giovedì 31 agosto 2017

SEDICI ALBERI

(questo pezzo è uscito su Robinson del 27 agosto)

Se è vero che, salendo di quota in montagna, il paesaggio cambia come spostandosi di molti chilometri a nord, allora la latitudine di Oslo deve corrispondere più o meno ai 1500 metri delle Alpi, perché sento aria di casa in questa città. A metà agosto si intuisce l'arrivo dell'autunno: sul porto le nuvole viaggiano basse, veloci, piccoli gusci di madreperla scura. I camerieri dei bar all'aperto offrono coperte leggere alle donne, per avvolgersi le spalle nella brezza della sera. I pescatori sui moli nascondono lattine di birra, gettano la lenza nell'acqua luminosa, osservano i riflessi delle barche tra gli isolotti boscosi del fiordo. Abete rosso e betulla: gli alberi sono la prima cosa che ho controllato al mio arrivo. L'abete rosso da me è il re dell'inverso, il lato all'ombra delle montagne; la betulla è la sentinella dei fiumi e dei torrenti. Casa. Sono altri, e molti, gli alberi che non so riconoscere.
Lars Mytting è un omone con una camicia a scacchi, viene da un paese a un paio d'ore da qui e a Oslo sembra un montanaro sceso in città. Forse il rapporto tra altitudine e latitudine è vero anche per la letteratura, perché ho sempre sentito un legame tra i miei scrittori di montagna e quelli del Grande Nord. Lars è diventato famoso per un libro sulla legna da ardere – il modo di tagliarla, accatastarla, bruciarla, o potrei dire prendersene cura e farne espressione di sé – e ora ha scritto un romanzo sulla memoria del legno, ovvero ciò che un albero ha vissuto e ricorda nelle sue venature. “Un albero cresciuto senza difficoltà”, mi dice al tavolino di un bar, “non ha un disegno interessante, è lineare e simile a molti altri. Gli alberi più belli sono quelli che hanno sofferto e combattuto molto. Hanno disegni drammatici, cicatrici che diventano qualcosa di ammirevole. Il disegno interno al legno è il risultato, la storia di come l'albero è cresciuto, è una memoria di secoli e delle cose che gli sono successe, un mistero da indagare”. Non so se Rigoni Stern sia tradotto in norvegese ma queste parole mi ricordano il suo Arboreto salvatico, il più gran libro sugli alberi che io abbia mai letto, e il modo in cui Mario scriveva di certi cembri e larici contorti, piegati dalla neve e dal vento, amputati dalle valanghe, spaccati dai fulmini, ma non uccisi. È quello che succede anche ai due fratelli del romanzo di Lars, Sedici alberi, che va indietro nel tempo fino all'ultima guerra mondiale: un fratello fu tra i norvegesi che si arruolarono sotto la croce uncinata, a combattere i russi sul Baltico insieme ai tedeschi; l'altro prese la direzione opposta, fuggì alle isole Shetland su una barca di pescatori e in terra britannica fece perdere le tracce di sé. Dopo cinquant'anni il nipote, cresciuto con il primo in una fattoria, scopre l'esistenza del secondo, e comincia a ricostruirne la storia. Lo fa attraverso il legno, perché lo zio scomparso era un grande ebanista: la ricerca parte da un bosco di betulle nei terreni di famiglia e finirà in un lontano bosco di noci, martoriati dalla guerra e diventati preziosissimi.
“Mio nonno era un falegname”, dice Lars. “In casa da piccolo avevo i suoi mobili di betulla fiammata, che è una betulla ferita dall'uomo perché diventi più bella. Lui è morto quando avevo tre anni ma ho cominciato a conoscerlo dopo, grazie ai mobili che aveva costruito. Betulla e abete sono gli alberi della mia vita: per andare a scuola dovevo fare chilometri a piedi su una strada che costeggiava il bosco, d'inverno sempre al buio. Il bosco di abeti era misterioso, mi faceva paura. La paura di un nemico invisibile, o di essere inghiottito”. Fa una pausa. Riflette forse su quel bosco della sua infanzia. Cerca le parole giuste per aggiungere: “Il paesaggio ci modella, ci forma il carattere. Questo mi affascina così come le scelte nei momenti difficili. Se fossimo alberi quelle scelte sarebbero le nostre cicatrici”.
Mi accorgo che, come me, nemmeno Lars usa mai la parola natura. Eppure dovremmo essere esponenti di un nuovo nature writing, quella “scrittura della natura” che ogni tanto riemerge, nella nostra cultura urbana, come un bisogno condiviso di uscire dalle città e recuperare ciò che abbiamo dimenticato là fuori. Ma sappiamo entrambi che la natura esiste solo nella testa dei cittadini. Per chi ci vive in mezzo la natura che cos'è? Un campo coltivato, un bosco di cui l'uomo taglia gli alberi, una costa modellata dal lavoro, una montagna abitata e poi inselvatichita: la cosiddetta natura è un mondo di segni e di nomi, di storie, di relazioni, per questo entrambi preferiamo la parola paesaggio. E “scrittura del paesaggio” è una definizione che potrebbe andarci bene.
Parlami ancora dei tuoi alberi, Lars. Ognuno ha un carattere diverso, non è così? “Sì. La betulla per me è una sposa. È luminosa, gioiosa, speciale per la sua corteccia bianca. Ma vive poco, non più di centocinquant'anni. Quando invecchia sembra stanca, diventa nera e rugosa, un po' triste”. L'abete? “L'abete è il buio del bosco, in un bosco di abeti è impossibile vedere lontano. Mi ricorda le mie paure d'infanzia”. E il noce, in cui è contenuto il segreto del tuo libro? “Il noce ha una vita lunghissima, è un albero che diventa un monumento. So di noci in Europa che hanno visto sei guerre. È un albero testimone dei drammi umani e li tramanda da una generazione all'altra, così i vivi possono risalire nel tempo e conoscere i propri morti”.
Poi ci sono le cose che con il legno si fanno. Nel romanzo una barca, a un certo punto, diventa la bara di chi l'ha costruita. Quando ho letto il libro mi è sembrata una bella idea narrativa, ma l'ho capita davvero soltanto stamattina, visitando il museo delle navi vichinghe. Navi maestose, in quercia, con altissime prore intarsiate, conservate per secoli sotto il suolo argilloso di Oslo perché venivano usate, alla fine di una lunga vita in mare, per seppellire i capi e accompagnarli nell'aldilà. “Due viaggi”, dice Lars sorridendo, “la stessa barca”. Io che del mare non so nulla gli chiedo di parlarmi del suo, questo mare scuro e splendente, punteggiato di isole boscose. Lui lo osserva e nomina di nuovo il legno, usando una parola inglese che in italiano non c'è. Ma la ricordo in un racconto di Hemingway, e per un momento collego questo fiordo norvegese al lago Michigan di Nick Adams, con i carichi di legname trascinati sull'acqua dai rimorchiatori, i tronchi che ogni tanto si staccavano e andavano a incagliarsi sulla spiaggia. La parola è driftwood, legno portato dalla corrente. “Se il legno siamo noi, il mare è il destino che fa a pezzi le barche e poi manda quei pezzi ad arenarsi da qualche parte. Il mare conserva e nasconde i ricordi per tutto il tempo che vuole lui, poi a un certo momento, chissà perché, li lascia affiorare”. Come il ghiacciaio, penso io. Anche il mare fa paura?, gli chiedo, mentre il nostro tempo finisce. “Sì. La foresta, il mare, l'inverno, sono pericolosi, bisogna conoscerli bene, non sono nostri amici. Mi ricordano questo: che la terra sarà sempre più forte dell'uomo. La terra è molto più grande, vive molto più a lungo, può farci sparire da un momento all'altro, vincerà sempre lei”. Mi viene istintivo alzare il calice: io lo spero, Lars. Nel posto in cui abito non sono sicuro che sia così. Spero che il Grande Nord sia per le piccole Alpi fonte d'ispirazione. E che le nostre terre continuino a meravigliarci, parlarci con la lingua del legno, dei torrenti, della neve, darci le parole per raccontarle.


(qui le betulle di Nicola Magrin, sempre nei miei pensieri)