martedì 25 dicembre 2018

IL RICHIAMO DELLA FORESTA

(questo pezzo è uscito su A rivista anarchica)

Il richiamo della foresta è il festival che organizziamo nei boschi di Estoul, il villaggio della Valle d'Aosta dove abito da una decina d'anni. Nel tempo si è trasformato per me da ritiro personale a centro di molteplici relazioni, e fu tra cinque amici, nell'inverno del 2017, che nacque il desiderio di portare in montagna il lavoro che avevamo sempre fatto in città. Avevamo esperienze diverse e un legame comune con la Scighera di Milano, glorioso circolo libertario della Bovisa, dove alcuni di noi si erano fatti le ossa. Con quel modello in testa avevamo tentato, senza successo, di prendere in gestione un rifugio alpino, progettando di trasformarlo in laboratorio culturale d'alta quota. Così aggiustammo la mira: anche senza il contenitore, o in attesa di trovare quello giusto, non potevamo cominciare a lavorare sui contenuti? Di qui l'idea di fondare un'associazione culturale, che battezzammo Gli urogalli, e organizzare un festival a 1800 metri d'altezza. Estoul si trova su un piccolo altipiano in gran parte utilizzato per il pascolo, un paesaggio aperto e raro per la Valle d'Aosta. Avevamo in mente il luogo adatto, una radura circondata da un bosco di larici di proprietà comunale. Parlando con il sindaco di Brusson l'idea divenne più concreta: il bosco poteva essere usato come campeggio, e la radura, dotata dei servizi necessari, poteva ospitare il festival. Sarebbe noioso benché istruttivo raccontare il lungo lavoro che seguì: gli incontri con gli assessori comunali e regionali, con i consiglieri di una fondazione bancaria, con gli imprenditori a cui chiedere una sponsorizzazione, con i donatori privati; la campagna di raccolta fondi e gli eventi di finanziamento. La bella idea si era rivelata costosa, perché un conto è fare un festival in un circolo a Milano e un altro attrezzare un ambiente selvatico con palco, tensostrutture, bagni, cucina, impianti e generatori, invadendolo con grande dispendio di risorse (e questa è la contraddizione che, personalmente, sento più dolorosa). In ogni caso, né i finanziatori né le istituzioni ci imposero o vietarono nulla rispetto ai contenuti, per cui la fatica di dover gestire questi rapporti fu ripagata dalla libertà di fare quello che volevamo. Che cosa volevamo fare? Portare arte, musica, libri, teatro, fotografia nei boschi, e portarci anche il discorso sul nostro vivere comune che ci ostiniamo a chiamare politica. Parlare di montagna “come occasione di libertà e bellezza”, scrivemmo nel manifesto. Volevamo, soprattutto, condividere dei giorni e questi luoghi con persone appassionate, respirare libertà e bellezza insieme a loro, fondare relazioni da coltivare nel tempo. Nelle nostre intenzioni la montagna non era tanto il fine quanto il mezzo, ciò che avrebbe tenuto insieme questa comunità effimera, con la speranza di renderla sempre più solida e duratura. Avevamo già scoperto da tempo che in alta quota nascono grandi amicizie.

Per questo, nelle prime due edizioni del festival (quella “del lupo” nel 2017 e quella “del camoscio” nel 2018, dalle locandine dipinte dall'amico Nicola Magrin), una parte importante è stata data al racconto di esperienze di ritorno e vita comunitaria, in montagna o in ambiente rurale. Nuovi montanari italiani e stranieri accanto a realtà storiche come la comune agricola di Urupia, in Salento, o il villaggio ecologico di Granara sull'Appennino parmense. Chi studia e sostiene i progetti di ritorno, chi in montagna ospita e fa formazione: l'associazione Dislivelli di Torino, la fondazione Nuto Revelli di Cuneo (ma la sua sede simbolica è il borgo di Paraloup in Valle Stura), il centro studi valdese di Agape in Val Pellice. Abbiamo ascoltato racconti di giornaliste e antropologhe, viaggiatrici e montanare (Linda Cottino, Irene Borgna, Michela Zucca, Anna Torretta, Marzia Verona) e di ragazzi che negli anni Settanta avevano fatto del loro andare in montagna un atto politico, di protesta e di liberazione (Enrico Camanni). E ancora abbiamo provato a raccogliere le voci della montagna ribelle, quella storica delle minoranze, delle resistenze, delle eresie, e quella che oggi lotta in Val Susa o in Kurdistan. Abbiamo ricordato i maestri a cui siamo legati – Mario Rigoni Stern, Primo Levi, Tiziano Terzani – e imparato cos'è l'alpinismo secondo Hervé Barmasse, Nives Meroi, Romano Benet: esplorazione del rapporto tra uomo e ambiente selvatico, e tra esseri umani che vanno in montagna insieme. Più che esaurire l'argomento, ci è sembrato che ogni voce aprisse a tante altre possibilità di racconto, e innumerevoli sono le strade da battere in futuro. Dovrei ancora raccontare del teatro, dei concerti, dell'arte dal vivo, delle mostre fotografiche, ma anche dei balli a notte fonda e dei risvegli dopo i temporali. Sono state circa cinquecento, lo scorso luglio, le persone che hanno partecipato al festival in tenda, in un campeggio del tutto autogestito e sparso per i boschi intorno alla radura. Credo che la notizia migliore sia proprio l'esistenza di questa gente, così appassionata da sopportare per tre giorni le asperità della montagna e così rispettosa da lasciarla, alla fine, senza nemmeno un segno del proprio passaggio. Per uno come me è stato come vedere una piccola anarchia realizzata.

Erri De Luca ha chiuso il Richiamo di quest'anno (o aperto il prossimo, ha detto lui) parlando di geografia e di migrazioni, e dipingendo un grande sud del mondo che si estende molto al di là dell'emisfero australe: è il sud delle periferie urbane, dei mari solcati dagli uomini, delle coste lungo cui si mescolano, delle montagne che attraversano. “Le montagne, bordi della terra, prove della sua forza d'elevazione, margini in cui l'umanità si incontra”: ecco gli appunti che ho preso durante il discorso di Erri. I bordi, i margini, le periferie del mondo: sono i luoghi che ci interessa coltivare perché li sentiamo più fertili e tolleranti, aperti alle possibilità d'incontro, vivi come questa montagna in festa. Per il silenzio e la solitudine occorrerà passare un'altra volta.


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