mercoledì 20 dicembre 2017

DIARIO D'HIMALAYA

Esce oggi il numero di Meridiani Montagne con il mio reportage sul Dolpo e le fotografie di Stefano Torrione. È con una certa commozione che sfoglio la rivista: due mesi fa ero lì, sugli altipiani dei cinquemila metri, e ora quei giorni sono in queste pagine, con i volti degli amici, i valloni aridi percorsi dalle carovane, i cieli senza nuvole del Tibet. Spero sia un bel viaggio anche per i lettori. Tashi delek.


“Il segreto delle montagne è che esistono, semplicemente, come me: ed esistono con semplicità, non come me. Le montagne non hanno significato, esse sono significato; le montagne sono. Io risuono di vita e così le montagne, e quando riesco a sentirlo c’è un suono che condividiamo.” (Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi)

Avevo sentito parlare di Dolpo durante il mio primo viaggio in Nepal, qualche anno fa. Come capita sempre, incontrando i suoi vecchi frequentatori, avevo scoperto che il Paese del Fiore di Rododendro stava cambiando irrimediabilmente, e se cercavo un’autentica civiltà di montagna rischiavo di essere arrivato tardi. La modernità portava anche in Himalaya ciò che a suo tempo ha portato sulle Alpi, ovvero strade, motori, telefoni, energia elettrica, prodotti industriali; il benedetto desiderato benessere in cambio di una cultura antica, povera e destinata all’estinzione, proprio quella che i viaggiatori come me vanno fin laggiù a cercare. Triste destino di innamorati fuori tempo, cacciatori di montagne fantasma! Le cime, su in alto, splendevano di ghiacciai ed erano sempre bellissime, ma sono le valli che percorriamo, e all’ombra dell’Everest o dell’Annapurna si camminava ormai connessi alla rete, tra rifugi dotati di frigoriferi e televisori, fingendo di ignorare i rifiuti in plastica, mai davvero lontani dalle nostre vite. Esiste ancora, mi chiedevo, una montagna in cui sperimentare la diversità e la distanza, libera dal colonialismo della città, integra nel suo essere montagna?

Qualcuno cominciò a dirmi: vai a ovest. Oltre gli Ottomila, là dove i passi sono troppo alti e i pendii troppo ripidi per le strade, esistono altipiani in cui il ricordo di regni antichi sopravvive. Leggevo “Il leopardo delle nevi”, quell'anno, il libro che dal 1978 accompagna all’Himalaya i pellegrini come me, e proprio tra le sue pagine ritrovai il nome di Dolpo: un autunno di tanto tempo prima, dopo la morte della moglie, l’americano Peter Matthiessen si addentrava in quella terra di confine in cerca di un animale, un monastero, una purezza, soprattutto una purezza, come tutti noi. Scoprii un capolavoro. Il Leopardo era uno dei rarissimi libri che va al cuore di questa misteriosa ossessione, cattura il senso del nostro andare in montagna. Finì subito tra i libri di viaggio fondamentali della mia biblioteca, accanto a Hemingway, Chatwin, Karen Blixen, e una volta tornato a casa alimentò il desiderio di Dolpo come fanno i libri, che preparano ai luoghi lasciandoli a lungo sognare. Sono un fortunato realizzatore di sogni ed è finita che ci sono andato davvero, nell’autunno del 2017, poco prima dei quarant’anni miei e del Leopardo, dato che per una coincidenza siamo nati insieme. O forse non c’è nessuna coincidenza e certi libri sono più nostri di altri, stanno lì per noi da sempre e aspettano di deviarci la vita.

Dal 1978, la terra che ho attraversato era cambiata poco o nulla. Un regno in cui le distanze si misurano in giorni di cammino, protetto e isolato da altissime mura: da qualunque parte uno provi a entrarci deve superare passi di cinquemila metri. Catene oltre i settemila – l’Annapurna, il Dhaulagiri – fermano i monsoni che salgono dalla pianura indiana facendone una regione arida, molto più simile agli altipiani desertici del Tibet che ai versanti boscosi, ricchi di acque del Nepal a sud dell’Himalaya. In effetti il Dolpo è Nepal solo in una mappa politica: per la geografia che non conosce confini di stato ma piuttosto legami di paesaggio e cultura è un piccolo Tibet che sopravvive intatto accanto a quello grande e ormai perduto. Durante il lungo cammino il diario di Matthiessen mi accompagnava. Mi ricordo i giorni di Shey, potevo leggerlo e guardarmi intorno e non distinguere più la montagna dentro al libro e quella fuori dal libro, e sentire che la sua e la mia e la montagna in sé, quella che “non significa ma è”, erano una montagna sola. Le pecore azzurre brucavano l'erba secca di ottobre e il leopardo delle nevi come sempre ci eludeva, a ricordarci che non tutto quel che esiste è quel che vediamo, anzi la parte che ci sfugge potrebbe essere la più preziosa. Succede lo stesso con la scrittura: le parole non sono, esse significano e basta, perciò non possono valere quanto le montagne, eppure il racconto è tutto ciò che abbiamo perché un viaggio non vada perduto.


(foto di Stefano Torrione)