è un ermellino che vendica i figli uccisi cogliendo la vipera quand'è in amore. C'è un sapere non tramandabile, che non erediteremo. Provo un terribile senso di perdita a pensare che questi montanari si portano via tutto quello che hanno imparato, e che noi non impareremo mai. Noi possiamo soltanto ascoltare questa voce che ci riempie di meraviglia e di rimpianto.<br />
Conosci la mia valle, Louis? Gli si illumina lo sguardo: non solo perché la mia, la Val d'Ayas, è sul dritto ed è tutta al sole. È che questi vecchi valdostani hanno sempre almeno un ricordo in ognuna delle nostre quindici valli laterali, posti in cui magari non tornano da cinquant'anni e di cui parlano come mondi lontani. “Sì, in quel lago del tuo libro ho fatto il guardapesca. Erano i primi anni Sessanta, mi ricordo tanti montanari in alpeggio. È ancora così?” Non te lo dico, non lo vuoi sapere. Parliamo dei vecchi amici, sono quasi tutti morti o <i>sono via</i>, come dicono quassù, come se morire fosse un po' partire. Fa un elenco di persone che conosceva nella mia valle, questo è via, questo è via, questo è via, finché ne nomina uno che è ancora qui. Quello sì, è vivo e vegeto, lo chiamano “Porca miseria”. È l'uso di soprannominare gli uomini con i loro tic verbali. Questo Porca miseria da noi è conosciuto perché anche dopo gli ottant'anni continua a litigare con tutti, qualche volta mena pure le mani.<br />
Vai ancora in montagna, Louis? “No, ho smesso sette anni fa. Ho fatto un lungo giro a salutare tutto. Sapevo che era l'ultima, sono stato su per un giorno intero.” Poi pensandoci gli scappa una frase: “Ma se torno...”, e io che amo il buddismo gli chiedo se davvero pensa che torneremo. “Non so”, dice. Poi ci riflette e risponde più deciso: “No, credo di no.” Ma ho colto nel frattempo uno sguardo di Nathalie, che si è voltata dalle sue pentole per vedere cosa rispondeva. Lui crede che forse torneremo, lei no e non vuole sentire bestemmie o eresie.<br />
Vado via dopo una mattina passata ad ascoltare questo vecchio e la montagna che parla attraverso di lui. La Granta Parey ha lo stesso nome del Gran Paradiso e vuol dire solo una cosa, montagna grande, non c'entra coi paradisi. La gente una volta non perdeva tempo a trovare nomi alle montagne.<br />
“Salutami la Val d'Ayas”, mi dice, mentre parto. Vieni tu una volta a salutarla, no Louis? “Ma come faccio, non sento più il piede del freno. La patente ce l'ho ancora ma in discesa credo di frenare e invece vado dritto. Meglio di no.” E se una volta ti vengo a prendere io e ti porto di là, a raccontare a un po' di ragazzi che cosa hai sentito in montagna? “Allora forse sì”. Bene. Allora organizzo. Forse c'è ancora tempo per imparare.<br />
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<i>(Louis Oreiller sarà ospite al Richiamo della foresta, il festival che con alcuni amici organizzo a Estoul in Val d'Ayas, il 21 luglio)</i></div>
<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com13tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-84424562798764863792018-05-09T13:25:00.001+02:002018-05-09T13:26:44.826+02:00IL FUTURO POSSIBILE<i>(questo pezzo è uscito su Montagne360)</i><br />
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Ormai da dieci anni affitto una baita a Estoul, in Valle d’Aosta, in mezzo a un pascolo che per tre mesi all’anno diventa una pista da sci. Come i montanari miei vicini salgo in primavera, ci abito per tutta l’estate e vado via in autunno, un po’ perché l’inverno rende la baita quasi impraticabile, un po’ perché lo sci non mi piace. Non nel senso che non mi diverte: ho imparato a sciare anch’io da bambino; ho riprovato una volta da grande scoprendo che sono ancora capace; ma qualcosa, nello sci di discesa, è contrario alla mia idea di rispetto per la montagna, incoerente con lo spirito con cui vivo lassù. Forse perché abitandoci vedo che cos’è una pista: per avere gli sciatori in una stagione sempre più breve, ormai ridotta a poche settimane tra gennaio e marzo, un versante della montagna è disboscato, spianato, percorso da condutture elettriche e idrauliche, sfigurato da impianti di risalita e cannoni per l’innevamento artificiale, cementificato da stazioni di partenza e d’arrivo, invaso da mezzi a motore. Ce la prendiamo con quelli che vanno in moto sui sentieri? Lo sci di discesa ha un impatto molto più violento sulla montagna. Non solo distrugge il paesaggio, ma consuma moltissima acqua, elettricità e gasolio. Vorrei perlomeno che gli sciatori lo sapessero. Perlomeno siamo consapevoli di quel che facciamo, poi possiamo decidere di farlo lo stesso (e prenderci le nostre responsabilità): lo sci di discesa è un modo antiecologico di andare in montagna.<br />
Da suo abitante, conosco bene anche il rovescio della medaglia: Estoul sarebbe un paese abbandonato senza lo sci. Quei pochi fine settimana in cui, se c’è il sole, salgono migliaia di turisti per fare su e giù sulle nostre pistarelle, mantengono per tutto l’inverno trenta o quaranta persone. Tutti i miei amici in un modo o nell’altro lavorano con lo sci: i bigliettai, gli agenti di rinvio, i gattisti, gli addetti alla sicurezza e all’innevamento, i maestri di sci, i noleggiatori di materiali, i proprietari e i dipendenti di un bar, due ristoranti e due affittacamere. Credo di non conoscere nessuno che a Estoul non dipenda dallo sci. Forse solo Anna che ha ottant’anni, quattro mucche e un cane, lei sì starebbe lo stesso lassù senza gli sciatori.<br />
Per cui il problema, oltre all’impatto dello sci, è il fatto che esista solo lo sci nelle nostre montagne spopolate di tutto il resto. E nel momento in cui mi oppongo ai progetti di nuove piste (ma parliamo anche di come rendere più ecologiche quelle vecchie), mi sento in dovere di immaginare un’altra economia possibile per il posto in cui abito. È uno dei grandi temi dei nostri tempi: come conciliare economia ed ecologia, rispetto della Terra e lavoro per l’uomo? Credo che cercare risposte ed esplorare possibilità sia il nostro compito di nuovi educatori, operatori culturali, imprenditori sociali della montagna. Ho scelto con cura queste parole che vengono dalla città, e che alla montagna sembrano estranee, perché penso che l’assenza di lavoro culturale e sociale faccia parte del suo impoverimento, e che proprio da qui si possa cominciare ad arricchirla e ripopolarla. Personalmente, insieme ad alcuni amici, ho fondato a Estoul un’associazione che organizza in estate un festival di arte, musica, e letteratura, e sto costruendo un rifugio alpino che vorrebbe diventare un presidio culturale d’alta quota. Ovvero un luogo in cui fare formazione (per esempio per i nuovi montanari o per chi vuole diventarlo), invitare i ragazzi delle scuole, ospitare artisti italiani e stranieri, proporre agli abitanti della valle un programma culturale e una sede in cui essi stessi possano partecipare alla vita associativa, e infine accogliere e far incontrare tra loro gli amanti della montagna. Che cosa c’entra tutto questo con l’economia? Io spero che c’entri, spero che sia un passo per portare alla montagna nuove idee, nuovi abitanti e nuovo lavoro, non pensandola più unicamente come luogo di divertimento e riposo, ma di rapporti sociali e produzione culturale. A me sembra che ne senta terribilmente la mancanza. <br />
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<i>(fotografia di Loïc Seron)</i>Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com21tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-37521728613820440982018-04-27T08:33:00.002+02:002018-04-27T08:55:49.070+02:00CAMMINATORE DI PERIFERIANessuno come chi ha un cane conosce i nostri quartieri di periferia. Li attraversiamo senza una meta per giorni e notti, sotto la pioggerella o il sole pallido o la foschia che avvolge i lampioni, e conosciamo ogni aiuola spartitraffico, ogni pezzetto di terra ai piedi di alberi malati, ogni prato spelacchiato al limitare dei parcheggi, perché è lì che i nostri cani ci portano, come profeti. Ci conducono alle piante infestanti cresciute nelle crepe dell'asfalto e alle pozzanghere chissà come fangose. Noi li seguiamo: siamo quelli che vagano all'alba tra le rotaie del tram, quelli che fumano sui marciapiedi di notte mentre un cane che non sembra di nessuno se ne va in giro. Il cane non è davvero <i>nostro,</i> noi non siamo i suoi <i>padroni.</i> Siamo amici silenziosi e nella solitudine ci facciamo compagnia.<br />
Io sono un camminatore di città per pochi mesi all'anno ormai. Sono nato e cresciuto a Milano, ho fatto in tempo a vederla nel Novecento e a venticinque anni, in cerca di un posto in cui abitare, ho scelto la Bovisa perché le case costavano poco, ma anche perché credevo davvero nella periferia. Nelle sue possibilità e nella mia presenza lì, nel calore che ci saremmo scambiati a vicenda. Ricordo la meraviglia di girare per le strade ai primi tempi e scoprire cascine, orti, ferrovie, fabbri, falegnami, bocciofile, tutto quello che chi odia Milano non sa, perché non l'ha mai visto. Imparavo la storia del quartiere dalle sue fabbriche abbandonate, dai vecchi che fanno i girasoli nella piazza dove il tram arriva e torna indietro, dalle lapidi sui muri delle case. Le lapidi sono sempre lì, anche adesso che quasi tutto il resto è sparito. Durante i miei inverni in città torno a osservarle ogni sera, traccio il percorso con Lucky per salutarle tutte: le lapidi dei partigiani e dei deportati nei campi di concentramento, su ogni lapide una corona di fiori che ogni primavera viene messa nuova, e poi per un anno appassisce fino alla successiva Liberazione. Le lapidi dei morti in quartiere: Luca, studente, raggiunto da un proiettile mentre correva a prendere l'autobus; Nicolò, vigile urbano, trascinato sull'asfalto da un furgone a cui aveva chiesto i documenti; Maria Luisa, ragazza, violentata e uccisa nel parcheggio della stazione. Loro sono i santi della periferia, in quelle lapidi è custodita l'anima del quartiere.<br />
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Ma questa non è una storia d'amore, è piuttosto la storia di quel che succede molto tempo dopo che l'amore è finito. Se il nostro abitare assomiglia al crescere delle piante, negli ultimi quindici anni a Milano ho visto sradicare metodicamente ogni germoglio, ogni rampicante, ogni arbusto che avevamo curato – le associazioni, gli spazi autogestiti, le fabbriche occupate, tutti i modi spontanei e infestanti in cui le persone mettono radici nelle città, e le rendono rigogliose e vive – e calare al loro posto monoliti dalle superfici lisce e luccicanti, un'ondata di gelo. Così a un certo punto me ne sono andato per disamore. Sono andato in montagna e ogni volta che torno trovo un pezzo di questa nuova città in più, un pezzo di quella vecchia in meno. Ecco, è la storia di uno di questi pezzi che volevo raccontare.<br />
So che è difficile da credere, ma alla Bovisa c'è un bosco. Lo chiamano la Goccia e si trova oltre la ferrovia, dentro quella che fu la Fabbrica del Gas, su quaranta ettari di terreno abbandonato dai primi anni Novanta. Siccome a Lucky d'inverno mancano i pascoli, i torrenti, le rocce della montagna in cui è nato, qualche volta andiamo di là a farci passare la nostalgia. Di sera intorno non c'è un'anima e possiamo entrare da uno dei tanti varchi nelle recinzioni, poi lui va a caccia di animali selvatici mentre io mi aggiro tra alberi di ogni specie. Platani, frassini, pioppi, tigli: ce ne sono migliaia, tra gli edifici industriali d'inizio Novecento e gli scheletri maestosi dei gasometri, insieme a tutto il sottobosco cresciuto in venticinque anni di abbandono. È incredibile come alla terra basti che l'uomo volti lo sguardo, lei non aspetta che una distrazione del suo grande nemico per tornare a germogliare e riprodursi: il bosco è popolato da volpi, lepri, ricci, serpenti, falchi, gufi. Siamo a cinque chilometri dal Duomo di Milano e Lucky insegue le lepri, e mentre lui corre finalmente libero io vado a vedere a che punto sono le ruspe. Vado a vedere quanto manca da vivere a questo nostro bosco segreto.<br />
È davanti a uno scavo profondo un metro, interrotto, ripreso, già di nuovo invaso dalle erbe, che ripenso alla mia storia alla Bovisa e a come io la ritrovi tutta quanta in ciò che sta succedendo qui. Di chi è davvero la città, di chi è il quartiere che abitiamo, chi ne decide il destino? In teoria noi: buona parte di questo bosco è comunale, ovvero è proprietà degli abitanti di Milano, e in molti chiedono da tempo al Comune, in tutti i modi possibili, di farne un parco. Ma il Comune ha altri progetti che non ha mai sottoposto alla nostra approvazione: costruire dei palazzi che nessuno ha chiesto, di cui nessuno ha bisogno, perché il quartiere è già pieno di case vuote. Insomma è come se questo nostro bosco non fosse davvero nostro, o come se chi governa la città non fosse lì per noi, per realizzare quello che desideriamo.<br />
Per non compierlo, questo dovere dei governanti, ci vuole una scusa: qui la scusa è che il terreno è avvelenato da un secolo di industria chimica e va bonificato, ecco perché le ruspe hanno già cominciato ad abbattere gli alberi e tirare su la terra per portarla via. Un metro di profondità per quaranta ettari di estensione fa quattrocentomila metri cubi: chi si prenderà, mi chiedo, tutta questa terra avvelenata di Milano? Come la ripuliranno dal veleno? E lasciarci crescere sopra un bosco, che già da un quarto di secolo ci affonda le radici, ne cava nutrimento, la ricopre di foglie e legno e vita animale, non era un modo più saggio, ecologico ed economico che distruggere tutto, rivoltare la terra, far partire migliaia di camion e lasciare una spianata? Ecco che cosa succederà dopo la bonifica: il nostro terreno sarà venduto a un costruttore ed edificato, mettendo un giardinetto tra un palazzo e l'altro per farci stare buoni. Questa è la storia della Bovisa nel nuovo secolo, si ripete ogni volta uguale, e non rende onore alla sua storia del secolo vecchio, né a quelli che qui hanno provato a coltivare pianticelle.<br />
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Ma ormai, come dicevo, io sono un suo abitante per metà. Questo è soltanto un ultimo bacio al mio quartiere spelacchiato. Sono contento che sia primavera e che tra un po' ce ne torniamo in montagna. Ciao, Milano.<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com16tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-61805662405776575632018-03-21T19:39:00.000+01:002018-03-21T19:47:45.710+01:00L'ULTIMO RECUPERANTEAlla fine, dopo averlo incontrato tante volte tra Estoul e Milano, Stefano Torrione l'ho conosciuto camminando, in quel piccolo Tibet in terra nepalese che abbiamo attraversato insieme. Credo che venti giorni a quattromila metri possano valere, per un'amicizia, come venti settimane o mesi a livello del mare. Di solito Stefano chiudeva la lunga carovana di uomini e muli con le sue macchine al collo e un bigliettino in cui si era trascritto la frase in nepali: “Sono un fotografo italiano, posso fare una fotografia?”. Ma o la frase era sbagliata o Stefano sbagliava la pronuncia, fatto sta che nessuno lo capiva: i montanari lo scrutavano mentre lui si intestardiva a ripetere questa frase incomprensibile, finché aveva buttato via il bigliettino per affidarsi al suo vecchio collaudato attrezzo del mestiere, il suo sorriso da figlio di buona donna. Con quello lo facevano entrare in tutte le tende, in tutte le capanne e i monasteri. Così, quando il sole scendeva tra le montagne e il momento sarebbe stato perfetto per un tramonto sull'altipiano lui di solito non c'era, era da qualche parte con un pastore di yak o una battitrice d'orzo o una filatrice di lana. Mi ricordava i fotografi d'altri tempi, quelli di guerra e dei grandi reportage antropologici: i paesaggi gli interessavano poco, preferiva gli esseri umani, ed era nei volti e nei corpi che i suoi occhi cercavano la buona fotografia.<br />
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Da quattro anni però Stefano sta facendo un lavoro dove gli uomini non ci sono, o meglio non ci sono più. Prima c'erano, ci sono stati. I volti sono rimasti negli elmetti, nelle maschere antigas, i corpi nelle baracche e nelle trincee, i piedi nelle suole di scarponi che spuntano dai sassi. Erano soldati, anche se la parte da cui stavano adesso non importa più; un secolo fa hanno combattuto su quel fronte della Grande Guerra tutto fatto di creste e di cime, di forcelle e pareti delle Alpi. Cent'anni sono tanti per le cose degli uomini, però la montagna ha la memoria più lunga della pianura. Ancora adesso dai ghiacciai in ritiro spuntano cannoni, mortai, granate, filo spinato, baraccamenti, e dai buchi e dalle grotte dove i soldati si accampavano emergono le loro cose. Sono queste le tracce che Stefano è andato a cercare, non con elicotteri o fuoristrada ma salendo sulle sue gambe. Una volta quelli come lui si chiamavano recuperanti, andavano in montagna a raccogliere il ferro il rame e il piombo dei residuati bellici per guadagnarsi da vivere: Stefano invece non porta giù niente, fotografa e basta. In quattro anni ha messo insieme un archivio prezioso per capire, ricordare, raccontare che cosa è successo sulle nostre montagne un secolo fa.<br />
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Ora ne fa un libro autoprodotto che si può ordinare <a href="https://www.kisskissbankbank.com/grande-guerra-bianca" target="_blank">qui</a>. È un gran bel progetto. Forza!<br />
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-37647323514394064342018-02-22T12:25:00.000+01:002018-02-22T13:26:07.287+01:00SULL'USO DELLE FORESTE"Strano che così poche persone vengano nei boschi a vedere come il pino vive e cresce sempre più in alto, sollevando le sue braccia sempreverdi alla luce - a vedere la sua perfetta riuscita. I più invece si accontentano di guardarlo sotto forma delle tavole portate al mercato, e considerano quello il suo vero destino. Ma il pino non è legname più di quanto lo sia l'uomo, ed essere trasformato in assi e case non è il suo impiego autentico e più elevato: non più di quanto lo sia per l'uomo essere abbattuto e trasformato in letame. C'è una legge più alta che riguarda il nostro rapporto con i pini quanto quello con gli uomini. Un pino abbattuto, un pino morto, non è un pino più di quanto il cadavere di un uomo sia un uomo. Si può dire che colui che ha scoperto i pregi dell'osso di balena e dell'olio di balena abbia scoperto il vero scopo della balena? O che colui che abbatte l'elefante per l'avorio abbia <i>visto l'elefante? </i>Questi sono utilizzi meschini e accidentali, proprio come se una razza più forte ci uccidesse allo scopo di fare bottoni e pifferi con le nostre ossa, perché ogni cosa può servire a uno scopo più vile oltre che a uno più elevato. Ogni creatura è migliore da viva che da morta, uomini e alci e alberi di pino, e colui che lo comprende appieno preferirà conservarne la vita anziché distruggerla."<br />
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(H.D. Thoreau, <i>I boschi del Maine</i>, 1864. Un contributo al dibattito sull'uso delle foreste: <a href="https://www.montagna.tv/cms/119090/nuova-legge-forestale-un-assalto-ai-boschi-italiani/" target="_blank">qui</a> e <a href="https://www.montagna.tv/cms/119197/enrico-borghi-basta-castronerie-sulla-legge-forestale/" target="_blank">qui</a> due voci diverse in merito al recente testo di legge.)<br />
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<i>foto di Loïc Seron</i></div>
Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com24tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-26877580906007838952018-01-06T14:51:00.000+01:002018-01-06T14:51:10.079+01:00FIOCCACaro Mario, come fiocca. Facendo i conti, da Natale in poi, direi che ne è venuta più di un metro, e altrettanta ne prevedono nei prossimi giorni. Una settimana fa era neve ghiacciata, piccoli cristalli acuminati spinti qua e là da un vento gelido, di quella che ti frusta in faccia quando vai per strada; oggi che fa più caldo viene giù fitta, a fiocchi spessi, e si accumula a vista d'occhio. Benché io passi parte della mia vita in questa baita a duemila metri, devo confessarti che non ho un buon rapporto con la neve: mi fa sentire isolato, rende l'andare in paese difficile o a volte impossibile, e anche camminare nel bosco è faticoso, quando a ogni passo affondi fino al ginocchio. Così resto in casa. Penso ai selvatici rintanati sotto alle barme. Guardo dalla finestra gli abeti carichi, hanno spalle di monaci curvi nelle tonache ben chiuse, e i larici spogli e slanciati che sono fragili creature estive e a volte si schiantano sotto il peso della neve, e nel pomeriggio ascolto il rombo delle valanghe. Le valanghe, se tutto va bene, cadono nei punti che sappiamo, e anzi le aspettiamo quando nevica tanto e loro non sono ancora cadute: è meglio dopo che prima, quando sono sospese in bilico sui pendii; è meglio quando ormai ferme e assestate intasano i canaloni. Le conosciamo così bene che potremmo dare a ogni valanga un nome. Eppure quel rombo è angosciante lo stesso: assomiglia a un tuono, o a un crollo fragoroso sopra la testa. Anche quando sai cos'è, viene istintivo cercare riparo.<br />
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Però, caro Mario, sono contento per i miei amici che lavorano con la neve. Qui tutti, in un modo o nell'altro, dipendono da lei, perfino chi d'estate pascola le mucche e d'inverno vende il formaggio agli sciatori. Erano preoccupati, in novembre, perché dopo un anno di siccità le vasche dell'innevamento artificiale erano mezze vuote, e non si sarebbe potuto sparare a lungo. Ora invece sparare non serve più e il mio amico cannoniere passa spesso a trovarmi, in sella alla sua motoslitta, sfaccendato in queste notti in cui il cielo fa il lavoro al posto suo. Chi si è beccato gli straordinari sono i gattisti che la sera incontro al bar e che poi fanno su e giù fino all'alba, perché gli sciatori all'apertura degli impianti trovino le piste battute: una passa davanti a casa mia e così a letto, di notte, vengo investito dai fari della grande ruspa che passa rombando, e se per caso sono in piedi vado alla finestra a salutare. Non è un disturbo, anzi: così come tutta questa neve mi angoscia, il passaggio di qualche anima mi fa compagnia. I gattisti poi li conosco, d'estate uno fa il muratore e l'altro sale in alpeggio con le mucche. Se non fossero in servizio, li inviterei dentro per un bicchiere.<br />
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Da me si beve vino e niente acqua: dopo un anno senza pioggia non solo le vasche dell'innevamento sono vuote, ma pure la mia fonte si è prosciugata. L'acqua nella baita arriva, o meglio arrivava, con il sistema più semplice del mondo: un tubo che parte da una sorgente un centinaio di metri più a monte me la portava in casa. Qui di acqua ce n'è sempre stata, non per niente il nome del villaggio è Fontane, eppure l'altro giorno ho aperto il rubinetto in cucina e ne è scesa sempre meno, finché l'ultimo filo incerto ha lasciato il posto al verso gutturale dei tubi vuoti. Allora ho messo le ciaspole, ho preso la pala e ho risalito la valletta di Fontane fino al punto in cui si trova, o dovrebbe trovarsi, la sorgente che dà il nome al villaggio; ho scavato nella neve e ho scoperto che là sotto era tutto asciutto. Il mio tubo nero sporgeva triste nel solco del ruscello che, normalmente, scorre estate e inverno in mezzo al pascolo. Avrei potuto parlarci dentro e salutare qualcuno nel bagno di casa.<br />
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Caro Mario, in dieci anni di montagna ho imparato che in queste situazioni due cose non bisogna perdere, la calma e l'ironia. C'è del ridicolo nell'essere sommersi dalla neve e senza acqua. Mi sono ricordato di quel verso del Vecchio marinaio in cui il naufrago nell'oceano si lamenta della sete: “Acqua, acqua dappertutto, e non una goccia da bere!”. Naturalmente ho provato la soluzione più romantica, ma ho scoperto che sciogliere la neve sul fuoco non conviene per nulla: impiega molto tempo, consuma troppo combustibile, e di una pentola di neve fresca non resta che un terzo o un quarto d'acqua, che poi nemmeno si può bere. Così mi sono avventurato giù in paese e ho comprato due taniche da quindici litri, che ora riempio a una fontana e poi trascino su fino a casa, caricandomele sulla schiena e pensando ai miei portatori nepalesi di un paio di mesi fa. Di un'acqua così preziosa si riscopre il valore: ne basta una tazza per lavarsi i denti, una pentola per lavare i piatti, un piccolo secchio per lo scarico del bagno. Per fare la doccia chiederò ospitalità a qualche amico.<br />
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<br />
Ho un lucernario, sul tetto, grazie a cui riesco a immaginare che cosa si provi a essere una creatura che vive sotto la neve, come le arvicole di cui trovo le tane al disgelo. Sopra il lucernario un po' di neve si scioglie per il calore della casa, e io immagino che succeda lo stesso con il calore del terreno: così, anche sotto uno strato molto spesso di neve, si formano camere d'aria, bolle dalle strane forme, gallerie che seguono chissà quali linee del calore. Il soffitto di neve di queste camere diventa più chiaro, se per qualche ora il cielo dà tregua e il sole comincia a scaldare, e si arriva quasi a sperare che presto quel soffitto si buchi, e arrivi primavera. Ma poi comincia a nevicare di nuovo, il soffitto della camera si ispessisce, sotto diventa buio. Allora le piccole arvicole e gli scrittori con il naso in su si rassegnano: sarà ancora lungo l'inverno.<br />
<br />
Caro Mario, è cominciato l'anno 2018 e con questo sono dieci che non ci sei più. Mi manchi moltissimo. Vorrei leggere le notizie dalla tua montagna, quello che pensi guardando il bosco, quello che scopri ancora alla tua età. Vorrei leggere degli inverni lontani che la neve ti fa tornare in mente, dei tuoi sentieri che nasconde alla vista, delle storie che ti racconta al mattino, rivelando passaggi notturni ai tuoi occhi da cacciatore. Qui da me viene solo la volpe, ogni tanto, a vedere se nella ciotola del cane è rimasto qualche avanzo. Dicono che siano tornati i lupi, io però non li ho ancora visti e non ci tengo, se devo essere sincero. Fuori fiocca, caro Mario, e io bevo un bicchiere alla tua salute e penso a tutte le cisterne e le vasche segrete della montagna, alle grotte gorgoglianti, ai torrenti sotterranei, a quel che c'è prima delle sorgenti: a tutti questi pozzi che un anno senza pioggia ha lasciato vuoti. Penso che la neve di oggi sarà l'acqua di domani. Benedetta neve.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiZXDVOcC-WNiaEwrYpMJMr-ziy1EMMzNjZb4KuWD5s77eoNTCJZZsqFYHQL8u11dz1NGKzm3Iv-8ddaYRt4UP4SWuTRzqXeWt-V-AklHQYmKMF1xWxBrsfDqL8KXOK6pezT2XuoVaTyiE/s1600/lucky.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="1200" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiZXDVOcC-WNiaEwrYpMJMr-ziy1EMMzNjZb4KuWD5s77eoNTCJZZsqFYHQL8u11dz1NGKzm3Iv-8ddaYRt4UP4SWuTRzqXeWt-V-AklHQYmKMF1xWxBrsfDqL8KXOK6pezT2XuoVaTyiE/s320/lucky.jpg" width="240" /></a></div>
<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com28tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-70282982826642235872017-12-20T10:40:00.000+01:002017-12-22T19:16:22.000+01:00DIARIO D'HIMALAYAEsce oggi il numero di Meridiani Montagne con il mio reportage sul Dolpo e le fotografie di Stefano Torrione. È con una certa commozione che sfoglio la rivista: due mesi fa ero lì, sugli altipiani dei cinquemila metri, e ora quei giorni sono in queste pagine, con i volti degli amici, i valloni aridi percorsi dalle carovane, i cieli senza nuvole del Tibet. Spero sia un bel viaggio anche per i lettori. Tashi delek.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjCWYhoBcW_89xVPDVS4lYlnI3iVfRp68oLm2tPH_gavbFdh8cOJD1UJhoGazgLydLhNs0E7U7gD-oIngksvyvfRRJVg90Z67s9gAqPcnaBmV2E_5izvatsIIsK8Pgc_eWX8EuiR82xkUU/s1600/cover.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="765" data-original-width="541" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjCWYhoBcW_89xVPDVS4lYlnI3iVfRp68oLm2tPH_gavbFdh8cOJD1UJhoGazgLydLhNs0E7U7gD-oIngksvyvfRRJVg90Z67s9gAqPcnaBmV2E_5izvatsIIsK8Pgc_eWX8EuiR82xkUU/s320/cover.jpg" width="226" /></a></div>
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<br />
<i>“Il segreto delle montagne è che esistono, semplicemente, come me: ed esistono con semplicità, non come me. Le montagne non </i>hanno<i> significato, esse </i>sono<i> significato; le montagne sono. Io risuono di vita e così le montagne, e quando riesco a sentirlo c’è un suono che condividiamo.” (Peter Matthiessen, </i>Il leopardo delle nevi<i>)</i><br />
<br />
Avevo sentito parlare di Dolpo durante il mio primo viaggio in Nepal, qualche anno fa. Come capita sempre, incontrando i suoi vecchi frequentatori, avevo scoperto che il Paese del Fiore di Rododendro stava cambiando irrimediabilmente, e se cercavo un’autentica civiltà di montagna rischiavo di essere arrivato tardi. La modernità portava anche in Himalaya ciò che a suo tempo ha portato sulle Alpi, ovvero strade, motori, telefoni, energia elettrica, prodotti industriali; il benedetto desiderato benessere in cambio di una cultura antica, povera e destinata all’estinzione, proprio quella che i viaggiatori come me vanno fin laggiù a cercare. Triste destino di innamorati fuori tempo, cacciatori di montagne fantasma! Le cime, su in alto, splendevano di ghiacciai ed erano sempre bellissime, ma sono le valli che percorriamo, e all’ombra dell’Everest o dell’Annapurna si camminava ormai connessi alla rete, tra rifugi dotati di frigoriferi e televisori, fingendo di ignorare i rifiuti in plastica, mai davvero lontani dalle nostre vite. Esiste ancora, mi chiedevo, una montagna in cui sperimentare la diversità e la distanza, libera dal colonialismo della città, integra nel suo essere montagna?<br />
<br />
Qualcuno cominciò a dirmi: vai a ovest. Oltre gli Ottomila, là dove i passi sono troppo alti e i pendii troppo ripidi per le strade, esistono altipiani in cui il ricordo di regni antichi sopravvive.
Leggevo “Il leopardo delle nevi”, quell'anno, il libro che dal 1978 accompagna all’Himalaya i pellegrini come me, e proprio tra le sue pagine ritrovai il nome di Dolpo: un autunno di tanto tempo prima, dopo la morte della moglie, l’americano Peter Matthiessen si addentrava in quella terra di confine in cerca di un animale, un monastero, una purezza, soprattutto una purezza, come tutti noi. Scoprii un capolavoro. Il Leopardo era uno dei rarissimi libri che va al cuore di questa misteriosa ossessione, cattura il senso del nostro andare in montagna. Finì subito tra i libri di viaggio fondamentali della mia biblioteca, accanto a Hemingway, Chatwin, Karen Blixen, e una volta tornato a casa alimentò il desiderio di Dolpo come fanno i libri, che preparano ai luoghi lasciandoli a lungo sognare. Sono un fortunato realizzatore di sogni ed è finita che ci sono andato davvero, nell’autunno del 2017, poco prima dei quarant’anni miei e del Leopardo, dato che per una coincidenza siamo nati insieme. O forse non c’è nessuna coincidenza e certi libri sono più nostri di altri, stanno lì per noi da sempre e aspettano di deviarci la vita.<br />
<br />
Dal 1978, la terra che ho attraversato era cambiata poco o nulla. Un regno in cui le distanze si misurano in giorni di cammino, protetto e isolato da altissime mura: da qualunque parte uno provi a entrarci deve superare passi di cinquemila metri. Catene oltre i settemila – l’Annapurna, il Dhaulagiri – fermano i monsoni che salgono dalla pianura indiana facendone una regione arida, molto più simile agli altipiani desertici del Tibet che ai versanti boscosi, ricchi di acque del Nepal a sud dell’Himalaya. In effetti il Dolpo è Nepal solo in una mappa politica: per la geografia che non conosce confini di stato ma piuttosto legami di paesaggio e cultura è un piccolo Tibet che sopravvive intatto accanto a quello grande e ormai perduto.
Durante il lungo cammino il diario di Matthiessen mi accompagnava. Mi ricordo i giorni di Shey, potevo leggerlo e guardarmi intorno e non distinguere più la montagna dentro al libro e quella fuori dal libro, e sentire che la sua e la mia e la montagna in sé, quella che “non significa ma è”, erano una montagna sola. Le pecore azzurre brucavano l'erba secca di ottobre e il leopardo delle nevi come sempre ci eludeva, a ricordarci che non tutto quel che esiste è quel che vediamo, anzi la parte che ci sfugge potrebbe essere la più preziosa. Succede lo stesso con la scrittura: le parole non <i>sono</i>, esse <i>significano</i> e basta, perciò non possono valere quanto le montagne, eppure il racconto è tutto ciò che abbiamo perché un viaggio non vada perduto.<br />
<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgHa6GGetTzjDrZlP_vlJ-O1esyJ9PwJefQZZyXGAwOXqF3NT9OiGqhU9VepvuakBzqYMkDY2OWfDg1zC7eBLSMtmxcFIMqXop9g5P290CK-hLWQpMt_AxKCAA98k_G92jZPYKF-z4Hhmo/s1600/dolpo1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="683" data-original-width="1024" height="213" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgHa6GGetTzjDrZlP_vlJ-O1esyJ9PwJefQZZyXGAwOXqF3NT9OiGqhU9VepvuakBzqYMkDY2OWfDg1zC7eBLSMtmxcFIMqXop9g5P290CK-hLWQpMt_AxKCAA98k_G92jZPYKF-z4Hhmo/s320/dolpo1.jpg" width="320" /></a></div>
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<i>(foto di Stefano Torrione)</i>Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com23tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-85231276322250570042017-11-17T18:05:00.002+01:002017-11-17T18:07:51.736+01:00UNA CHIACCHIERATA CON DINO<i>(Ecco l'unica intervista mia che troverete mai su questo blog: ci sono molto legato perché me l'ha fatta il mio amico Dino, e perché è uscita questo mese sulla gloriosa "A Rivista Anarchica". Grazie a Dino Taddei, Paolo Finzi e tutta la redazione. Viva l'Idea!)</i><br />
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<br /></div>
<div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Le interviste vere alle volte assomigliano a un duello a colpi di
fioretto e, talvolta, di sciabola. Si attacca e ci si difende, si omettono e si
forzano le parole, non sempre chi attacca è l’intervistatore e non sempre
l’intervistato subisce. Ma quando, come nel caso mio e di Paolo Cognetti, siamo
stati spadaccini con la stessa casacca facendo decine di interviste,
radiospettacoli e serate con ospite assieme, risulta difficile mettere in campo
le schermaglie. Meglio trovarsi nei nostri quartieri milanesi, in Trattoria
Popolare con un bel mezzo litro, appoggiati al bancone che Paolo costruì
qualche anno fa, saltando i preamboli con il suo cane Lucky tra le gambe.
D’altronde cosa dire di Cognetti? Uno scrittore divenuto un caso editoriale,
sia per copie vendute del suo ultimo libro <i>Le otto montagne </i>(Einaudi
2016) in Italia ma, cosa ancor più strabiliante, tradotto in 34 lingue e
pubblicato in infiniti Paesi sparsi in tutti i continenti. Un versante
internazionale molto raro per gli scrittori di lingua italiana e che a me
francamente mette di buon umore pensando al libro di Paolo tradotto in
norvegese o in mandarino. Ma Cognetti ha anche un’altra qualità che non ha mai
nascosto e che compare nei suoi romanzi: la sua vicinanza al pensiero e all’azione
anarchica.</b></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Caro Paolo, giacché questa è un’intervista per<i> A</i>, passerei di
lato le questioni squisitamente letterarie e punterei agli aspetti più politici
della tua opera. Iniziamo con un tuo gesto di alto valore simbolico e
comunicativo: alla finale del Premio Strega (che hai vinto) ti sei presentato
con una cravatta alla Lavallière. Avrebbe dovuto suscitare quantomeno la
curiosità della presentatrice e invece niente…</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
E’ vero, è stata ignorata completamente, addirittura alcuni giornali la
mattina dopo hanno commentato: “Aveva un fiocco da scolaretto” per cui più che
di rimozione, si tratta di aver dimenticato il significato… Due o tre
giornalisti me l’hanno chiesto e io ho provato a spiegarglielo ma ho visto in
loro un grande stupore, addirittura la giornalista di <i>Repubblica</i> mi ha
chiesto sconcertata: “Cosa intendi per anarchia?” a quel punto ho realizzato
che il vero problema è riprendere dall’inizio i concetti perché si sono persi.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Forse perché da un romanziere non ci si attende che abbia delle idee
politiche esplicite?</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Oggi in Italia un po’ è così ma non lo è sempre stato, penso alla grande
generazione di scrittori usciti dalla Resistenza e alla mia casa editrice in
particolare, l’Einaudi degli anni ‘50-’60 in cui, tutti insieme, si incontravano
Pavese, Calvino, Fenoglio, Levi, la Ginzburg, Rigoni Stern… Scrittori che hanno
sempre espresso con forza le loro idee politiche.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Pertanto quella cravatta è stata una provocazione?</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Io non la sento così. E’ stata una scelta meditata pensando che alle foto
che sarebbero girate e alle migliaia di persone che le avrebbero viste. Sento
molto la responsabilità di veicolare, in questo momento di forte esposizione
mediatica, alcune idee. Insomma, vuoi dire un po’ di cazzi tuoi, oppure:
“Federica ti amo!” o, al contrario, portare due simboli che significano molto
per me: il fiocco anarchico e un rametto di abete rosso nel taschino.
L’anarchia e la montagna.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Questa vicenda ci riporta direttamente ai tuoi libri, nei quali
compaiono costantemente idee e pensatori anarchici, addirittura nel romanzo <i>Sofia
si veste sempre di nero </i>(Minimum Fax, 2012) dedichi un capitolo intero dal
titolo: <i>Quando l’Anarchia verrà</i> a Leo, personaggio immerso tra le
periferie, i centri sociali e i cortei, profondo conoscitore di Kropotkin, del
pirata Misson, di Hakim Bey e le TAZ. Ma poi in altri tuoi romanzi compare un
filone più specificatamente ecologico: Thoreau, Reclus e, ne <i>Le otto
montagne , </i>Murray Bookchin e l’ecologia sociale. Considerando che non
scrivi saggi ma romanzi, non mi sembra poco, e poi questi ultimi pensatori
sembrano appartenere alle tue scelte di vita…</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Forse perché ho vissuto a Milano dove ho cercato di lavorare, di portare
avanti dei progetti ma a un certo punto ho capito che la città non era adatta a
me o io a lei, non mi stimolava più e quindi andare in montagna è stata una
svolta consapevole, ora è nelle montagne valdostane che vivo e progetto
iniziative. Anche perché non credo che andare in montagna sia ritirarsi dalla
vita pubblica, dall’impegno, dalle cose che cerchi di fare nel mondo. Non è il
luogo dell’eremita ma dove io mi trovo meglio e più adatto a lavorare
politicamente. Naturalmente non sono situazioni che ho inventato io ma ad
esempio se leggi Thoreau, scopri una persona evidentemente inadatta ad una società
urbana. Le sue energie danno il meglio in un altro luogo. Il primo esperimento
di Thoreau non è dettato dalla filosofia , dall’estetica o dalla poesia ma la
motivazione è economica: un ventisettenne stanco di lavorare nella fabbrica di
matite del padre, molto in conflitto con chi gli è attorno che pensa: “vediamo
come me la cavo andando a vivere nel bosco” si fa prestare un terreno, compra
una baracca da dei contadini, la smonta e se la rimonta. La sfida di questo
esperimento era dimostrare di riuscire a vivere senza (o con pochissimi) soldi,
unica strada per liberarsi dal lavoro salariato e dal modello di vita che ne
consegue. E per me è stata una grande lezione: il bisogno di spazio viene dopo.
In montagna il rapporto con i soldi è più elastico che in città. Io non sono
nato in montagna, non sono Rigoni Stern o Corona che hanno raccontato dei loro
luoghi, la loro civiltà, il loro paese, la loro umanità. Io sono un nuovo
montanaro per scelta, un immigrato. Per questo ho amato molto anche New York
perché è la città di chi l’ha conquistata, di chi ha desiderato andarci per
diventare newyorkese, lottando per andare là. Appartiene molto a me e alla mia
famiglia l’idea che un posto non è dato ma lo si sceglie e conquista. Bisogna
provare a trovarlo almeno.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Ma più in generale la cultura americana e i suoi scrittori, mi sembrano
che siano un punto saldo di riferimento della tua opera, così come le radici
profonde alle quali hai dedicato anche un bellissimo documentario su la Piave
(fiume chiamato al femminile almeno fino agli inizi del Novecento). Un lungo
fluire da quelle montagne venete ancestrali, alle coste americane.</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Già, l’America dei profughi, di chi scappava dalla povertà o dalla galera,
di chi era perseguitato. Di chi in definitiva se l’è inventata e non certo
l’America attuale. E poi c’è l’America della frontiera, un mito al quale sono
molto legato, questo conflitto dialettico tra Est e Ovest. Tra un Est civile
fatto di città ma anche di corruzione, un mondo nel quale è facile sentirsi
sconfitti, traditi, ma si ha sempre l’opportunità di partire verso l’Ovest
anche in senso figurato. Può essere imbarcarsi su una baleniera come per
Melville o partire verso il grande Nord come per Jack London. Una frontiera
dalla quale si può ricominciare. Questo secondo me è il cuore pulsante del mito
americano. In fondo le Alpi sono un West che mi sono trovato sotto casa.
Naturalmente oggi il mito non può essere la California ma il Nord, l’Alaska è
l’ultima frontiera americana. Di Nord si parla anche in <i>Into the Wild</i> di
Sean Penn, un film che per me è stato veramente importante sia per il contenuto
sia per la mia vicinanza al protagonista. Provai una profonda commozione nel
riconoscermi in Cristopher McCandless: un bravo ragazzo, un ottimo studente con
un padre molto prepotente e volitivo ma che a un certo punto rompe tutto questo
per cercare la sua strada. In fondo anch’io non sono stato un adolescente
ribelle, un ragazzo di strada, al contrario sono stato un ottimo studente bravo
in tutto sino a quando ho deciso di emanciparmi. <o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Per quanto riguarda le mie radici familiari, più che il Veneto di mia
madre, sento molto di più quelle paterne. Forse per questa nostra tradizione
che ogni figlio se ne va da qualche altra parte. Una storia che risale almeno a
mio trisnonno barese che ottenne una cattedra a Torino, divenendo maestro di
Luigi Einaudi. E poi ogni generazione continuò la trasmigrazione, da Torino a
Mantova, e poi Parma, il Veneto e infine Milano. Il vero lascito
familiare è questa consapevolezza che ti devi cercare un posto nel mondo e non
è detto che sia quello dove sei nato.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Consapevolezza che ti spinge a conquistare le cose con determinazione,
anche non in senso topografico: se mai ce ne fosse bisogno vorrei che tu
spendessi due parole sulla fatica di essere scrittore. Sfatare il mito del
genio maledetto e che il tuo grande successo editoriale è frutto di lavoro.</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Certo. Mi è passato velocemente il mito dello scrittore ubriacone che
produce solo di notte in preda all’ispirazione: per intenderci come in
un’intervista di Fernanda Pivano a Bukowski (<i>Quel che importa è grattarmi
sotto le ascelle</i>, Feltrinelli) nella quale lo scrittore si dileguava su per
una scala con due bottiglie di Valpolicella (il suo vino preferito) dichiarando
che avrebbe scritto sino a quando durava il vino. Anch’io fino a vent’anni ho
creduto a queste cose. Poi una svolta è avvenuta andando in America ad
intervistare per un documentario diversi scrittori americani e tutti mi
ripetevano la loro grande disciplina, della scrittura come lavoro che se non la
vedevi sotto questa luce non saresti andato molto lontano, l’ubriacarsi tutto
il giorno possono permetterselo pochi scrittori affermati, non certo chi deve
imparare e cerca di farsi strada. Quasi una vita monastica che, a ben vedere,
si addice al mio carattere: per anni ho messo la sveglia due ore prima tutti i
giorni per scrivere prima di fare qualsiasi altro lavoro.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>Lavorare per vivere ma anche lavorare politicamente.</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
Certo, nella seconda metà degli novanta sono stato un assiduo
frequentatore dei centri sociali milanesi, in particolare del Bulk, allora
sembrava un panorama ancora stimolante o forse semplicemente avevo vent’anni ma
la mia prima vera formazione politica avviene presso la Scuola Civica di
Cinema, un’istituzione storica milanese fondata negli anni cinquanta, dove ho
avuto modo di incontrare persone determinanti nel mio cammino come la regista
Marina Spada e Marco Philopat. Più in generale il corpo docente era formato da
superstiti, sovversivi vari e reduci i quali mi permettevano di conoscere le
storie milanesi che non avrei potuto sapere da mio padre immigrato da poco.
Mentre la città degli anni settanta e ottanta me la hanno raccontata loro. E
per me è stato un po’ aprire gli occhi. E poi la Scighera<i>,</i> il circolo
casualmente vicino a casa mia in Bovisa che è stato l’approdo che cercavo,
un’osteria ma anche un luogo culturale dove esprimermi. Un amore a prima vista
che mi ha trasformato per alcuni anni in oste. Tre anni molto intensi nei quali
ho dedicato anima e corpo. Mi diverte ricordare che in quel luogo io abbia
intervistato Paolo Finzi e giocato a carte con Aurora Failla, le colonne di<i>
A Rivista</i>. Oggi molti si stupiscono della mia capacità a stare sul palco a
condurre serate e interviste ma sarebbe troppo lunga spiegargli che gavetta
abbiamo fatto assieme alla Scighera<i>.</i> E sempre assieme siamo stati tra i
fondatori della Trattoria Popolare dove ci troviamo in questo momento, come
vedi le nostre strade continuano ad intrecciarsi.<o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
<b>E’ vero. Benché tu ora abbia una notorietà impressionante, mi sembra
che non ti sia fatto snaturare ma, al contrario, la stai usando per raggiungere
nuovi obiettivi con al centro la montagna. Hai messo in piedi da zero un
festival di grande successo dal nome indicativo: ‘Il richiamo della foresta’ a
Brusson dove vivi e nel futuro prossimo ti lancerai in una nuova sfida che ti
chiedo di anticipare.</b><o:p></o:p></div>
<div style="margin-bottom: 10.0pt; margin-left: 0cm; margin-right: 0cm; margin-top: 0cm;">
La mia necessità di lasciare la città e andare in montagna è partita da un
bisogno privato ma in breve ho scoperto che è una scelta che appartiene a molti
della mia generazione. Così ho iniziato a documentarmi facendo un viaggio in
Trentino (zona tradizionalmente più innovativa rispetto alle Alpi Occidentali)
andando a incontrare i ‘nuovi montanari’. Persone che sono andate a vivere in
montagna portandosi però un bagaglio culturale cittadino, che hanno viaggiato e
magari studiato all’estero ma anche portatori di una carica utopica e
ideologica molto forte. Insomma gente che non è andata in montagna solo per
pascolare le capre ma con un’idea più strutturata di ritorno alla montagna.
Un’esperienza condivisa da molti. Così e nata l’idea di questo festival che
raccogliesse tutte queste esperienze e declinasse questo ritorno in tutte le
accezioni possibili. Dal ritorno di chi va a coltivare le patate ma anche il
ritorno di uno scrittore. Il ritorno di un pittore o di un musicista che vuole
fare un concerto in mezzo a un bosco. Anche perché il dialogo tra le arti e la
vita pratica di un contadino a me sembra molto fruttuoso. Io non uso il
termine ‘Natura’ che è una parola dei cittadini. Nessun abitante di montagna
usa quella parola. Anche perché natura per un montanaro vuol dire nomi
specifici: l’orto sotto casa, l’alpeggio, il torrente, il bosco. E poi la
montagna è fatta da paesaggi selvaggi e da paesaggi densamente antropizzati e per
un cittadino è sempre ‘natura’ così come andare al Parco Sempione di Milano. Io
preferisco parlare di paesaggio montano, di entrarci e cercare di raccontarlo
nei miei libri. Per quanto riguarda il festival sono partito dall’idea che il
coltivatore di patate ha bisogno di uno scrittore che canti la sua vita, che la
renda poetica che ne faccia letteratura. Queste due realtà non sono così
distanti come si potrebbe credere. Anche perché spesso il nuovo montanaro
arriva da una grande città e quello che gli manca tremendamente è proprio la
musica, la letteratura, la socialità, situazioni che non trova in montagna.
L’idea di portare delle cose buone dalla città in montagna e alla base di
questo festival.<o:p></o:p></div>
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Per quanto riguarda il futuro, abbiamo fondato l’associazione ‘Gli
urogalli’ che aprirà un rifugio nel 2019. Un progetto che vorremmo a metà
strada tra un classico rifugio alpino e un centro culturale, diciamo un circolo
culturale di montagna. Per intenderci uno sviluppo della Scighera e della
Trattoria Popolare a duemila metri. Di certo avremo anche un bancone su cui ti
inviterò a posare i gomiti, e una biblioteca dove A sarà in bella mostra.</div>
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Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-71979213554763105092017-10-06T13:26:00.004+02:002017-10-06T13:29:26.930+02:00SENZA MAI ARRIVARE IN CIMAOttobre, mese del viaggio. Quel che mi porto via questa volta è una grande sacca da spedizione, che possa stare in groppa a un mulo e tenga la pioggia d'Himalaya, dentro cui ho messo, oltre alle cose da montagna, due quaderni con la copertina nera che uno scrittore mi ha regalato. Quel che mi aspetta sono settimane di cammino tra i tre e i cinquemila metri, lungo i sentieri e i rari villaggi del Dolpo, girando in tondo come nei pellegrinaggi buddisti, <i>senza mai arrivare in cima</i>. Vado in quel piccolo Tibet in terra nepalese per scrivere, oltre che per camminare. Parto con un amico montanaro, un amico fotografo e un amico pittore, felice che, dopo tanti viaggi solitari, questo sia un viaggio condiviso, curioso di scoprire cosa farà lui a noi, che cosa noi di lui. Lo racconteremo, lo disegneremo, ci troveremo un significato, torneremo un po' cambiati?<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQLGAenPWmz1E98dcUNhvV2yLB-RZKTJX2AlOd67MGK3aotGbZofuWFHXkvW9IGDKFmhkZ2eKGexZtHwvrhNW19PryLV2Sh8gjOpmOEfGBU2wsH3gdSS4UyUgAcykP4xfhScBNBKSQCEg/s1600/richiamo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="640" data-original-width="960" height="212" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgQLGAenPWmz1E98dcUNhvV2yLB-RZKTJX2AlOd67MGK3aotGbZofuWFHXkvW9IGDKFmhkZ2eKGexZtHwvrhNW19PryLV2Sh8gjOpmOEfGBU2wsH3gdSS4UyUgAcykP4xfhScBNBKSQCEg/s320/richiamo.jpg" width="320" /></a></div>
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Non è un viaggio per dimenticare, questo. Al contrario, è un viaggio per celebrare un anno lunghissimo. Mi porto via i volti di alcune persone, tra le migliaia che ho incontrato: soprattutto facce di montanari, facce della valle di Terragnolo e della valle dell'Orco, facce del grande altipiano di Asiago e di quello piccolo di Estoul, facce di Alpi dimenticate, facce d'Appennino. Mi porto via la grande festa di luglio, l'emozione inalterata di quei giorni nei boschi, il desiderio già vivo di vederne di nuovi. E mi porto via il legno e la pietra di un vecchio rudere, con le tavole del piano di sotto incrostate di letame, quelle di sopra che non reggono più il peso di un uomo, il muro a nord che da un giorno all'altro potrebbe crollare, la porta di larice con la sua chiave segreta. L'anno prossimo sarà un cantiere e tra due anni un rifugio, un luogo d'ospitalità e d'incontro, un laboratorio permanente sulla montagna, una scuola per nuovi montanari. Un nome non l'ha ancora, un indirizzo sì: frazione Fontane numero due, sarà di buon augurio per una seconda vita?<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNokdXCruMSgOBUpU7TGkUTUpGRQrm546RPOvch7e9zutqUJ7jIHizcRDsEWjCsrUg7OkpWP2sYRN1xk-3a-Qz7tOhnBVH6N51_B3mPhyphenhyphenAgObw60VQ2RepnjvR9IAyw-AiygaOzR-gFDQ/s1600/fontane2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="179" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhNokdXCruMSgOBUpU7TGkUTUpGRQrm546RPOvch7e9zutqUJ7jIHizcRDsEWjCsrUg7OkpWP2sYRN1xk-3a-Qz7tOhnBVH6N51_B3mPhyphenhyphenAgObw60VQ2RepnjvR9IAyw-AiygaOzR-gFDQ/s320/fontane2.jpg" width="320" /></a></div>
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E mi porto via una storia nascente, pagine bianche, Fede e Fortuna nel cuore, la mia vecchia disciplina. Giriamo intorno alle montagne per ringraziarle, e perché continuino a darci la loro protezione.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj24g1UPTkiJuCTAnj74Z_3sY97tdK4ZA3DA_Eg7EBWX5OUrBXajEGahVyG0v9AWnevo1_zS-DTIgkfZLxFmpU1LD5D8R-MyXZ_OvV-N5IZEPszmDCnR_QQvNuFHPgEykm6UzwBCW10_a0/s1600/quaderni.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="900" data-original-width="1600" height="179" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj24g1UPTkiJuCTAnj74Z_3sY97tdK4ZA3DA_Eg7EBWX5OUrBXajEGahVyG0v9AWnevo1_zS-DTIgkfZLxFmpU1LD5D8R-MyXZ_OvV-N5IZEPszmDCnR_QQvNuFHPgEykm6UzwBCW10_a0/s320/quaderni.jpg" width="320" /></a></div>
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<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com16tag:blogger.com,1999:blog-2642438787426543669.post-81965218995488475952017-08-31T00:59:00.004+02:002017-08-31T01:02:57.632+02:00SEDICI ALBERI<i>(questo pezzo è uscito su Robinson del 27 agosto)</i><br />
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Se è vero che, salendo di quota in montagna, il paesaggio cambia come spostandosi di molti chilometri a nord, allora la latitudine di Oslo deve corrispondere più o meno ai 1500 metri delle Alpi, perché sento aria di casa in questa città. A metà agosto si intuisce l'arrivo dell'autunno: sul porto le nuvole viaggiano basse, veloci, piccoli gusci di madreperla scura. I camerieri dei bar all'aperto offrono coperte leggere alle donne, per avvolgersi le spalle nella brezza della sera. I pescatori sui moli nascondono lattine di birra, gettano la lenza nell'acqua luminosa, osservano i riflessi delle barche tra gli isolotti boscosi del fiordo. Abete rosso e betulla: gli alberi sono la prima cosa che ho controllato al mio arrivo. L'abete rosso da me è il re dell'inverso, il lato all'ombra delle montagne; la betulla è la sentinella dei fiumi e dei torrenti. Casa. Sono altri, e molti, gli alberi che non so riconoscere.<br />
Lars Mytting è un omone con una camicia a scacchi, viene da un paese a un paio d'ore da qui e a Oslo sembra un montanaro sceso in città. Forse il rapporto tra altitudine e latitudine è vero anche per la letteratura, perché ho sempre sentito un legame tra i miei scrittori di montagna e quelli del Grande Nord. Lars è diventato famoso per un libro sulla legna da ardere – il modo di tagliarla, accatastarla, bruciarla, o potrei dire prendersene cura e farne espressione di sé – e ora ha scritto un romanzo sulla memoria del legno, ovvero ciò che un albero ha vissuto e ricorda nelle sue venature. “Un albero cresciuto senza difficoltà”, mi dice al tavolino di un bar, “non ha un disegno interessante, è lineare e simile a molti altri. Gli alberi più belli sono quelli che hanno sofferto e combattuto molto. Hanno disegni drammatici, cicatrici che diventano qualcosa di ammirevole. Il disegno interno al legno è il risultato, la storia di come l'albero è cresciuto, è una memoria di secoli e delle cose che gli sono successe, un mistero da indagare”. Non so se Rigoni Stern sia tradotto in norvegese ma queste parole mi ricordano il suo <i>Arboreto salvatico</i>, il più gran libro sugli alberi che io abbia mai letto, e il modo in cui Mario scriveva di certi cembri e larici contorti, piegati dalla neve e dal vento, amputati dalle valanghe, spaccati dai fulmini, ma non uccisi. È quello che succede anche ai due fratelli del romanzo di Lars,<i> Sedici alberi</i>, che va indietro nel tempo fino all'ultima guerra mondiale: un fratello fu tra i norvegesi che si arruolarono sotto la croce uncinata, a combattere i russi sul Baltico insieme ai tedeschi; l'altro prese la direzione opposta, fuggì alle isole Shetland su una barca di pescatori e in terra britannica fece perdere le tracce di sé. Dopo cinquant'anni il nipote, cresciuto con il primo in una fattoria, scopre l'esistenza del secondo, e comincia a ricostruirne la storia. Lo fa attraverso il legno, perché lo zio scomparso era un grande ebanista: la ricerca parte da un bosco di betulle nei terreni di famiglia e finirà in un lontano bosco di noci, martoriati dalla guerra e diventati preziosissimi.<br />
“Mio nonno era un falegname”, dice Lars. “In casa da piccolo avevo i suoi mobili di betulla fiammata, che è una betulla ferita dall'uomo perché diventi più bella. Lui è morto quando avevo tre anni ma ho cominciato a conoscerlo dopo, grazie ai mobili che aveva costruito. Betulla e abete sono gli alberi della mia vita: per andare a scuola dovevo fare chilometri a piedi su una strada che costeggiava il bosco, d'inverno sempre al buio. Il bosco di abeti era misterioso, mi faceva paura. La paura di un nemico invisibile, o di essere inghiottito”. Fa una pausa. Riflette forse su quel bosco della sua infanzia. Cerca le parole giuste per aggiungere: “Il paesaggio ci modella, ci forma il carattere. Questo mi affascina così come le scelte nei momenti difficili. Se fossimo alberi quelle scelte sarebbero le nostre cicatrici”.<br />
Mi accorgo che, come me, nemmeno Lars usa mai la parola natura. Eppure dovremmo essere esponenti di un nuovo <i>nature writing</i>, quella “scrittura della natura” che ogni tanto riemerge, nella nostra cultura urbana, come un bisogno condiviso di uscire dalle città e recuperare ciò che abbiamo dimenticato là fuori. Ma sappiamo entrambi che la natura esiste solo nella testa dei cittadini. Per chi ci vive in mezzo la natura che cos'è? Un campo coltivato, un bosco di cui l'uomo taglia gli alberi, una costa modellata dal lavoro, una montagna abitata e poi inselvatichita: la cosiddetta natura è un mondo di segni e di nomi, di storie, di relazioni, per questo entrambi preferiamo la parola paesaggio. E “scrittura del paesaggio” è una definizione che potrebbe andarci bene.<br />
Parlami ancora dei tuoi alberi, Lars. Ognuno ha un carattere diverso, non è così? “Sì. La betulla per me è una sposa. È luminosa, gioiosa, speciale per la sua corteccia bianca. Ma vive poco, non più di centocinquant'anni. Quando invecchia sembra stanca, diventa nera e rugosa, un po' triste”. L'abete? “L'abete è il buio del bosco, in un bosco di abeti è impossibile vedere lontano. Mi ricorda le mie paure d'infanzia”. E il noce, in cui è contenuto il segreto del tuo libro? “Il noce ha una vita lunghissima, è un albero che diventa un monumento. So di noci in Europa che hanno visto sei guerre. È un albero testimone dei drammi umani e li tramanda da una generazione all'altra, così i vivi possono risalire nel tempo e conoscere i propri morti”.<br />
Poi ci sono le cose che con il legno si fanno. Nel romanzo una barca, a un certo punto, diventa la bara di chi l'ha costruita. Quando ho letto il libro mi è sembrata una bella idea narrativa, ma l'ho capita davvero soltanto stamattina, visitando il museo delle navi vichinghe. Navi maestose, in quercia, con altissime prore intarsiate, conservate per secoli sotto il suolo argilloso di Oslo perché venivano usate, alla fine di una lunga vita in mare, per seppellire i capi e accompagnarli nell'aldilà. “Due viaggi”, dice Lars sorridendo, “la stessa barca”. Io che del mare non so nulla gli chiedo di parlarmi del suo, questo mare scuro e splendente, punteggiato di isole boscose. Lui lo osserva e nomina di nuovo il legno, usando una parola inglese che in italiano non c'è. Ma la ricordo in un racconto di Hemingway, e per un momento collego questo fiordo norvegese al lago Michigan di Nick Adams, con i carichi di legname trascinati sull'acqua dai rimorchiatori, i tronchi che ogni tanto si staccavano e andavano a incagliarsi sulla spiaggia. La parola è <i>driftwood</i>, legno portato dalla corrente. “Se il legno siamo noi, il mare è il destino che fa a pezzi le barche e poi manda quei pezzi ad arenarsi da qualche parte. Il mare conserva e nasconde i ricordi per tutto il tempo che vuole lui, poi a un certo momento, chissà perché, li lascia affiorare”. Come il ghiacciaio, penso io. Anche il mare fa paura?, gli chiedo, mentre il nostro tempo finisce. “Sì. La foresta, il mare, l'inverno, sono pericolosi, bisogna conoscerli bene, non sono nostri amici. Mi ricordano questo: che la terra sarà sempre più forte dell'uomo. La terra è molto più grande, vive molto più a lungo, può farci sparire da un momento all'altro, vincerà sempre lei”.
Mi viene istintivo alzare il calice: io lo spero, Lars. Nel posto in cui abito non sono sicuro che sia così. Spero che il Grande Nord sia per le piccole Alpi fonte d'ispirazione. E che le nostre terre continuino a meravigliarci, parlarci con la lingua del legno, dei torrenti, della neve, darci le parole per raccontarle.<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDWv1HiMIvbMyJPjZy50CV43D_c5NJnUdCgmS1WHEih2JHq9mNig-wrLnryGa_dvbmcwr9NGEot2fNUrRgYegznPoFEMbtOcuiN932bgJXBo0jcvT_VoWGsQtDwOz7qhFwfm5BwOSgfIs/s1600/betulle+magrin.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="495" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjDWv1HiMIvbMyJPjZy50CV43D_c5NJnUdCgmS1WHEih2JHq9mNig-wrLnryGa_dvbmcwr9NGEot2fNUrRgYegznPoFEMbtOcuiN932bgJXBo0jcvT_VoWGsQtDwOz7qhFwfm5BwOSgfIs/s320/betulle+magrin.jpg" width="98" /></a></div>
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<i>(qui le betulle di Nicola Magrin, sempre nei miei pensieri)</i></div>
<br />Capitanohttp://www.blogger.com/profile/06167296621137930352noreply@blogger.com24