sabato 16 gennaio 2010

ANNI ZERO

In questi giorni ho letto molte classifiche sui migliori scrittori americani degli ultimi dieci anni. Ho un problema con questo tipo di categorie: per me non esistono migliori scrittori, ma solo migliori libri. Penso che non dovremmo giudicare la vita, né la filosofia, né il percorso di un autore, ma ogni singola opera come se fosse la prima e l’ultima. Dunque, da lettore di racconti, propongo una classifica anch’io. Compilarla non è stato facile. I racconti sono come le canzoni: a volte un singolo pezzo vale l’intero disco, a volte in un disco non riesci a decidere qual è il pezzo migliore. Ecco i miei album degli anni Zero, in attesa che quelli del 2009 arrivino anche da noi.

2000

Lato A: Rick Moody, Racconti di demonologia

Lato B: F.X. Toole, Lo sfidante

2001

Lato A: Alice Munro, Nemico amico amante

Lato B: Peter Orner, Esther Stories

2002

Lato A: A.M. Homes, Cose che bisognerebbe sapere

Lato B: Russell Banks, L’angelo sul tetto

2003

Lato A: Anne Tyler, Un matrimonio da dilettanti

Lato B: Julie Orringer, Quando ho imparato a respirare sott’acqua

2004

Lato A: Alice Munro, In fuga

Lato B: E.L. Doctorow, Storie di una dolce terra

2005

Lato A: Yiyun Li, Mille anni di preghiere

Lato B: Melissa Bank, L’amore per caso

2006

Lato A: Charles D’Ambrosio, Il museo dei pesci morti

Lato B: Alice Munro, La vista da Castle Rock

2007

Lato A: Jhumpa Lahiri, Una nuova terra

Lato B: Miranda July, Tu più di chiunque altro

2008

Lato A: Annie Proulx, Ho sempre amato questo posto

Lato B: Elizabeth Strout, Olive Kitteridge


lunedì 11 gennaio 2010

ALICE MUNRO

(Come ormai i lettori sanno, tre anni fa Alice Munro dichiarò di aver smesso di scrivere. Il senso di morte incombente nella Vista da Castle Rock, l’autobiografismo esplicito di quelle storie facevano pensare a un libro-testamento, ma poi qualcosa dev’essere cambiato. C’è stata di mezzo una malattia, e c’è il rapporto delicato con la vita di una donna ormai ottantenne. Oppure, come ogni scrittore, Alice Munro è solo una grandissima bugiarda. Lo scorso autunno ha pubblicato la sua tredicesima raccolta di racconti, Too Much Happiness, che speriamo di vedere presto qui da noi. Magari invece è la volta buona per cominciare a leggere in inglese. Per il momento ho trovato un’intervista sul Wall Street Journal del novembre scorso, e ho tradotto qualche risposta per chi passa di qua)

Parecchie storie della nuova raccolta sono impregnate di violenza. Da dove viene?

Non me ne sono accorta finché il libro non è stato finito. Sapevo che la prima storia era una mazzata, infatti non sono stata capace di rileggerla. È troppo inquietante. Non ho deciso di usare la violenza come tema ricorrente, ma so che c’è, e può succedere di farlo senza rendersene conto.

Per quanto tempo lavori a un singolo racconto?

Su alcuni mi capita di lavorare per un anno, lasciandoli e riprendendoli. Due mesi è il minimo.

Come cominci una storia?

Comincio scrivendo a mano su un quaderno. La scrivo dall’inizio alla fine, ma quella non è la versione definitiva. Poi prendo un altro quaderno e la riscrivo daccapo, e questa volta si avvicina parecchio alla versione definitiva. Poi straccio queste prime due storie e, senza riguardarle, comincio a lavorare al computer. A questo punto ottengo qualcosa di sensato.

È facile per te lavorare al computer?

Sono un disastro con la tecnologia. Se smetto per un po’, mi dimentico come si usa il computer e mio marito deve rispiegarmi tutto di nuovo. E poi sono stata malata, ho avuto un tumore. La terapia lesiona pezzi di cervello, e pare che le ultime cose imparate siano le prime a partire.

Perché sei così legata alla forma del racconto?

Ho provato a scrivere romanzi e non sono arrivata da nessuna parte. Mi interrompevo sempre a metà, perdevo interesse nella storia, mi sembrava che non ci fosse niente di buono e lasciavo perdere. Ora mi sembra di scrivere sempre cose a metà. La gente li chiama racconti brevi, ma spesso non sono brevi e forse non sono nemmeno racconti, nel senso della compattezza. È una combinazione di linee che si diramano dalla storia o si sviluppano dentro la storia. Non so se esiste una parola giusta per definire una forma a metà strada tra il racconto e il romanzo. C’è una cosa chiamata novella, ma non ho mai capito esattamente cosa sia, e se io ne abbia scritta qualcuna oppure no.

In un’intervista alla Paris Review, hai parlato della paura di lasciarti dietro frammenti di storie non finite. Sei ancora preoccupata di questo?

No. Devo dire che ci sono stati dei cambiamenti. Da quando sono stata malata sono soltanto felice di essere qui, non mi preoccupo più delle cose che mi lascerò dietro. E penso che uno sarebbe molto fortunato a lasciarsi dietro qualcosa, per esempio una storia. Come se Cechov avesse scritto solo “La signora col cagnolino”, se fosse l’unica cosa che avesse mai scritto, ne sarebbe valsa comunque la pena, sarebbe valsa la pena di aver vissuto. Non penso più molto alla mia carriera.

Da dove arrivano le tue trame?

Alcune cose sono accadute realmente, ma per la maggior parte si tratta di cose quasi accadute, o che avrebbero potuto accadere. Cose della mia vita intorno a cui giro, per vedere “come sarebbe andata se”. È una specie di investigazione sul modo in cui le persone si comportano, o sul modo in cui alcune persone in particolare si comporteranno. Ma così suona più brutale di quanto sia in realtà. Dovrei essere capace di descrivertelo meglio, perché sono stata seduta qui tutta la mattina a lavorare a una storia appena cominciata.

Molti personaggi in “Too Much Happiness” riflettono sullla vecchiaia. È una questione che ti preoccupa, e invecchiare rende più urgente il tuo lavoro?

Avevo previsto di andare in pensione. Pensavo che a una certa età sarei stata soddisfatta del mio lavoro, e in pensione non fai nient’altro che goderti te stessa. Non hai nessun bisogno particolare e non ti svegli la mattina con il pensiero di infilarti la vestaglia e metterti a scrivere. Invece non mi è capitato. Per niente. È una cosa che mi ha sorpreso, pensavo che smettere fosse possibile e forse per alcuni scrittori lo è davvero, ma a me succedono ancora delle cose e penso sempre “Questa è l’ultima. Dopo questa mi riposo”. Ma finora non è andata così.

Puoi dirci qualcosa del tuo prossimo libro?

Ho un po’ di storie finite. Sono storie di una parte lontana della mia vita. E poi ci sono alcune altre storie che sto scrivendo adesso.

sabato 2 gennaio 2010

HAPPY BIRTHDAY MR. SALINGER

Da parecchio tempo ormai, il mio modo di cominciare l’anno è fare gli auguri a J.D. Salinger. Lo faccio tra me e me quando finisce il conto alla rovescia, e tutti brindano e si baciano. Ieri il vecchio matto ha compiuto 91 anni. Ha pubblicato il suo ultimo racconto nel 1965 e poi è sparito dalla circolazione: da allora tace e non si fa vedere, ma non sembra che abbia smesso di scrivere, anzi dice la figlia che in casa ha abbastanza inediti da riempire una biblioteca. Lui non sarebbe per niente contento di saperlo, ma a mezzanotte io lo penso per un po’ e mi sento meglio. Penso a lui, a Holden, a Buddy e Seymour, a Esmé e Sybil e penso: vivete ancora a lungo, dovunque voi siate. Nelle vostre celle monastiche, nelle vostre capanne sull’albero, nelle vostre grotte bananifere, nei vostri taxi e camere d’albergo e vasche da bagno. Poi torno nel luogo in cui mi trovo, e mi dedico anch’io a brindare e baciare.

***

Finalmente presi una decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuola. Quello che dovevo fare, pensavo, era andare all’Holland Tunnel e farmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro passaggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei trovato un lavoro. Pensai che potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifornimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro. Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere sordomuto. Così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po’ ne avrebbero avute piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei boschi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato una bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri, e insegnargli a leggere e scrivere.

J.D. Salinger, Il giovane Holden, 1951