giovedì 21 febbraio 2008

LA VISTA DA CASTLE ROCK

Leggo e rileggo Alice Munro, La vista da Castle Rock

La vista da Castle Rock è il panorama che il piccolo Andrew contempla dalle rovine del castello di Edimburgo, all’inizio del XIX secolo. Il padre, ubriaco e in vena di scherzi, gli indica una costa lontana, sbiadita dalla foschia, dall’altra parte del mare.

“Ecco fatto, figliolo, adesso hai visto l’America. Se Dio vuole, un bel giorno la vedrai più da vicino e di persona”. Il bambino crede alla bugia, senza sapere che si rivelerà profetica: pochi anni dopo prende con sé la famiglia, abbandona la povera contea di Ettrick e si imbarca verso il nuovo mondo. Da scozzese ritroverà il suo paesaggio naturale a nord dei Grandi Laghi, nel giovane e inesplorato territorio canadese. La sua storia è quella di una fondazione, una delle tante memorie famigliari che Alice Munro ha raccolto in questo libro.

Nella forma, La vista da Castle Rock è una raccolta di racconti divisa in due capitoli. Il primo riguarda gli antenati della scrittrice, i Laidlaw: dal capostipite William, una celebrità locale intorno al 1600, passando per James il letterato, Andrew che attraversò l’Atlantico, Robert il pioniere che fondò il paese di Morris, e poi giù fino a Bob, il padre della scrittrice, allevatore di volpi e visoni che perse tutto con la Grande Depressione. Alice Munro racconta di aver speso molto tempo tra archivi di famiglia e biblioteche, viaggi in Scozia e cimiteri quasi mai segnati sulle mappe. Cercava una pista, ma la povera gente non lascia grandi tracce di sé nella storia: a volte solo due date, un atto matrimoniale o un contratto di compravendita, un’iscrizione su una pietra tombale. Il primo racconto comincia proprio con uno di questi epitaffi, sembra rubato all’Antologia di Spoon River: “Qui giace William Laidlaw, il celebre Will O’Phaup, impareggiabile finché visse per le sue burle e le imprese di forza e agilità”. Davanti alla lapide, e alla vita evocata da queste poche parole, finisce il lavoro della biografa e comincia quello della narratrice: una sacerdotessa capace di resuscitare i morti con il potere dell’immaginazione.

Nella seconda parte del libro le storie diventano autobiografiche. Per i lettori di Alice Munro sono racconti di una voce intimamente nota: parlano della giovinezza trascorsa nelle campagne dell’Ontario, del primo matrimonio e della fuga a Vancouver, della nascita dei figli, del divorzio, del ritorno a casa. Nell’ultimo racconto, ambientato ai giorni nostri, la scrittrice attraversa con il secondo marito i luoghi della sua infanzia. In ospedale ha appena scoperto di avere un nodulo al seno. Il marito è un geografo, e negli anni le ha trasmesso la sua passione: e così, mentre il pensiero della malattia riempie di tensione il viaggio di ritorno, lei trova una forma di conforto nel contemplare il paesaggio dal finestrino - il lavoro degli antichi ghiacciai, dei fiumi impetuosi e ormai scomparsi, del bosco che riconquista i pascoli e i campi incolti.

Leggere i segni - nel paesaggio, nei volti, nei gesti delle persone - è sempre stato il grande talento di Alice Munro. In nove raccolte di racconti ci ha insegnato come la scrittura abbia il potere di svelare i segreti, scoprendo gli abissi nascosti dietro le apparenze. Rivolgere quello stesso sguardo allo specchio dà luogo a un libro strano, né saggio né narrativa, piuttosto un autoritratto in frammenti, allo stesso tempo delicato e brutale, per forza di cose imperfetto. Scrive l’autrice nell’introduzione: “Si potrebbe dire che racconti del genere prestano maggiore attenzione alla verità della vita rispetto alla narrativa consueta. Ma non quanto basta per prenderli alla lettera. E la parte che in fondo potrebbe essere definita storia di famiglia si è aperta all’invenzione, pur conservando i contorni della narrazione autentica. Le due correnti si sono avvicinate al punto da sembrarmi destinate a scorrere insieme, come succede nelle pagine di questo libro”.

In molte interviste Alice Munro ha chiarito il suo pensiero sul rapporto tra autobiografia e invenzione. Tutti noi, sostiene, riscriviamo continuamente il romanzo della nostra vita: gli eventi passati continuano a esistere nel tempo in forma di ricordi, e presto perdono i legami con la realtà. Diventano storie filtrate dalla prospettiva, dal bisogno di guardarsi indietro e trovare cause, significati, insegnamenti. La memoria è in fondo una distorsione della verità oggettiva, ma anche un atto ordinatore necessario: è il modo in cui raccontiamo il passato a noi stessi per salvarci la vita. Ecco perché La vista da Castle Rock è un libro tenebroso e inquietante. Non solo perché si muove tra cimiteri abbandonati, austere chiese luterane, cronache di antiche carestie. Perché ha a che fare con l’imminenza della morte e con la religione della scrittura.

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Ora tutti questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio che non asciugavano mai, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d'inverno dai corpi e dai fiati delle mucche - quelle mucche che ancora incitavamo con gli stessi richiami comuni al tempo di Troia. E in una di queste case - non ricordo di chi - un incantevole fermaporta, una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’orecchio, quando in giro non c’era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio stesso cuore, e del mare.

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Alice Munro, La vista da Castle Rock

(Traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2007)

sabato 9 febbraio 2008

LO SPAZIO BIANCO

Leggo Valeria Parrella, Lo spazio bianco.

Maria ha quarant’anni e vive a Napoli, dove insegna italiano alle scuole serali. Lo spazio bianco è un trimestre nella sua vita: dalla nascita della figlia Irene, venuta al mondo prematura e affidata all’incubatrice, fino al termine di questa gravidanza artificiale. Il padre è sparito da tempo, nel libro non ha nemmeno un nome. “Mi figlia sta nascendo, o morendo”, ripete spesso Maria durante le interminabili giornate d’ospedale. Ore scandite dai caffè al distributore automatico e dalle sigarette clandestine, dalla crittografia delle cartelle cliniche, dagli incontri in corsia. Per tre mesi il mondo è ridotto a questo minuscolo spazio, e la lotta per l’esistenza a un conflitto quotidiano con le istituzioni. I medici da una parte e le madri dall’altra - Maria, Rosa, Mina - donne forti, sole, combattive, sagge e impulsive e solidali.

Lo spazio bianco, perciò, è lo spazio di un’attesa. Irene può morire, può vivere e crescere sana, o può sopravvivere con danni neurologici permanenti. Nessun medico ha il coraggio di quantificare le probabilità. E Maria non può far altro che osservare sua figlia come dentro un acquario, sfiorarle le mani dall’oblò dell’incubatrice e usare il limbo in cui è precipitata per fare i conti con la propria vita. Non è una donna abituata ad aspettare, né a lasciarsi andare al fatalismo. È una persona colta che di mestiere combatte l’ingiustizia sociale: i suoi sono allievi senza titoli di studio, uomini condannati all’ignoranza dal lavoro minorile, donne rinchiuse in casa, gli stranieri della nuova schiavitù. Sono gli altri personaggi del libro, le comparse o forse il coro - perché lo spazio bianco è teatro per un solo attore, è il luogo murato e impermeabile in cui si trova Maria. Nemmeno Napoli è il palco ma una quinta lontana, strade attraversate in autobus e contemplate da una finestra d’ospedale, il paesaggio del sovrappensiero. C’è un bel racconto di Erri De Luca, La città non rispose, che ritrae lo stesso luogo. E nel libro si sentono gli echi di alcuni scrittori contemporanei: la provincia di Antonio Pascale, la piccola borghesia e gli anni Settanta, e la città di Erri De Luca. Napoli è nominata poco eppure impregna ogni riga di dialogo, è negli sguardi che incroci e nell’aria che respiri in ogni scena.

Lo spazio bianco è anche la riga vuota tra un pensiero e l’altro. Il libro è breve - poco più di cento pagine - e tolti un prologo e un epilogo non ha capitoli. A un certo punto, durante l’esame per la licenza media, un allievo di Maria le chiede aiuto: sta scrivendo un tema, gli sembra di avere completato un pensiero e non sa più come proseguire. “Mettici uno spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi”, suggerisce Maria. La frase suona come chiave poetica, perché tutto il libro è così: scandito da brevi paragrafi - due pagine, una, a volte poche righe - e dagli spazi bianchi che li separano. La scrittura densissima rende queste unità narrative intense come meditazioni. Frammenti che si potrebbero anche isolare, o scombinare e riordinare secondo altri criteri, come i giorni tutti uguali dell’attesa. Costituiscono un’immersione sempre più profonda dentro la solitudine di Maria - tanto che, a metà del libro, anche il destino di Irene sembra assumere un valore secondario: “Io voglio che Irene viva, me ne importa solo di questo. Anzi, io non so neanche se voglio questo, voglio che questo incubo finisca presto. Chiaro?”

Lo spazio bianco, infine, è un cambio di rotta nel percorso di scrittrice di Valeria Parrella. Che esordisce nel romanzo dopo due raccolte di racconti - mosca più balena e Per grazia ricevuta - e sceglie un grande editore, Einaudi, lasciando minimum fax. Due scelte che sembrano segnare il raggiungimento di una maturità letteraria, ma anche, purtroppo, la fine di una bella anomalia: una scrittrice di racconti pubblicata da un editore indipendente, che vince premi letterari, scala le classifiche e diventa un caso. Adesso, con la copertina bianca e le pile di volumi in libreria, è tutto molto più normale. Però questi sono pensieri che non intaccano il valore della scrittura, e in fondo il libro è un romanzo solo nel nome: ha il ritmo e l’intensità dei migliori racconti, quelli che ti conquistano già dal titolo e non ti lasciano andare fino all’ultima riga.

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Ammettere la sofferenza è stato per me molto difficile. Ho preferito credere a una continuità normale o ai momenti belli, la conquista del lavoro, l’estasi degli innamoramenti, la meraviglia della gravidanza. Solo a queste cose avevo dato verità. Quando il dolore mi aveva sorpreso non gli avevo creduto: era un inciampo, una cosa da mettersi davanti per superarla, per poi tornare a quell’altra vita. Così era stato per la malattia di mio padre, per la morte di mia madre.

Avevamo parlato a lungo, con Mina e Rosa, dei danni che la prematurità avrebbe comportato, degli handicap che forse ci avrebbero affollato la vita negli anni a venire. Lei lo sa? No, io proprio non lo sapevo, ma ero stata una buona alunna per tutta la mia vita, e avrei imparato.

Ricordai di aver visto, in una mostra sulle civiltà precolombiane, una maschera che aveva una metà del volto sana e sorridente, e l’altra corrosa dalla malattia. Avevo pensato all’artigiano pazzo che, cento anni prima dello sbarco spagnolo, un giorno aveva ficcato quel pezzo di terracotta in una forno, aveva accettato che le due parti cuocessero insieme.

Quel pazzo lo sapeva.

E sotto di me, ora, nella città incessante, lo dovevano sapere in molti. Camminavano, nell’ora rarefatta del primo pomeriggio, verso casa, la macchina, l’ufficio, con questa possibilità nei passi.

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Valeria Parrella, Lo spazio bianco, Einaudi 2008