martedì 18 dicembre 2012

LIBRAI

 (a R, angelo custode)

     Quella di Sansepolcro aveva fatto l’ostetrica per tutta la vita. Negli anni Settanta, a Firenze, aveva fondato un ambulatorio femminista, che promuoveva il parto in casa e aiutava le donne a praticarlo. Poi si era sposata, aveva avuto tre figli, si era trasferita lì con la famiglia. Anni dopo il marito e i figli se n’erano andati, lei invece aveva aperto una libreria con alcune ragazze più giovani. Mi disse che di quelle ragazze si sentiva un po’ la mamma. Che l’ostetrica e la libraia non le sembravano mestieri poi tanto diversi. Dei suoi figli parlava con orgoglio: uno stava cominciando a esercitare come medico pediatra, l’altra studiava diritto internazionale a Londra, il terzo aveva coltivato il sogno di fare il musicista e inseguendolo si era un po’ perduto.

     Quello di Foggia mi raccontò degli anni di Zeman, e del trio delle meraviglie Baiano-Signori-Rambaudi. Eravamo in macchina dall’aeroporto di Bari, cento chilometri sotto il diluvio. Mi disse che, per lui, quella era l’epoca del sogno, un tempo che non sai più se sia esistito davvero o l’abbia inventato tu dormendo; perché era un bambino, allora, e amava il calcio nel modo dei bambini, studiando a memoria i tabellini delle partite e gli albi d’oro. Ancora adesso ricordava ogni risultato, ogni formazione, ogni gol. L’ultimo era stato quello subito in casa con il Napoli, che aveva negato al Foggia l’ingresso in coppa Uefa e gli aveva spezzato il cuore. Tre rigori ci dovevano dare, mi disse scuotendo la testa. Poi si consolò raccontandomi di Kolivanov, genio incompreso.

     Quello di Fermo era un anarchico, e in un angolo teneva due poltrone e po’ di vino. Gli piaceva offrire un bicchiere alla gente che si sedeva lì a sfogliare un libro. Era esuberante, litigioso e dedito ai vizi come capita spesso agli anarchici, non so ai librai. Nella sua stessa via, solo cinquanta metri più in là, gli avevano aperto una libreria di catena, e lui si rifiutava di passarci davanti: quando doveva andare in piazza prendeva un vicolo laterale e faceva un lungo giro. Si arrabbiò perché all’incontro vennero solo cinque persone. “Città di merda”, sibilò tra i denti, ma più tardi ammise che non l’avrebbe mai lasciata. Bevemmo il suo Rosso Piceno per tutta la sera, la mattina doveva accompagnarmi in stazione molto presto; lo salutai di fretta, col vino che mi picchiava in testa, sapendo che poi di quella fretta mi sarei pentito, correndo fuori dalla sua macchina per non perdere il treno.

     Quello di Palermo mi portò al ristorante e voleva farmi assaggiare tutto. Siccome non potevo ordinare dieci piatti diversi, ognuno dei suoi amici ne ordinò uno e me ne offrì un boccone. Al tavolo di fronte c’erano tre camionisti svizzeri ubriachi: chiesero se stessimo celebrando un addio al celibato, forse perchè ci vedevano allegri o forse nella speranza di unirsi a noi. Il libraio disse di no, che ci eravamo appena conosciuti e stavamo festeggiando il nostro incontro. I camionisti capirono perfettamente. Per via dell’accento il libraio chiese se fossero tedeschi, e loro si offesero a morte. Dissero no, noi siamo normali. Avevano appena ordinato un giro di birre dopo il caffè, ma della normalità ognuno ha la sua idea, e non ci parve il caso di discuterne. Facemmo la pace brindando all’internazionalismo e all’amicizia tra i popoli.

     Quello di Venezia aveva cominciato con una libreria di libri usati. Sgomberava le biblioteche dei morti, che i figli si vendevano per pochi soldi e certe volte senza sapere di dar via rarità preziose. Mi raccontò che a Venezia le cantine non esistono, esistono i solai; ed è lo stesso un problema tenere i libri all’asciutto. A un certo punto, oltre che ai libri usati, si era appassionato ai piccoli editori, e aveva cominciato a vendere anche loro. Di quelli grandi non ne voleva sapere. Entrava qualcuno a chiedergli un Einaudi, un Mondadori, e lui diceva mi spiace, non ce l’abbiamo. Si può ordinare?, domandavano quelli. No, diceva lui, non si può ordinare. Quella sera mi aveva fatto una sorpresa, esponendo in vetrina tutti i libri che avevo citato nel mio.

     Quello di Ivrea mi raccontò di Adriano Olivetti, che si era messo in testa di far leggere gli operai. Per questo, mi disse, a Ivrea c’è il più alto rapporto librerie-abitanti, lo sapevo? Risposi che non lo sapevo. Anche lui prima faceva un altro lavoro, come tutti gli altri. Il venditore di qualcosa che si vendeva meglio dei libri. Disse che però a un certo punto si era accorto di non stare bene, e allora si era licenziato, usando la liquidazione per aprire la libreria; con cui non guadagnava quasi niente, se non la felicità che prima gli sfuggiva.

     Quello di Pietrasanta voleva vendere anche gli e-book. Il suo amico cercava di spiegargli che non aveva senso, ma per lui un senso ce l’aveva eccome: uno viene qui con il suo coso, mi disse, il suo e-reader, mi chiede un libro e io glielo scarico dalla come si chiama, dalla chiavetta no? Tutti i librai discutevano di e-book fingendo di non preoccuparsene affatto, come si snobba l’annuncio di una catastrofe, la fine del mondo. Tutti disprezzavano i best-seller, e in particolare le loro sfumature, ma con i libri brutti ci campavano, mi dissero, a vendere solo libri belli non si arriva a fine mese. Quello di Torino per i libri brutti si era inventato questa cosa: aveva preso un tavolino e gli aveva segato una gamba a metà. I libri brutti li vendeva anche lui, ma li teneva lì sotto a reggere il tavolo.

     Per qualche motivo le libraie erano spesso in due e piuttosto belle, i librai quasi sempre trasandati e soli. Quello di Bari faceva eccezione: secondo me assomigliava a Klaus Kinski, ma secondo i suoi amici a David Bowie, e secondo il cameriere cocainomane a Andy Warhol. Non riuscivamo a metterci d’accordo. La libreria l’aveva aperta da un mese: era specializzata in musica, fumetti, cinema, piccoli editori punk. Era un punk anche lui, magrissimo, capelli biondi ossigenati, abiti attillati e neri, un sorriso che ti faceva venir voglia di sorridere anche te. Le libraie di solito erano gentili, però dopo l’incontro tiravano giù la serranda e mi davano la buonanotte; i librai invece mi accompagnavano al ristorante e al bar. Parlavamo di calcio e letteratura. A volte pure di donne. Sentivo di capirli meglio, e loro capivano me. Le libraie mi facevano trovare sul tavolo un bicchiere d’acqua; i librai mi guardavano in faccia e mettevano il vino.

martedì 13 novembre 2012

NIENTE DI BUONO FUGGIRÀ VIA DA TE

(Regole di scrittura: Steinbeck scrive a suo figlio sull'amore. Tanto per ricordarsi che scrivere non riguarda solo le parole. Anzi mi sa che quelle vengono per ultime, prima ci sono assolutamente le ragazze.)

10 novembre 1958

     Caro Thom,
abbiamo ricevuto la tua lettera stamattina. Ti dico quello che penso, e di certo anche Elaine lo farà.
     Primo: è una bella cosa che tu sia innamorato, è una delle cose più belle che ti possano capitare. Non lasciare che nessuno la sminuisca ai tuoi occhi.
     Secondo: ci sono diversi tipi di amore. Uno è egoistico, avaro, possessivo, un amore usato solo per il benessere che ti procura. Questo è il tipo vile e rovinoso. L’altro è espressione di tutto ciò che c’è di buono in noi - la gentilezza, la devozione, il rispetto - non solo il rispetto sociale ma un rispetto più grande, il riconoscimento che un’altra persona è unica e preziosa. Il primo tipo di amore può renderti piccolo, debole e malato, mentre il secondo ti infonderà forza, coraggio e generosità, e perfino una saggezza che non sapevi di avere.
     Dici che non è un’infatuazione. Se lo senti così profondamente sono sicuro che non lo è.
     Ma non penso che tu mi stessi chiedendo che cosa provi. Questo lo sai tu meglio di chiunque. Quello che volevi da me è aiutarti a capire che cosa farne, e in questo posso provare a consigliarti.
     Per prima cosa ringrazia il cielo. Devi essere davvero grato per il tuo amore.
     L’oggetto del tuo amore è il meglio che esista, la cosa più bella al mondo. Cerca di essere alla sua altezza.
     Se ami qualcuno non c’è alcun male nel dirlo: solo devi ricordare che certe persone sono molto timide, e a volte dirlo è un problema per la loro timidezza.
     Le ragazze sanno quello che provi, ma di solito vogliono sentirselo dire.
     Per qualche motivo può capitare che il tuo sentimento non sia ricambiato, ma questo non lo rende meno prezioso.
     Infine, so che cosa provi perché lo provo anch’io, e sono contento per te.
    Saremo felici di conoscere Susan. Sarà la benvenuta da noi. Si occuperà di tutto Elaine perché questo è il suo territorio, e sarà felice di farlo. Anche lei ne sa qualcosa dell’amore e magari ti darà un aiuto più utile del mio.    
     E non ti preoccupare della possibilità di perderla. Se è la cosa giusta vedrai che si realizzerà, l’importante è non avere fretta. Niente di buono fuggirà mai via da te.
     Ti voglio bene.
     Pa’



venerdì 2 novembre 2012

AMARE PER ESSERE SPIETATO

   (Dieci regole di scrittura: oggi tocca a Jonathan Franzen. Personalmente seguo la 2, ho cominciato a meditare sulla 4, credo fermamente nella 10. L'ho già copiata sulla prima pagina del mio quaderno nuovo.)

   1. Il lettore è un amico: non un avversario né uno spettatore.
   2. Scrivere è la tua avventura nella paura e nell’ignoto, altrimenti non vale niente (a parte i soldi).
   3. Non usare la parola “poi” come congiunzione. C’è la parola “e” per questo. Il “poi” è una non-soluzione, pigra e senza stile, al problema di avere troppe “e” sulla pagina.
   4. Scrivi in terza persona, a meno che una prima persona non si presenti a te con voce irresistibile.
   5. Più le informazioni diventano gratuite e diffuse, più le ricerche necessarie a un romanzo vengono sottovalutate.
   6. La narrativa più puramente autobiografica richiede invenzione pura. Nessuno ha mai scritto una storia più autobiografica della Metamorfosi.
   7. Pensi meglio stando seduto che correndo qua e là.
   8. Dubito seriamente che una persona connessa alla rete possa scrivere buona narrativa.
   9. I verbi con un suono interessante non sono quasi mai molto interessanti.
   10. Devi amare per poter essere spietato.

giovedì 25 ottobre 2012

SCRIVERE È METTERSI LE DITA NEL NASO

   (Grazie al mio amico Matteo ho scoperto questo decalogo di Etgar Keret. Mi è piaciuto molto e mi sono preso la libertà di tradurlo. Ci sono dentro alcune idee di cui parliamo spesso ai laboratori, in particolare il punto 2 e il punto 5. Il punto 1 invece lo prendo per me, come proposito per il libro nuovo.)

1. Godi della scrittura.
Gli scrittori raccontano sempre quanto sia duro il processo di scrittura, e quanta sofferenza provochi. Mentono. Alla gente non piace ammettere di godere del proprio lavoro. Scrivere è un modo di vivere un’altra vita. Molte altre vite. Le vite di un’infinità di persone che tu non sei mai stato, ma che sono assolutamente te. Ogni volta che ti siedi e affronti la pagina e provi a scrivere - anche se non ce la fai - sii grato per l’opportunità che hai di espandere lo scopo della tua vita. È divertente. È figo. È dandy. E non lasciare che nessuno ti dica il contrario.

2. Ama i tuoi personaggi.
Perché un personaggio sia reale, deve esistere almeno una persona al mondo in grado di capirlo e di amarlo, non importa se approvando o meno quello che fa. Tu sei la madre e il padre dei personaggi che crei. Se non li ami tu non li amerà nessuno.

3. Quando scrivi non devi niente a nessuno.
Nella vita se non ti comporti bene vieni sbattuto in galera o in un istituto, ma nella scrittura si può fare tutto. Se nella tua storia c’è un personaggio che ti attrae fisicamente, bacialo. Se c’è un tappeto che detesti, brucialo nel bel mezzo del soggiorno. Quando scrivi puoi disintegrare i pianeti e sradicare intere civiltà con uno schiocco di dita, e un’ora dopo la signora del piano di sotto ti rivolgerà ancora il saluto.

4. Comincia sempre dal centro.
L’inizio è come il bordo di una torta bruciacchiato dalla teglia. Puoi averne bisogno per ingranare ma non è davvero commestibile.

5. Cerca di non sapere come va a finire.
La curiosità è una forza molto potente. Non perderla per strada. Quando stai per scrivere una storia tieni sotto controllo la situazione e i bisogni dei tuoi personaggi, ma lasciati sempre sorprendere dalle svolte della trama.

6. Non usare niente solo perché “si fa così”.
Gli a capo, le virgolette, i personaggi che mantengono lo stesso nome anche se hai girato pagina: sono tutte convenzioni che esistono per servirti. Se non funzionano lasciale perdere. Il fatto che una regola sia stata applicata in ogni libro che hai letto non significa che debba essere applicata anche nel tuo.

7. Scrivi a modo tuo.
Se provi a scrivere come Nabokov, ci sarà almeno una persona che l’ha fatto meglio di te (si chiama Nabokov). Ma se scrivi a modo tuo sarai sempre il campione del mondo dell’essere te stesso.

8. Assicurati di essere da solo nella stanza dove lavori.
Anche se scrivere al bar suona romantico, avere altra gente attorno a te ti rende conformista, che tu te ne accorga o no. Quando in giro non c’è nessuno puoi parlare da solo o metterti le dita nel naso senza problemi. Scrivere è mettersi le dita nel naso, e in mezzo alla gente la cosa non viene naturale.

9. Lasciati incoraggiare dalle persone a cui piace quello che scrivi.
E prova a ignorare tutti gli altri. Quello che hai scritto semplicemente non è per loro. Non importa. Il mondo è pieno di scrittori. Se cercano bene ne troveranno uno che li soddisfa.

10. Ascolta tutto quello che ti dicono ma non dar retta a nessuno (a parte me).
La scrittura è il territorio più privato al mondo. Nessuno può insegnarti come ti piace il caffè, e nessuno può insegnarti come scrivere. Se qualcuno ti dà un consiglio che suona bene e senti che è giusto, usalo. Se il consiglio suona bene e senti che è sbagliato, non ci perdere nemmeno un secondo. Potrà andar bene per qualcun altro ma non per te.


martedì 18 settembre 2012

IN VIAGGIO CON SOFIA

     Nei prossimi mesi me ne vado in viaggio con Sofia. Con il suo caratteraccio non sarà facile, ma spero che faremo incontri belli. Ecco il calendario in continuo aggiornamento. Chiunque desideri invitarci può scrivere a questo indirizzo (astenersi catene librarie, gradite scuole e osterie). Ci si vede in giro.

     Venerdì 21 settembre, Milano: libreria Centofiori, ore 18.30
     Martedì 25 settembre, Roma: libreria minimum fax, ore 21
     Mercoledì 26 settembre, Viterbo: spazio Arci Biancovolta, ore 21
     Giovedì 27 settembre, Frascati (Roma): libreria Lotto 49, ore 21
     Sabato 29 settembre, Milano: festival Roland Scritture
     Giovedì 4 ottobre, Ivrea: La galleria del libro, ore 18.30
     Venerdì 5 ottobre, Bergamo: libreria Articolo 21, ore 18
     Giovedì 11 ottobre,Verona: circolo Malacarne, ore 19
     Venerdì 12 ottobre, Venezia: libreria Marco Polo, ore 18
     Sabato 13 ottobre, Padova: festival La fiera delle parole, ore 19
     Venerdì 19 ottobre, Torino: libreria Trebisonda, ore 21
     Sabato 20 ottobre, Tortona (Alessandria): libreria Namastè, ore 18
     Sabato 27 ottobre, Monza: libreria Libri e Libri, ore 11
     Mercoledì 31 ottobre, Palermo: libreria Modusvivendi, ore 18.30
     Martedì 6 novembre, Cremona: Osteria del Fico, ore 21
     Venerdì 9 novembre, Sansepolcro (Arezzo): libreria del Frattempo, ore 21
     Sabato 10 novembre, Fermo: libreria Ferlinghetti, ore 21.30 
     Venerdì 16 novembre, Milano: festival Book City, ore 20.30
     Domenica 18 novembre, Pietrasanta (Lucca): libreria Nina, ore 18
     Sabato 24 novembre, Pisa: Pisa Book Festival, ore 18
     Lunedì 26 novembre, Milano: cooperativa La Liberazione, ore 21
     Mercoledì 28 novembre, Cassago (Lecco): ass. Frecciarossa, ore 21
     Sabato 8 dicembre, Foggia: Piccolo Teatro Impertinente, ore 20
     Domenica 9 dicembre, Locorotondo (Bari): Docks 101, ore 19
     Lunedì 10 dicembre, Corato (Bari): BangBangBar, ore 19.30
     Martedì 11 dicembre, Francavilla Fontana (Brindisi): libreria Ubik, ore 18.30
     Giovedì 13 dicembre, Firenze: libreria-café La cité, ore 19
     Venerdì 14 dicembre, Bologna: libreria IBS, ore 18.30
     Giovedì 20 dicembre, Cagliari: Piazza Repubblica Libri, ore 19
     Venerdì 25 gennaio, Lodi
     Mercoledì 30 gennaio, Viterbo


(la bambola ritagliabile di Sofia è opera di Eugenia Burchi, che ringrazio moltissimo per il pensiero)

mercoledì 5 settembre 2012

SOFIA SI VESTE SEMPRE DI NERO

Ho cominciato a scrivere di Sofia nel gennaio del 2008, immaginando una raccolta di racconti su una ragazza della mia età. Sarebbero andati su e giù per la sua vita dagli anni Settanta in poi. Volevo che fossero il più possibile diversi tra loro: molto lunghi e molto brevi; scritti in prima, seconda e terza persona; al passato, al presente e se possibile anche al futuro. In uno la storia sarebbe durata vent’anni, in un altro un giorno solo; non sempre Sofia avrebbe occupato il centro della scena, ma anche nascosta dietro le quinte sarebbe stata la causa o l'effetto delle azioni altrui; e nel percorrere la sua vita mi sarei fermato spesso per tornare indietro, ricominciando da un altro punto di vista. Nelle mie intenzioni ogni pezzo del mosaico doveva poter vivere da solo, oltre che legarsi agli altri e comporre un disegno più ampio, in modo da conservare le qualità che amo tanto nella forma racconto - l’immediatezza, l’economia rigorosa del materiale narrativo, la libertà di sperimentare e quel senso di illuminazione che i migliori finali possiedono - e perseguire allo stesso tempo la profondità, la complessità del romanzo. Naturalmente non era un’idea originale. Tra i miei maestri americani ne avevo in testa soprattuto due: Hemingway (con i racconti di Nick Adams) e Salinger (con la saga della famiglia Glass). Altri romanzi di racconti che ho preso a modello: Un matrimonio da dilettanti di Anne Tyler. Il Manuale di caccia e pesca per ragazze di Melissa Bank. E poi un capolavoro che, misteriosamente, sembra tale solo a me: Esther Stories di Peter Orner. Questi libri li ho letti, smontati, studiati, per costruire un meccanismo simile ma con un materiale tutto mio: una ragazza nata a Milano nel 1977, le persone con cui è cresciuta, il mondo che gira intorno a loro.

Poi durante gli ultimi cinque anni, mentre scrivevo, sono usciti altri tre titoli per me fondamentali. Questi però non sono passati inosservati: hanno vinto il Pulitzer e il National Book Award, riempito librerie e pagine di giornali. Sono Olive Kitteridge di Elizabeth Strout (2008), Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann (2009), Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan (2010). Tre romanzi di racconti che considero fratelli uno dell’altro. Sono apparentati non solo dalla struttura a mosaico ma dall’idea di usarla per rappresentare il tempo, anzi l’esperienza del tempo che è la memoria: frammentaria, non lineare, fitta di connessioni intrecciate tra loro, agitata da continui movimenti. Mi viene in mente la chimica, quell’altro grande romanzo di racconti che è Il sistema periodico di Primo Levi, o uno stagno in cui le bolle d’aria dei ricordi non smettono di salire dal fondo, gonfiarsi e fondersi le une con le altre, a volte arrivare in superficie e scoppiare. I racconti sono le bolle d’aria. Il romanzo è il sistema delle loro relazioni. Lo stagno siamo noi: siamo noi a ribollire di ricordi che a volte salgono in superficie ed esplodono, e leggiamo, scriviamo, per comprendere quel tumulto; se non riusciamo a tenerlo a bada possiamo almeno conoscerlo un po’ meglio, imparare come funziona. Per lo meno è così per me.

Dunque avrei cambiato stile da un racconto all’altro, saltato tra personaggi ed epoche, evitato di seguire la vita di Sofia in ordine cronologico, come se la guardassi accadere, ma in una specie di ordine emotivo, come se la ricordassi. Avrei lasciato buchi e contraddizioni, come quando provi a ricostruire un vaso andato in cocci e scopri che i bordi di due frammenti non corrispondono più. Avrei voluto sottrarmi all’obbligo di mettere i racconti in fila, trovare il modo di farli esistere simultaneamente, dare al lettore la libertà di stabilire un ordine suo, seguendo la propria indole, scovando legami che magari non ho visto neanch’io. Mi sarebbe piaciuto che l’indice del libro non fosse stato un elenco, ma la mappa di una casa. E che il lettore avesse dovuto, potuto, decidere come esplorarla: se entrare dalla porta d’ingresso o dalla finestra del primo piano, se affacciarsi in cucina, fare un giro nel soggiorno, chiudersi in bagno o fermarsi per un po’ nella stanza di Sofia. È anche questa un’idea rubata a una delle mie scrittrici preferite, Alice Munro, che sulla chimica della memoria ha lavorato per tutta la vita, e una volta ha scritto: Per me una storia non è una strada da seguire, è qualcosa di più simile a una casa. Tu ci entri e resti al suo interno per un po’, vai avanti e indietro e ti fermi dove ti piace, scopri come le stanze e i corridoi sono in relazione tra loro, come il mondo esterno è alterato dalla prospettiva delle finestre. E tu, il visitatore, il lettore, sei altrettanto alterato da questo spazio chiuso, che sia ampio e comodo o che ti obblighi a giri tortuosi, che sia arredato in modo opulento o essenziale. Puoi tornarci tutte le volte che vuoi, e la casa, la storia, conterrà sempre più di quello che hai visto l’ultima volta. Ha anche un solido senso di sé: è stata costruita per una propria ragione di esistere, non necessariamente per ospitare te.

Infine, da scrittore di racconti mi mancava terribilmente un’esperienza del romanziere. Quella di creare un personaggio e vederlo crescere, imparare a conoscerlo con il tempo, trascorrere insieme a lui qualche anno della propria vita. Quel legame che stabiliamo coi protagonisti dei libri letti, che per un certo periodo diventano i nostri compagni più intimi, cominciano a mancarci ben prima dell’ultima riga e poi ne parliamo agli amici come se fossero persone in carne e ossa: quanto profondo sarebbe diventato, quell’affetto, se il libro l’avessi scritto io? Be', ho consumato quasi duemila pagine e una decina di biro nere ma alla fine l’ho scoperto: è stato come vivere una storia d’amore. Ecco cosa mi rimane, ora che ho messo i quaderni in una scatola e il libro è per il mondo. Spero che sia un buon libro per chi lo leggerà, ma in un certo senso  non ha nessuna importanza, perché non cambia quello che ha significato per me. Ho passato con Sofia gli ultimi cinque anni della mia vita: abbiamo avuto momenti belli e momenti brutti, però ci sono stati; anni intensi e pieni di passione, di scoperte e litigi e ossa rotte; e di strade, città, canzoni, persone, case. Se ci penso me le ricordo tutte. E adesso nessuno mi venga a dire che lei, noi, non siamo mai esistiti.






venerdì 27 luglio 2012

LETTERE DALL'AFRICA

   Quassù in montagna leggo Karen Blixen. Mi sento un po’ più al caldo e meno solo, scoprendo di condividere con qualcuno la percezione del mondo. Non parlo del modo in cui lo pensi, ma del modo in cui lo senti: dell’effetto che il mondo ti fa sulla pelle. A volte Tanne mi guarda dalla pagina e chiede: anche a te manca il respiro quando stai tra la gente? Provi il mio stesso piacere acuto in mezzo al vento forte, e soffri di crudeltà che gli altri non vedono nemmeno? È un po’ come funzioniamo con la luce: materiali diversi la assorbono in modi diversi, così all’occhio umano appaiono di colori diversi. La luce del mondo ci colpisce tutti quanti, ma ognuno di noi ne trattiene una parte a seconda di com’è fatto, e quella che respinge è il suo colore (per questo le persone nere non assorbono meno delle altre, anzi vengono colpite da tutto; sono le persone bianche a non essere sfiorate dal mondo). A volte, per un colpo di fortuna, scopri uno scrittore del tuo stesso materiale, e leggendo lui impari un po’ meglio come sei fatto tu. 

   Sembrerebbe una pasta assai diversa da quella dei miei amati americani, ma non è così. Hemingway, che avrebbe preferito bere acqua piuttosto che spendere elogi per i suoi contemporanei, dichiarò che La mia Africa era uno dei libri migliori che avesse mai letto. La stessa cosa disse Salinger per bocca del suo ragazzo ribelle, Holden Caulfield, un altro a cui non piaceva mai niente: eppure non riusciva a staccarsi da quel libro preso per sbaglio in biblioteca. Carver aveva copiato una frase di Tanne su un foglio e l’aveva appesa al muro: “Scrivo un po’ ogni giorno, senza speranza e senza disperazione”. Un habitus che anche a lui stava a pennello, nonostante tutte le taglie di differenza tra un’eterea nobildonna danese e un ex alcolista, ex disoccupato, ex buono a nulla come Ray. Invece avevano in comune un bisogno, quello di scrivere per salvarsi la vita. Tanne cominciò a quarantasei anni, dopo avere perso la sua terra, seppellito l’uomo che amava, fatto ritorno alla casa della madre e a un mondo in cui non c’era più nulla per lei. Aveva preso in considerazione l’idea di morire e credo sia stata davvero vicina a farlo, lucidamente, direi quasi saggiamente; poi decise di vivere per raccontare. 
 
   Il mio preferito tra i suoi libri non è La mia Africa, ma quello che l’ha generato: Lettere dall’Africa. Si tratta dell’epistolario tra Tanne, la madre Ingeborg e il fratello Thomas durante la permanenza in Kenya. Trovo che La mia Africa, scritto sei anni dopo il ritorno in Danimarca, sia un capolavoro sulla nostalgia: su come si possa vivere nella memoria, tenere in vita le cose amate, rinnovarne l’incanto raccontandole. Ma nella nostalgia si stempera il dolore e lo stesso accade con le tinte forti dell’euforia, lo sconforto, la rabbia, la sorpresa di un incontro, la desolazione della perdita. Sono i colori di questa bellissima raccolta di lettere. Una delle ultime è del 12 ottobre 1930, alla madre, poco dopo la scoperta del volo: “Dubito davvero che per me possa esistere una felicità più grande che volare sulle pianure d’Africa e le colline Ngong con Denys. Qui devo ammettere che Dio ha infinitamente più fantasia di noi, cosa di cui non mi sembra dia gran prova nella vita quotidiana. Perché io non sarei mai stata capace d’inventare né l’Africa né Denys - forse il volo, che certo è un comune desiderio umano, e una volta non eravamo uccelli? - e ora riesco a capire quanto sia divertente essere un angelo. Immagina enormi distese infinite sotto di te, con branchi di zebre, gnu, giraffe, e lunghe catene di montagne verdi, e luce e ombra che si alternano ovunque, e in alto, al di sopra di tutto questo, la tua stessa velocità!” 

   La successiva fu spedita al fratello il 17 marzo 1931, quando Tanne aveva già perso la piantagione e stava vendendo i mobili di casa, due mesi prima che Denys si schiantasse con il suo aeroplano, quattro mesi prima di imbarcarsi per l’ultima volta da Mombasa: “Di tutti gli idioti che ho incontrato in vita mia - e Dio solo sa che non sono pochi - credo di essere stata la più grande. Ma mi ha impedito di cadere a pezzi un indomabile amore per la grandezza, che è stato il mio demone. E ho vissuto una quantità infinita di cose meravigliose. Anche se con altri l’Africa è stata più clemente, io credo fermamente di essere uno dei suoi figli prediletti. Un gran mondo di poesia mi si è dischiuso quaggiù, e mi ha fatta entrare, e io l’ho amato. Ho guardato i leoni negli occhi e ho dormito sotto la Croce del Sud, ho visto le grandi praterie in fiamme e le ho viste coperte di tenera erba verde dopo la pioggia, sono stata amica di Somali, Kikuyu e Masai, ho volato sopra le colline Ngong, e credo che la mia casa qui sia stata un rifugio per i viandanti e i malati, e per gli indigeni il nucleo di uno spirito amichevole.”

   Io quella casa l’ho visitata qualche anno fa: ora è un museo e si trova nella periferia di Nairobi. Ma gli alberi del giardino sono quelli che aveva piantato lei, e all’orizzonte si vedono le colline dove è sepolto Denys Finch-Hatton. Sulla lapide di lui c’è l’ultimo verso del suo poema preferito, la Ballata del vecchio marinaio: “Avrà pregato bene chi ha amato bene, sia esso uomo, uccello o bestia”. Di lei non resta una tomba ma una casa, che a me pare un modo più bello di essere ricordata. Quella zona della città sorge sui terreni dell’antica piantagione di caffè, la Karen Coffee Company, e solo per questo si chiama Karen, ma è come se qualcuno avesse voluto pronunciare il suo nome a voce alta, esaudire la sua preghiera: “Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova distesa sul suo dorso, degli aratri nei campi e dei volti sudati delle raccoglitrici di caffè, ma l’Africa conosce il mio canto? L’aria sulla pianura fremerà di un colore che ho avuto su di me, o i bambini inventeranno un gioco nel quale ci sia il mio nome? La luna piena getterà un’ombra che mi assomigli sulla ghiaia del viale, o le aquile sulle colline Ngong guarderanno se ci sono?”

Karen Blixen, Lettere dall'Africa 1914-1931
traduzione di Bruno Berni, Adelphi editore


 




mercoledì 13 giugno 2012

LE CASE DEGLI ALTRI

   (Quest’anno ricorre il centenario della nascita di John Cheever, e l’editore Feltrinelli lo celebra ripubblicando tutta la sua opera. O pubblicandola per la prima volta, come nel caso di molti dei 61 racconti usciti in questi giorni. Per l’occasione sono stato invitato a tenere una lezione su Cheever alla Scuola Holden di Torino, che ringrazio di cuore per l’ospitalità. Eccone qui un estratto.)

   Che cos’è una casa? È una scatola che divide il mondo in due spazi: un dentro e un fuori. La sua sola esistenza genera un conflitto, materia prima ideale per costruire una storia. Per cominciare a immaginarla potremmo chiederci: che cosa sta dentro la casa e che cosa rimane fuori? In quale rapporto sono questi due spazi, e come comunicano tra loro? Esistono porte e finestre per passare da uno all’altro? Quanto sono permeabili i muri? Quali tracce conserva una casa di chi ci vive o ci ha vissuto, che notizie dà dei suoi abitanti?
   Come scrittore credo di esserne ossessionato. Solo dopo aver finito i racconti della mia nuova raccolta mi sono accorto che parlano tutti di case. E di case parlano i miei racconti preferiti. Ne rileggo spesso uno di Rigoni Stern, Le mie quattro case, in cui Mario ricostruiva la propria storia attraverso le case abitate. Una memoria legata ai luoghi che tutti possediamo, e che compone una biografia possibile di ognuno di noi, ma il bello del racconto è che una di quelle case era andata distrutta prima che lui nascesse, e un’altra non era mai esistita se non nella sua testa. Era la baita che Mario aveva progettato mentre era prigioniero nel lager, un sogno di casa che gli aveva occupato la mente e salvato la vita. Sarebbe stata appartata, lontana dagli uomini e vicina al bosco, essenziale, calda, adatta a curarsi dalle ferite della guerra e a far pace col mondo.
   Quel rifugio ideale di Rigoni Stern me ne ricorda un altro a cui sono affezionato, la Casa di Chef messa in scena da Carver nel racconto omonimo. Il protagonista, Wes, era uno dei suoi soliti ubriaconi. Aveva perso il lavoro ed era stato lasciato dalla moglie, ma adesso era sobrio da qualche tempo e un tizio conosciuto agli alcolisti anonimi, questo Chef, gli aveva prestato una casa per l’estate. Era piccola e vicina all’oceano. In quella casa a Wes era sembrato di poter ricominciare, tanto che dopo un po’ aveva telefonato alla moglie, chiedendole perdono e invitandola a passare l’estate lì con lui. Le case nuove hanno questo di buono, ci illudono di poter rinnovare anche la nostra vita.

   Così, come quegli studiosi dell’Ottocento che smontavano le favole cercandone i meccanismi ricorrenti, ho inaugurato uno studio che sta a metà tra architettura e narrativa: quante cose si possono fare con una casa in una storia? Ci ho riflettuto per un po' di tempo e ne ho trovate alcune. Ho provato ad abbinare a ogni situazione una funzione narrativa, ed ecco qui qualche proposta per un immaginario manuale (accetto suggerimenti per ampliarlo):

- Costruire una casa (fondare una dinastia)
- Comprare casa (diventare adulti)
- Cambiare casa (cambiare vita)
- Scappare di casa (conquistare la libertà, partire per l’avventura)
- Essere cacciati di casa (subire uno sradicamento)
- Avere la casa distrutta, bruciata, allagata (perdere tutto)
- Distruggere, bruciare, allagare casa propria (suicidarsi)
- Avere i ladri in casa (subire una violazione)
- Avere un inquilino in casa (condividere la propria intimità con un estraneo)
- Abitare in casa d’altri (introdursi nell’intimità altrui)
- Avere la casa pericolante (perdere le certezze)
- Avere la casa infestata da topi, scarafaggi, tarli (sentirsi minacciati)
- Avere la casa infestata dai fantasmi (scoprire segreti del passato)
- Chiudersi in casa (essere depressi)
- Sostare davanti alla finestra di casa (aspettare un cambiamento)
- Uno sconosciuto bussa alla porta di casa (novità in arrivo)
- Un poliziotto bussa alla porta di casa (guai in arrivo)
- Una casa in costruzione (la nascita)
- Una casa trascurata (la malattia, la solitudine)
- Una casa illuminata nella notte (la felicità domestica)
- Una casa disabitata (la morte)

   A Cheever piacevano particolarmente queste due: Introdursi in casa d’altri e Subire un’intrusione. A partire dal suo racconto più celebre, Una radio straordinaria, in cui una giovane sposa, Irene, una ragazza sulla cui fronte “nulla ancora era stato scritto”, riceve in regalo dal marito una radio difettosa, in grado di captare le conversazioni nelle case dei vicini. Scoprirà che coppie apparentemente felici nascondono segreti di ogni tipo, ne sarà sconvolta e perderà ogni illusione sulle gioie del matrimonio, compreso il suo. Nel racconto Stagione di divorzio succede un po’ il contrario: una moglie di mezz’età, Ethel, riceve l’inaspettata dichiarazione d’amore di un conoscente a sua volta sposato, il dottor Trencher. Questo dottore è così ossessionato da Ethel da abbandonare il tetto coniugale per appostarsi sotto casa di lei e seguirla ovunque, rinnovando le sue proposte di fuga romantica. Il bello del racconto è la reazione della donna, che dopo un grande turbamento si accorge di non essere mai stata così desiderata in vita sua, ha la tentazione di scappare con il dottore, ma poi sceglie di restare con il marito e allo stesso tempo si condanna all’infelicità. Le case di Cheever non contengono un io, ma quel noi che lo scrittore ha usato spesso come voce narrante: ogni coppia ha una vita apparente e una vita segreta, e questi sono il fuori e il dentro separati dalle mura domestiche. A volte il dentro può essere origliato da una radio speciale, spiato attraverso una finestra, confessato al bancone di un bar grazie a qualche bicchiere, rivelato dall’incuria del giardino o dalla cronica assenza di ospiti, o semplicemente raccontato dagli oggetti che troviamo nelle case degli altri, se siamo abbastanza bravi a capire la loro lingua. Di questo parla quello che è probabilmente il mio racconto preferito di Cheever. Ne ricopio qui l’inizio, sperando che per qualcuno sia il benvenuto nel mondo di un grande scrittore.

   LE CASE AL MARE

   Ogni anno affittiamo una casa in riva al mare e all’inizio dell’estate ci trasferiamo lì con i bambini, il cane, il gatto e la cuoca. Arriviamo in quel luogo che non conosciamo poco prima che faccia buio. Il viaggio verso il mare ha un eccitamento cerimonioso tutto suo - sono tanti ormai gli anni che lo viviamo - con quella consapevolezza di chi siamo, ciò che nei sogni abbiamo sempre saputo di essere - girovaghi e migranti - viaggiatori, insomma, con la tipica sensibilità del viaggiatore. Il vicino ti dà un mazzo di chiavi mezzo arrugginite dalla salsedine, tu apri la porta ed entri in un corridoio buio o pieno di luce, pronto a iniziare la vacanza: un mese che si preannuncia senza preoccupazioni. Ma altrettanto forte, se non addirittura più forte di questa piacevole sensazione di ritorno alle origini, è la sensazione di essere finito nel bel mezzo della vita di qualcun altro. Io tratto con gli agenti immobiliari e non mi capita mai di conoscere i proprietari delle case che prendiamo in affitto, ma la loro capacità di lasciarsi alle spalle il senso della loro presenza fisica ed emotiva è straordinaria. La storia della nostra vita non è di certo scritta nell’aria o nell’acqua, eppure sembra che possa venir raccontata dai battiscopa graffiati, dagli odori, dal gusto nello scegliere quadri e mobili, e il clima che respiriamo in ogni casa è caratteristico quanto gli improvvisi stravolgimenti del tempo in spiaggia. A volte in quel lungo corridoio si prova una sensazione di benevolenza, una purezza e limpidezza di sentimenti verso cui non si può restare insensibili. Qualcuno lì ha passato momenti veramente felici, e si ha la sensazione di aver preso in affitto pure la sua felicità insieme alla sua casa. A volte l’atmosfera del posto sembra misteriosa, e rimane tale fino ad agosto, quando ce ne andiamo. Chi è, viene da chiedersi, la donna nel ritratto al piano di sopra? Di chi è l’opera completa di Virginia Woolf? Chi ha nascosto la copia di Fanny Hill nella vetrina, chi suonava lo zither, chi dormiva nella culla? E chi era la donna che ha dipinto con lo smalto rosso le unghie delle zampe di leone della vasca da bagno? Com’era la sua vita in quel momento?
   Mentre il cane e i bambini corrono giù in spiaggia, noi portiamo dentro le nostre cose: ci sembra di vagare attraverso le dense storie di questi estranei. Calato il buio ci prepariamo un drink, mandiamo i bambini a dormire e, dopo aver preso tutte le misure per esorcizzare la presenza dei proprietari e assicurarci il pieno possesso del posto, facciamo l’amore in una stanza estranea che odora del sapone di qualcun altro. Ma nel bel mezzo della notte la porta del terrazzo si apre e sbatte, sebbene sembra che non ci sia vento, e mia moglie, mezzo addormentata, esclama: “Ma perché sono tornati? Perché sono tornati? Che cos’hanno dimenticato?”

John Cheever, I racconti
(Le case al mare è tradotto da Leonardo Giovanni Luccone)
Feltrinelli 2012




venerdì 25 maggio 2012

RAY NE FA 74

   In principio fu Bukowski. Il mio incontro con Hank: Storie di ordinaria follia, preso in prestito in biblioteca e letto invece di studiare Foscolo e Leopardi. Sesso e whisky da quattro soldi, stanze pulciose e corse dei cavalli al posto degli interminati spazi, i sovrumani silenzi, il greco mar ove vergine nacque Venere: fu una folgorazione. Gli altri romanzi e racconti seguirono in ordine sparso, nelle edizioni Guanda e Feltrinelli che possiedo ancora - Donne, Factotum, Post Office, Confessioni di un codardo, il Taccuino di un vecchio sporcaccione. Era l’estate tra la quarta e la quinta superiore. In settembre sperimentai per la prima volta quel senso di perdita che ogni lettore conosce bene: quando esaurisci i libri del tuo scrittore preferito è come se fosse morto un’altra volta, e solo a te, quel giorno, il mondo sembra un luogo triste e più vuoto. Passai a John Fante proprio per alleviare il lutto. Fu Hank in persona a indicarmi la strada. Era stato lui a riscoprire Fante, a salvarlo dall’oblio e convincere il suo editore a ripubblicarlo. Mi buttai nelle avventure di Arturo Bandini come se fosse un compagno di bevute del vecchio Chinaski. La strada per Los Angeles, Sogni di Bunker Hill, Aspetta primavera Bandini. Ora personaggi e titoli si confondono nella mia memoria, e io provo per loro l’affetto riservato agli amori giovanili. Avrei un po’ di timore a rileggerli, come a incontrare un certa ragazza insieme al marito e ai figli. E se la trovassi sformata dalle gravidanze, instupidita da biberon e pannolini? Magari invece scoprirei una donna affascinante, e due scrittori del tutto nuovi: l’alcol e il sesso mi colpirebbero meno, apprezzerei dettagli che ai tempi non notavo. Il rapporto di Bandini con il padre. L’Abruzzo trapiantato in California. Chinaski dietro uno sportello postale con i postumi della sbornia. I gesti delle ubriacone sfatte raccattate al bar.

   Poi venne Raymond Carver, ramo dello stesso albero genealogico: avevo letto una sua poesia su una serata passata con Bukowski. Quella in cui Hank afferma che può bere birra a volontà, ma di non dargli whisky se no diventa cattivo. E poi attacca a parlare della sua nuova ragazza e dice: voi non sapete che cos’è l’amore. In un’intervista Carver disse che Hemingway era il suo maestro, ma Bukowski il suo eroe. Bastava questa dichiarazione per leggermelo tutto. Mi ricordo bene le vecchie edizioni dei libri di Ray, prima che minimum fax lo rilanciasse: i Garzanti gialli, la collana degli Elefanti; l’edizione Serra e Riva di Cattedrale che poi mio padre mi ha regalato; gli introvabili Pironti che a volte scovo nelle librerie dell’usato, me li porto via per pochi soldi e mi sento come quelli che scoprono un Picasso in un mercatino. Questo per dire che anche la memoria di un lettore è una raccolta di storie: che copertina aveva quel libro, dov’ero quando l’ho letto; c’è stato quello che ho rubato ficcandolo nei pantaloni, e ora che ho tanti amici librai me ne vergogno ma non avevo soldi; quello leggendario perché risultava nelle bibliografie, tutti ne avevano sentito parlare ma non si trovava da nessuna parte; e poi quel libro fotografico, Carver Country, in cui miracolosamente personaggi e luoghi diventavano reali, e potevi vedere con i tuoi occhi la segheria di Yakima, la casa di Chef, la clinica per alcolisti in California, la faccia della moglie di Ray rovinata dalle botte, lo spazzacamino e perfino il cieco di Cattedrale. Ora di quel libro possiedo tre versioni: una americana, una francese e una italiana. La mia collezione di Carver comprende pure la prima edizione autografata di Where I’m Calling From. Penso a lui ogni volta che arriva il 25 maggio perché è il suo compleanno: sembra passato un secolo da quando è morto eppure oggi festeggerebbe i 74 anni, non molti in fondo, di certo non troppi per scrivere buoni racconti. L’anno di nascita, 1938, me lo ricordo sempre perché è lo stesso di mia madre. Gli faccio tanti auguri brindando a whisky e latte come in Vitamine, quando è quasi mattina, la festa è finita e tutti sono ormai crollati, e l’uomo invece di andare a dormire si siede al tavolo della cucina, pensa all’amica della moglie e al mezzo bacio che è riuscito a strapparle, e poi si versa un altro bicchiere deciso a tenere duro.

   In un racconto indimenticabile - Otto scrittori - Michele Mari parlava di Verne, Defoe, Stevenson, Conrad, Melville, Poe, London e Salgari come di un’unica voce senza tempo, una specie di dio narratore di storie marinaresche, incarnato di volta in volta in nomi diversi. Provo lo stesso sentimento per Fante, Bukowski e Carver. È la voce di un bianco americano, un uomo con pochi talenti e qualche sogno infranto, che va su e giù per il paese non a caccia di fortuna, ma in fuga da debiti e matrimoni falliti. Da bere c’è whisky allungato con acqua, oppure birra in confezione da sei. I lavori cambiano sempre, i soldi non bastano mai, le donne bevono quanto gli uomini e comunque, come diceva Hank, sono donne di altri: quando gli altri le scaricano le raccogliamo noi.
   La firma di Carver che ho sotto gli occhi non assomiglia a quelle degli scrittori americani che ho incontrato di persona, che sono grandi, tonde, a tutta pagina, e al collezionista danno soddisfazione. La sua è uno scarabocchio tremolante. Ray diceva di non amare la sua firma: gli ricordava le cambiali, i debiti e i due processi per bancarotta che aveva dovuto subire. Avrebbe preferito non firmare più niente in vita sua. Del successo raggiunto negli ultimi anni non apprezzava tanto la fama, quanto la stima di se stesso che aveva ritrovato. Era stato, secondo le sue parole, un fallito, un alcolista, un imbroglione, un violento, un bugiardo, un ladro. Una faccia nello specchio che preferivi non guardare, un nome che non ti andava di vedere scritto. Una volta era quasi morto, e poi era rinato.
   La sua tomba si trova a Port Angeles, in un piccolo cimitero in cima a una scogliera. Poco più in basso si infrangono le onde del Pacifico, oltre lo stretto si vede Vancouver Island. Lì finiscono gli Stati Uniti e comincia il Canada. Sulla lapide c’è una delle ultime poesie di Ray:

E hai avuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E che cosa volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.



mercoledì 2 maggio 2012

FANTASMI

   Ora che sto qui a levigarli e lucidarli, questi dieci racconti, mentre dovrei solo liberarmene e fare altro, mi sembra di sfogliare non le pagine di un libro futuro, ma un vecchio album di fotografie.
   Il racconto dei pirati fu il primo, nell’inverno del 2008, quando passavo tutti i giorni alla Scighera e leggevo solo libri sulla filibusta. L’idea sui branchi di maschi mi ricordo da dove viene: ne parlavo spesso con Remigio, di maschi e di lupi, sul prato di Fontane. E la scena in cui i due amici si separano, alla fermata di Smith Street sulla linea F, l’ho scritta proprio a Brooklyn nell’aprile del 2010. Sono uscito di casa e sono sceso in metropolitana con il mio quaderno, mi sono seduto su una panchina, ho immaginato la scena e l’ho scritta. Quaderni come quello mi hanno accompagnato ovunque in questi anni. Li ha comprati mio padre in Malesia e mi pare giusto che uno dei racconti cominci proprio così: con mio padre a Singapore che contempla l’Oceano Indiano. Sono quaderni di dimensioni A4, con la copertina di cartone e le pagine numerate, quattrocento ciascuno. Ne ho riempiti cinque con le storie di Sofia. Potrei anche sfogliarli come pagine di diario: qua e là c’è il disegno di un larice, l’indirizzo di un pub newyorkese, il nome e il numero di telefono di qualcuno che non so più chi è, macchie di caffè e di vino, brani di libri che stavo leggendo e mi andava di ricopiare, ma più che altro c’è quello, parole su parole, un mucchio di bucce d’uva fermentata e un laborioso processo di distillazione. Duemila pagine che diventeranno duecento. A quanto pare, da cento chili di vinaccia si estraggono sei litri di grappa: dunque il mio alambicco non è stato poi così spietato, e il mio nettare più che a torcibudella assomiglierà a un liquore per signorine.

   Non ho un racconto preferito, oppure il preferito cambia a seconda dell’umore. Nei giorni di bonaccia mi piacciono quelli brevi, secchi e puliti, ma quando mi sento montare il mare mosso quei racconti mi sembrano solo dei giochini, e preferisco quelli lunghi, sofferti, imperfetti. Tutti sono nati da un modello, anche se poi magari scrivendo hanno preso la loro strada, e del modello non conservano più molto. Ma se ci ripenso ora posso risalire a ciascuna fonte: il primo viene da Hemingway, Un racconto molto breve; il secondo da Ortiche di Alice Munro; il terzo da Per Esmé di Salinger; Gente del Wyoming di Annie Proulx ne ha ispirati ben due. È importante per me quest’idea, che scrivere sia come dialogare coi miei maestri vivi o morti, provare a raccogliere il loro testimone. Nel mio libro c’è Carver nell’uomo che chiama l'amante dalla cabina del telefono, nella donna che mette i mobili fuori di casa; c’è Salinger in ogni dialogo tra un adulto e un bambino; ci sono Cheever e Yates in ogni piscina gonfiabile, ogni villetta a schiera. C’è perfino Il velo nero di Hawthorne, e i Maschietti di Moody che non mancano mai, Esther Stories di Orner che è il mio sussidiario, e come ho fatto a dimenticare Le vergini suicide? Sono lì nella scena in cui il ragazzino entra nella stanza di Sofia, molti anni dopo che lei se n’è andata. Per dire di come le fonti si mescolano, a lui ho dato il nome del gestore di un rifugio che ho conosciuto in Valsesia. Era un nome troppo bello per non usarlo in un racconto. Anche il cane di Sofia è ispirato a quello dei miei vicini d’alpeggio, il vecchio cane pastore sempre in cerca di biscotti, e l’ho chiamato Mozzo come lui.

   Chissà se qualcuno troverà tutti i libri nascosti nel mio libro, se le persone sapranno di essere proprio loro, se chi è stato con me in un luogo lo riconoscerà. In un racconto c’è Nadia nell’incubatrice, quando è nata e hanno sgomberato il reparto per colpa della sua salmonella, e mia madre che le parla seduta lì accanto, appena arrivata dal Veneto dopo la scuola da infermiere. C’è il laghetto di Gressoney Saint-Jean con l’isola e il gazebo, solo che nel mio libro sta in Brianza, dove rischiammo di andare a vivere verso la metà degli anni Ottanta (sia benedetto chi quella volta ha cambiato idea). C’è Marina che fa la lotta armata e Dino che predica l’anarchia alle giovani menti, meglio se con un bicchiere di rosso in mano. C’è Sara sdraiata sul pavimento, che si fa scrocchiare le vertebre cervicali. Gabbole che mi accusa di ipocrisia e moralismo, e quando non sa più cosa dire chiede: e quindi? C’è Viola e i nostri primi mesi a Roma, le coinquiline di Laura a Torino, un intero racconto dedicato alla Bovisa e un altro a Red Hook, una cena con Nadia in un ristorante di Napoli, un viaggio con Giorgio a Francoforte, vaghi ricordi d’infanzia sul lago di Lecco e l’immagine nitidissima di una porta, chiusa a chiave e senza maniglia: era di fronte alla mia camera in montagna, di notte mi dava gli incubi. In vent’anni non ho mai saputo che cosa ci fosse lì dentro, però adesso che quella porta sta in un racconto è come se nella mia vita avesse preso finalmente un senso, e di incubi non me ne darà più.
   A volte mi sembra che scrivere storie non sia altro che questo: mettere un po’ d’ordine al caos della memoria, proprio come facciamo luce su un ricordo oscuro solo raccontandolo a qualcun altro, e più lo raccontiamo più lo mettiamo a posto, lo rendiamo logico e comprensibile, gli costruiamo una bella scatola dove poterlo conservare, e poco importa se quella cosa che otteniamo alla fine non assomiglia più molto alla realtà dei fatti. Tanto la realtà dei fatti che cos'è? In ogni tribunale sanno bene che un testimone vale molto meno di una prova. La memoria è un racconto, non un documento, e qualsiasi racconto contiene un mucchio di bugie. In questo senso la narrativa è più onesta dell’autobiografia, dichiara apertamente la propria natura: non pretende di stabilire la verità senza distorsioni, anzi si arrende all’idea che la memoria è una distorsione del reale. Bum. Ecco qui il povero scrittore di racconti, partito dall’alambicco per la grappa e giunto a interrogarsi sulle grandi domande universali. Tra un po’ mi chiederò: esiste un Narratore Onnisciente? E le stelle sono solo punture di spillo nel velo che separa noi da Lui?

   Niente, dicevo, ora dovrei solo liberarmi di tutta questa roba, consegnarla alle sante donne di minimum fax perché ne facciano un oggetto che sia bello, colorato e profumato d’inchiostro, così un giorno non troppo lontano ce l’avrò tra le mani e potrò guardarlo con molta nostalgia e un po’ di disgusto. Nostalgia per quando lo stavo vivendo e pure per quando lo stavo scrivendo. Disgusto perché non sarà mai come volevo che fosse. Lo metterò sullo scaffale insieme agli altri tre e lo scruterò ogni tanto con un sopracciglio alzato. Per tenere lontano quel momento, rileggo un racconto al giorno e trovo sempre qualcosa su cui lavorare: ripetizioni da correggere, dati storici e geografici da controllare, l’episodio romano che continua a non convincermi del tutto e il finale di quell’altro, su cui proprio non riesco a decidere che cosa sia meglio. Il mogano era liscio e lucido, come se fosse stato appena passato con la cera, oppure Il mogano era liscio e lucido, come se qualcuno l’avesse appena passato con la cera? Ogni volta che lo rileggo cambio versione, e dopo qualche giorno la rimetto com’era prima. Il famoso decalogo del Kansas City Star, dove Hemingway si formò come cronista, forniva regole ben precise: la forma affermativa del verbo è da preferire a quella negativa, la forma attiva a quella passiva. Però loro parlavano di furti e omicidi. Dichiarazioni politiche, incontri di pugilato. Bisognava essere chiari, non lasciare niente di ambiguo, dare al lettore tutte le risposte di cui aveva bisogno. Io al lettore non ho altro da dare che le mie domande. Come diavolo si descrive un mobile lucidato dai fantasmi?


domenica 4 marzo 2012

CLEVELAND, OHIO

  A Cleveland c'è una sosta, e la ragazza ne approfitta per fumare. Davanti alle vetrate della caffetteria misura il proprio tempo su quello dell’autista, che si è seduto al bancone e ha ordinato una bibita e un panino. Da fuori, la stazione degli autobus le ricorda certe fabbriche della sua città, edifici degli anni Venti: gli angoli tondi, una vela di cemento ornamentale, uno spigolo incombente come la prua di un transatlantico. L’orologio sulla facciata segna le undici di sera e per strada l'asfalto sembra vinile. Nel breve tratto di marciapiede riparato dalla pioggia una donna di colore ne abbraccia un’altra più anziana, un facchino passa spingendo un carrello carico di valigie.
  Poi la ragazza lo vede. Seduto nella caffetteria c’è un ragazzo di una trentina d’anni: camicia grigia, cravatta nera, radi capelli scompigliati, la faccia di uno che dovrebbe dormire un paio d’ore in più per notte. Ha una custodia rigida sul tavolo. Un clarinetto, pensa la ragazza. Tiene un braccio sullo schienale della sedia e con l’altra mano picchietta un ritmo interiore sulla tazza che ha di fronte. Eccoti. Sei tu, vero? Al dito del ragazzo c’è un anello. Se la ragazza si concentra riesce quasi a sentire il rumore che fa l’argento sulla ceramica, un codice Morse tra lui e lei, il loro tintinnio segreto.
  Ora il ragazzo alza gli occhi. Si aggiusta i capelli specchiandosi nella vetrata buia. Senza saperlo incrocia lo sguardo della ragazza - gli occhi di lui specchiandosi, gli occhi di lei guardando attraverso il vetro, come negli interrogatori dei film di polizia. Dunque ora è finito il tempo del corteggiamento, ci siamo solo io e te e questo tavolino. Com’è andato il tuo concerto? Hai ricevuto un bell’applauso, o è stata una di quelle serate storte? Se lui è un clarinettista dovrebbe avere una specie di callo sul labbro inferiore, anzi appena dentro il labbro, e quello sarebbe il punto in cui dargli un bacio di buona fortuna, quando esce per andare a suonare. Tornerebbe a quest’ora, un po’ sbronzo magari, e si farebbe una doccia prima di entrare nel letto, per levarsi di dosso il fumo dei locali notturni e chissà quali altri odori. Lei reciterebbe scene di gelosia: l’attrice e il musicista - qui sarebbe già passato un anno - orari sballati, notti in bianco, tutt’e due sempre senza un soldo, bottiglie vuote che rotolano sul pavimento e un paio di scarpe eleganti a cui è saltato un tacco durante un litigio.
  Poi una cameriera passa tra i tavoli. Posa davanti al musicista un piatto con uova, bacon e patatine fritte. Lui la guarda e sorride. Lei ha un anello molto simile al suo. Gli riempie la tazza di caffè e si allontana, ma dopo pochi passi si volta per sussurrare tre parole con le labbra. Le solite vecchie tre parole. E così, pensa la ragazza, è stato bello finché è durato. Ormai siamo nella fase dei sospetti e delle confessioni: lei chi è? Si può sapere da quanto va avanti? Ci vuole del coraggio, e una bella dose di autolesionismo, a mettersi a parlare adesso invece di andarsene e basta, però a noi piacciono i fazzoletti bianchi e le banchine dei treni, e decidiamo di assaporarlo questo languore. Ce ne stiamo seduti in cucina e dividiamo il nostro ultimo spuntino di mezzanotte. Senape o ketchup? Posso rubarti una patatina prima di lasciarti? La tua tazza è sbeccata sull’orlo, ti ricordi del giorno in cui è caduta? Tieniti tutte le cose sbeccate, scheggiate, ammaccate, le cose che abbiamo comprate intatte e le abbiamo rovinate insieme - usandole, lanciandocele addosso, lasciandole cadere in quei giorni in cui ti cade tutto - tienile tu, sono sicura che avrai una vita bellissima, te la meriti, addio.
  Al banco l’autista controlla l’orologio e lascia due banconote sotto il bicchiere vuoto. Si alza dallo sgabello. La ragazza fa una boccata più lunga dalla sua sigaretta e vede: segatura umida sul pavimento di marmo, un ombrello scrollato prima di entrare, la gomma di un taxi che provoca un’onda di piena in una pozzanghera, un tovagliolo di carta appallottolato e scalciato da una scarpa di vernice. Era questo che avevi in serbo per me, Cleveland, Ohio? Un amore da ubriachi al posto del tuo famoso lago? Lasciami un po’ d’umido sui vestiti, io ricambio con questo mozzicone: tu calpestalo con il prossimo milione di piedi. Poi c’è una scintilla rossa nella notte, l'ultima chiamata per l'autobus diretto a Chicago, una cameriera che rifà il caffè, una città americana con una ragazza in meno.


  

venerdì 27 gennaio 2012

IN AUTOBUS

   (Oggi vi presento Sofia. Dopo più di quattro anni, ce ne sono di pezzi che ho scritto e che non finiranno mai in nessun racconto. Ad alcuni sono affezionato, ma la scrittura assomiglia a un crostaceo più che al maiale dei proverbi: per avere un pezzetto di polpa si butta via quasi tutto. Così ho pensato di pubblicare qui qualcuno di questi frammenti. Prendeteli come un assaggio del libro che verrà.)

In autobus, appoggiata alla spalla di un ragazzo conosciuto centocinquanta miglia fa, la notte del New Jersey che scorre nel finestrino, a Sofia viene in mente che sparire, quello che desiderava una volta, non sarebbe una soluzione. Risolverebbe molte cose, ma non tutto. Estinguerebbe il suo dolore ma non il dolore che ha provocato agli altri. Non cancellerebbe le ferite che ha inferto. Per fare questo non basta accelerare il normale decorso biologico, saltare i prossimi cinquant’anni e arrivare subito alla fine. Se si potesse, bisognerebbe fare l’esatto contrario. Come l’indietro veloce dei vecchi film in cassetta. L’autobus sobbalza, e mentre il ragazzo si agita nel sonno Sofia immagina come sarebbe la scena: ora l'autista inverte la marcia, la giovane donna si alza dal suo sedile ed è di nuovo a New York. Entra in una casa in cui due ex amici non si parlano più, poi i due ex amici litigano furiosamente. Cocci di ceramica si innalzano dal pavimento come spruzzi di schiuma dal mare e diventano piatti, tazzine da caffè. I frantumi delle cose tornano cose intatte, la giovane donna non va a letto né con uno né con l’altro dei due ex amici, i due ex amici sono di nuovo amici. All’autunno segue l’estate, l’aereo della giovane donna decolla in retromarcia. Ora è in Italia, a Roma; la ragazza invece di scappare ritorna, la sua vita non è una fuga senza fine ma un viaggio a ritroso nei posti in cui è stata felice. Esce dalle piscine emergendo per i piedi, miracolosamente asciutta. Comincia i libri dall’ultima pagina, fuma sigarette che si allungano invece di accorciarsi, sputa bevande nelle bottiglie vuote. Non prova più nulla per un maestro di teatro e poi se ne innamora, poi va a vederlo per la prima volta recitare. Le sue relazioni sentimentali si riducono a diciannove, diciotto, diciassette. Ora la ragazza sale su un treno e va a Milano. Torna in case in cui la aspettano persone care, ritrova città di cui conosce le strade e poi se le dimentica lentamente. Ricomincia a parlare con i suoi genitori, fa di nascosto cose che prima faceva alla luce del sole. La sua esperienza in fatto di uomini si riduce un giorno dopo l’altro: ora non è mai andata con nessuno che abbia il doppio dei suoi anni, mai con due ragazzi insieme, mai con il ragazzo di una sua amica. Una notte riconquista la verginità nella casa sull’albero costruita da suo padre: “Io non ho paura di niente”, dice al vicino di casa premuroso, scoprendo che quello impaurito è lui. Poi si baciano, si vestono, lui scompare dietro la siepe, lei si arrampica e rientra in camera dalla finestra. La bambina ha i capelli corti e il giorno dopo all’improvviso lunghissimi. Ha un apparecchio che le storta i denti, ossa che si accorciano, piedi sempre più piccoli. Ora non sa più mentire, non sa più rubare, non sa più dubitare di quello che le viene detto: comincia a credere in Dio, nella felicità domestica, negli slogan pubblicitari, nell’infallibilità di suo padre, non ha mai visto sua madre piangere né stare sdraiata per ore al buio. Dimentica come si fa a leggere e scrivere. Adesso le sue parole si riducono a tentativi di parole e poi a sillabe e suoni disarticolati, gridolini di piacere, strilli di pianto. Smette di mangiare qualsiasi cosa non sia una pappetta schiacciata, e poi solo latte materno. Dorme quasi tutto il tempo. Ora è in una scatola di vetro, ora tra le braccia di un’estranea, ora smette di sapere che cosa sia la luce; le contrazioni si calmano e le pareti intorno a lei diventano morbide e rassicuranti; le due uniche qualità del mondo ora sono l’umidità e il tepore, il mondo stesso un bagno denso e vibrante di gorgoglii, pulsazioni, rimbombi, sospiri. Ora lo spazio esterno e lo spazio interno non sono più due cose separate, è proprio come essere un oggetto fatto della stessa sostanza del mondo, ma è un’armonia che dura pochissimo: poi le dita della bambina rientrano nelle mani, le mani nelle braccia, le braccia nel busto; la bambina non ha più un cervello né un cuore né un sesso, dunque non è nemmeno più una bambina, è solo un ammasso di cellule che si dimezzano a velocità stratosferica, un vertiginoso precipitare delle potenze di due. Da otto milioni a quattro milioni, da trentaduemila a sedicimila, da centoventotto a sessantaquattro, e poi otto, quattro, due. Le due cellule si dividono ed è in questo preciso momento che Sofia, o il materiale di cui Sofia è stata fatta, smette di esistere. Poi ci sono soltanto un uomo e una donna in un letto, e fine della storia.

domenica 1 gennaio 2012

SCARTOFFIE

Ho scritto il mio primo racconto quindici anni fa. Me ne sono reso conto stamattina, per via del capodanno che mi ha spinto a riaprire i cassetti, mettere ordine tra le cose vecchie e fare un po’ di spazio per quelle nuove. Così ho ritrovato Bianca, una storia del gennaio 1997. Da allora non ho più smesso: non ricordo un periodo in questi quindici anni passato senza un racconto su cui lavorare. Più che un mestiere è diventato un modo di essere, l’habitus di cui parlava Flannery O’Connor - un abito, un’abitudine e un’abitazione - tanto da confondersi pericolosamente con la mia identità. So di prendere la scrittura un po’ troppo sul serio, e certe volte mi dispiace. Non ho mai scritto racconti per gioco, né per soldi, né per fare un regalo a qualcuno, e non ne ho mai cominciato uno sull’onda dell’entusiasmo per poi lasciarlo a metà, così non sono uno di quegli scrittori di cui è difficile ricostruire il lavoro, perché hanno sparso frammenti, romanzi incompiuti, racconti comparsi solo su riviste o antologie, appunti abbandonati nei bauli, e perfino loro non saprebbero ben dire quanta roba hanno scritto e dov’è. Io invece lo so benissimo: ho scritto ventisei racconti, sto scrivendo il ventisettesimo. Considero i primi cinque il mio apprendistato, e sono contento che riposino in pace in una scatola da scarpe. Sette racconti sono finiti nella prima raccolta, cinque nella seconda, i restanti dieci formeranno la terza. Ventisette racconti in quindici anni fanno un po’ meno di due all’anno. Sono lento, lo so, ma anche molto ostinato, e mi sento come Andy Dufresne in quel romanzo di Stephen King, l’ergastolano che impiega trent’anni a scavare un tunnel con un martelletto, però alla fine frega tutti e scappa di prigione.

Non sono una di quelle persone che dicono: fin da piccolo scrivevo storie, ho sempre saputo che avrei fatto lo scrittore. Quando leggo questo genere di affermazione, nelle interviste e nelle biografie, provo una certa invidia: mi sembrano vite invidiabili quelle illuminate fin dall’inizio da una vocazione. Anche quelli che hanno cominciato tardi dicono: scrivo perché mio padre mi raccontava un sacco di storie, o perché ero figlio unico e dovevo inventarmi da solo le mie avventure, o perché anche da bambino sono sempre stato un ladro, un bugiardo e un seduttore, e insomma ero uno scrittore fin da prima di saperlo. Ci inventiamo delle origini, se non le abbiamo, per essere certi di fare quello a cui eravamo destinati. Non ci piace coltivare il dubbio di avere sbagliato strada. È raro che qualcuno dica: a diciott’anni ho provato a scrivere una storia e ho scoperto che mi piaceva. Avrei anche potuto fare altro nella vita, però è finita che ho fatto lo scrittore. Magari sarei stato più bravo come meccanico.

Io da bambino volevo fare il falegname. In montagna, possibilmente. Il falegname montanaro. Durante l’adolescenza invece avevo deciso che avrei fatto il barbone: leggevo Hesse in quel periodo, Narciso e Boccadoro, e quello era il tipo di barbone che volevo diventare, un libero cercatore, un cavaliere errante votato alla povertà. Nel frattempo, tutti sapevano che avrei fatto il matematico. Anch’io lo sapevo. Era la cosa che mi riusciva meglio da quando ero molto piccolo, un linguaggio che capivo d’istinto. Ed era pure il gioco più appassionante che conoscessi, quello con cui sfidavo me stesso. Ecco, se avessi preso quella strada ora potrei dire: fin da piccolo giocavo con i numeri, ho sempre saputo che avrei fatto il matematico. Però non è successo.
Quello che è successo, invece, è che ho scoperto le donne. La porta della letteratura me l’hanno spalancata a quindici anni le ragazze di cui mi innamoravo, e che non si innamoravano mai di me. Ho cominciato a provare un bisogno che non veniva soddisfatto dalla matematica. Avrei potuto buttare quattro stracci in un sacchetto, legare il sacchetto a un bastone e cominciare subito la mia carriera di barbone, ma ci voleva un bel coraggio per farlo, e mentre cercavo il coraggio leggevo, andavo in sala giochi con il mio migliore amico, ragionavo con lui sull’amore, la libertà, la morte, il motivo per cui le ragazze andavano sempre con quelli più grandi e gli altri misteri della vita.
Noi due avevamo cominciato a tenere un quadernetto, che chiamavamo il quaderno dei frasoni. I frasoni potevano essere indifferentemente aforismi di grandi filosofi, brani di romanzo, versi di canzoni o battute di film, o perfino qualcosa che qualcuno aveva detto sull’autobus per andare a scuola, purché illuminasse, a nostro parere, uno dei suddetti misteri della vita. Il mio amico era l’esperto di Emil Cioran e film americani, io di Hermann Hesse e buddismo zen. Nel nostro quaderno andavano forte anche i western di Sergio Leone, pieni com’erano di sentenze su cui meditare (“Ne ho incontrati tanti di uomini nella vita: bugiardi, ladri, codardi, preti, preti spretati, anche uomini onesti, ma uomini e basta mai”), le lezioni del professor Keating alla sua classe di poeti estinti (“Andai nei boschi per succhiare il midollo della vita, e non scoprire in punto di morte che non avevo vissuto”), e le sparate vagamente fasciste degli alpinisti degli anni Trenta (“E l'ebbrezza di quell'ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia. Osa, osa sempre, e sarai simile a un Dio”). Come si vede, l’ironia non era una qualità che ai tempi apprezzavamo. Eravamo terribilmente drammatici, e lo erano anche i frasoni. Nelle ore lentissime in cui avremmo dovuto imparare la chimica inorganica o la poesia italiana del Risorgimento, uno dei due diceva all’altro: “Mi passi il quaderno dei frasoni?”. Lo leggevamo e rileggevamo. Era lì dentro la nostra lezione. Cucivamo insieme quegli scampoli di verità per costruirci una veste più ampia, dentro cui saremmo stati finalmente le persone che volevamo diventare.
Poi, com’erano entrate, le parole cominciarono a uscire. Fu un processo del tutto naturale. Prendemmo l’abitudine di scrivere dei pezzi sul diario dell’altro (li chiamavamo i dedicozzi, che facevano il paio con i frasoni, dunque a ripensarci qualche tipo d’ironia ce l’avevamo). Erano meditazioni che ogni tanto diventavano storie vere e proprie: me ne ricordo una scritta dal mio amico, in cui si immaginava da vecchio mentre saliva una montagna. Aveva le gambe tremanti e camminava con un bastone. Un ragazzino all’inizio lo accompagnava, ma a un certo punto lui gli diceva: adesso vattene, da qui in poi devo proseguire da solo. Infine arrivava in cima, dove trovava una capanna di legno con il camino acceso e la sedia a dondolo, e sulla sedia a dondolo c’ero io, altrettanto vecchio e stanco, che gli dicevo: finalmente sei arrivato, ti aspettavo. Gli offrivo un bicchiere di vino, se mi ricordo bene. Lo stavo aspettando per morire. Nella sua storia avevamo avuto vite opposte, io da solo lassù in montagna e lui a esplorare le città e gli oceani, proprio come Narciso e Boccadoro, ma alla fine ci riunivamo per morire insieme.
I dedicozzi furono una buona palestra per il passaggio successivo, cioè le lettere d’amore alle ragazze. Ora non serviva più trovare un pretesto per incrociarle in corridoio, balbettare qualcosa di patetico nei bagni comuni: andavi dritto a cercarle in classe e con dignità consegnavi il tuo foglio a quadretti, strappato a un quaderno di matematica e piegato in quattro. Io diventai un produttore seriale di questi testi. Scoprii prestissimo che le lettere d’amore annoiano non solo chi le legge ma pure chi le scrive, perché dicono sempre la stessa cosa, e così al posto di lettere cominciai a scrivere storie, i cui protagonisti, seguendo l’intuizione del mio amico, eravamo noi due, cioè la ragazza e io. Nelle storie ci allontanavamo, ce ne andavamo in giro per il mondo, avevamo vite intense e dolorose e belle, poi ci rincontravamo e finalmente ci amavamo. Alle ragazze queste storie piacevano molto. Ne volevano sempre di nuove. Però scoprii anche che lo scrittore, con le ragazze, fa spesso la fine di Cyrano: tu scrivi e scrivi e le riempi di idee romantiche, poi arriva uno con la moto e se le porta via.

Comunque, nel gennaio del 1997 un liceo di Milano lanciò un concorso tra gli studenti delle superiori, per un racconto di cinque cartelle a tema libero. Arrivò una circolare che fu letta in classe e io pensai: eccomi, sono qui. Con una spontaneità che adesso rimpiango, quella sera mi sedetti sul pavimento della mia stanza e scrissi la storia di due uomini che viaggiavano in macchina lungo una strada deserta. Guidavo io, e il passeggero era il mio amico (avevo appena preso la patente e per anni avrei ambientato i miei racconti in macchina). C’era un terzo personaggio, una donna, che stava a casa e guardava fuori dalla finestra. Naturalmente era la ragazza che mi piaceva in quel periodo. Nel racconto stava un po’ con tutt’e due, e sembrava aspettare il loro arrivo. I due amici in macchina parlavano poco ma intanto dividevano una sigaretta, ascoltavano musica dall’autoradio, e più il viaggio proseguiva più avevi la sensazione di una tensione che si scioglieva: le parole tra loro riaffioravano, l’intimità veniva lentamente ricostruita. Così capivi che non stavano andando verso la ragazza, ma via dalla ragazza; che l’amore per la stessa donna era stato la causa del conflitto tra di loro, e che alla fine avevano deciso di rinunciare a lei e partire insieme. Anch’io e il mio amico ogni tanto avevamo problemi per via delle donne di cui ci innamoravamo, e questa storia era la mia risposta alla sua sulla montagna, il mio modo di immaginarci vecchi e di nuovo uniti. Finii il racconto la sera stessa e lo intitolai con il nome della ragazza, Bianca. Nel 1997 in casa non c’era ancora il computer, così domandai a una vicina se potevo andare a batterlo da lei: aprii un programma di scrittura per la prima volta in vita mia, copiai il racconto usando due dita e mettendoci mezza giornata, lo stampai e vederlo stampato mi sembrò un miracolo, lo misi in una busta e lo spedii al concorso. Dove poi andò bene, e quel risultato mi spinse a continuare. Non avrei mai sperato di ritrovare l’articolo in cui se ne parlava, invece eccolo qui: e così, da qualche parte in rete, ho ancora diciannove anni e sono un ragazzo della quinta D.

Ecco, questa è la storia del mio primo racconto. Ora torno a occuparmi del ventisettesimo. Liberato il cassetto dalle vecchie scartoffie, è tempo di cominciare a riempirlo con le scartoffie nuove. Buon anno a tutti.