martedì 25 dicembre 2018

IL RICHIAMO DELLA FORESTA

(questo pezzo è uscito su A rivista anarchica)

Il richiamo della foresta è il festival che organizziamo nei boschi di Estoul, il villaggio della Valle d'Aosta dove abito da una decina d'anni. Nel tempo si è trasformato per me da ritiro personale a centro di molteplici relazioni, e fu tra cinque amici, nell'inverno del 2017, che nacque il desiderio di portare in montagna il lavoro che avevamo sempre fatto in città. Avevamo esperienze diverse e un legame comune con la Scighera di Milano, glorioso circolo libertario della Bovisa, dove alcuni di noi si erano fatti le ossa. Con quel modello in testa avevamo tentato, senza successo, di prendere in gestione un rifugio alpino, progettando di trasformarlo in laboratorio culturale d'alta quota. Così aggiustammo la mira: anche senza il contenitore, o in attesa di trovare quello giusto, non potevamo cominciare a lavorare sui contenuti? Di qui l'idea di fondare un'associazione culturale, che battezzammo Gli urogalli, e organizzare un festival a 1800 metri d'altezza. Estoul si trova su un piccolo altipiano in gran parte utilizzato per il pascolo, un paesaggio aperto e raro per la Valle d'Aosta. Avevamo in mente il luogo adatto, una radura circondata da un bosco di larici di proprietà comunale. Parlando con il sindaco di Brusson l'idea divenne più concreta: il bosco poteva essere usato come campeggio, e la radura, dotata dei servizi necessari, poteva ospitare il festival. Sarebbe noioso benché istruttivo raccontare il lungo lavoro che seguì: gli incontri con gli assessori comunali e regionali, con i consiglieri di una fondazione bancaria, con gli imprenditori a cui chiedere una sponsorizzazione, con i donatori privati; la campagna di raccolta fondi e gli eventi di finanziamento. La bella idea si era rivelata costosa, perché un conto è fare un festival in un circolo a Milano e un altro attrezzare un ambiente selvatico con palco, tensostrutture, bagni, cucina, impianti e generatori, invadendolo con grande dispendio di risorse (e questa è la contraddizione che, personalmente, sento più dolorosa). In ogni caso, né i finanziatori né le istituzioni ci imposero o vietarono nulla rispetto ai contenuti, per cui la fatica di dover gestire questi rapporti fu ripagata dalla libertà di fare quello che volevamo. Che cosa volevamo fare? Portare arte, musica, libri, teatro, fotografia nei boschi, e portarci anche il discorso sul nostro vivere comune che ci ostiniamo a chiamare politica. Parlare di montagna “come occasione di libertà e bellezza”, scrivemmo nel manifesto. Volevamo, soprattutto, condividere dei giorni e questi luoghi con persone appassionate, respirare libertà e bellezza insieme a loro, fondare relazioni da coltivare nel tempo. Nelle nostre intenzioni la montagna non era tanto il fine quanto il mezzo, ciò che avrebbe tenuto insieme questa comunità effimera, con la speranza di renderla sempre più solida e duratura. Avevamo già scoperto da tempo che in alta quota nascono grandi amicizie.

Per questo, nelle prime due edizioni del festival (quella “del lupo” nel 2017 e quella “del camoscio” nel 2018, dalle locandine dipinte dall'amico Nicola Magrin), una parte importante è stata data al racconto di esperienze di ritorno e vita comunitaria, in montagna o in ambiente rurale. Nuovi montanari italiani e stranieri accanto a realtà storiche come la comune agricola di Urupia, in Salento, o il villaggio ecologico di Granara sull'Appennino parmense. Chi studia e sostiene i progetti di ritorno, chi in montagna ospita e fa formazione: l'associazione Dislivelli di Torino, la fondazione Nuto Revelli di Cuneo (ma la sua sede simbolica è il borgo di Paraloup in Valle Stura), il centro studi valdese di Agape in Val Pellice. Abbiamo ascoltato racconti di giornaliste e antropologhe, viaggiatrici e montanare (Linda Cottino, Irene Borgna, Michela Zucca, Anna Torretta, Marzia Verona) e di ragazzi che negli anni Settanta avevano fatto del loro andare in montagna un atto politico, di protesta e di liberazione (Enrico Camanni). E ancora abbiamo provato a raccogliere le voci della montagna ribelle, quella storica delle minoranze, delle resistenze, delle eresie, e quella che oggi lotta in Val Susa o in Kurdistan. Abbiamo ricordato i maestri a cui siamo legati – Mario Rigoni Stern, Primo Levi, Tiziano Terzani – e imparato cos'è l'alpinismo secondo Hervé Barmasse, Nives Meroi, Romano Benet: esplorazione del rapporto tra uomo e ambiente selvatico, e tra esseri umani che vanno in montagna insieme. Più che esaurire l'argomento, ci è sembrato che ogni voce aprisse a tante altre possibilità di racconto, e innumerevoli sono le strade da battere in futuro. Dovrei ancora raccontare del teatro, dei concerti, dell'arte dal vivo, delle mostre fotografiche, ma anche dei balli a notte fonda e dei risvegli dopo i temporali. Sono state circa cinquecento, lo scorso luglio, le persone che hanno partecipato al festival in tenda, in un campeggio del tutto autogestito e sparso per i boschi intorno alla radura. Credo che la notizia migliore sia proprio l'esistenza di questa gente, così appassionata da sopportare per tre giorni le asperità della montagna e così rispettosa da lasciarla, alla fine, senza nemmeno un segno del proprio passaggio. Per uno come me è stato come vedere una piccola anarchia realizzata.

Erri De Luca ha chiuso il Richiamo di quest'anno (o aperto il prossimo, ha detto lui) parlando di geografia e di migrazioni, e dipingendo un grande sud del mondo che si estende molto al di là dell'emisfero australe: è il sud delle periferie urbane, dei mari solcati dagli uomini, delle coste lungo cui si mescolano, delle montagne che attraversano. “Le montagne, bordi della terra, prove della sua forza d'elevazione, margini in cui l'umanità si incontra”: ecco gli appunti che ho preso durante il discorso di Erri. I bordi, i margini, le periferie del mondo: sono i luoghi che ci interessa coltivare perché li sentiamo più fertili e tolleranti, aperti alle possibilità d'incontro, vivi come questa montagna in festa. Per il silenzio e la solitudine occorrerà passare un'altra volta.


mercoledì 28 novembre 2018

LE STORIE CANTICCHIATE DELLA VITA QUOTIDIANA

(questo pezzo è uscito su Robinson)

Ci dev'essere un'anima femminile nel racconto breve, in quest'arte di collezionare frammenti di esistenze, setacciare rivolte e silenziose illuminazioni, registrare sulla pagina la musica della vita quotidiana. O canticchiarla facendo altro, avrebbe detto Grace Paley, così disposta a lasciarsi distrarre dal mondo da avere prodotto appena tre raccolte di racconti in trent'anni di lavoro: Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all'ultimo momento (1974), Più tardi nel pomeriggio (1985), che oggi l'editore Sur ripubblica in un unico volume (Tutti i racconti, nella nuova traduzione di Isabella Zani). Quarantacinque piccole storie che fanno brillare il nome di Grace Paley nel firmamento americano del Novecento: per usare un'immagine di Raymond Carver, che della materia se ne intendeva, ecco una delle stelle con cui orientarsi quando si leggono racconti, o si cerca di imparare a scriverne.

Quelle storie sono un tutt'uno con l'epopea di New York nel Novecento. Figlia di ebrei ucraini fuggiti dalla Russia all'epoca degli zar, Grace era nata nel Bronx nel 1922, ovvero quando la città si avviava a diventare, senza che nessuno l'avesse programmato o previsto, il più grande esperimento di convivenza sociale del secolo. A New York allora vivevano sette milioni di persone: due di ebrei dell'Europa Orientale, uno di italiani, mezzo di afroamericani; tanti altri stavano per arrivare dall'Asia e dall'America latina. Nei racconti di Grace Paley furono voci, schiamazzi, litigi, chiacchiere, risate, grida. Il Bronx, Brooklyn, il Lower East Side risuonavano di lingue e dialetti, le radici si smarrivano o forse si intrecciavano, i figli propri si mischiavano con quelli altrui, il vecchio mondo sopravviveva nei riti e nella nostalgia. In un racconto di una sola pagina, Madre, i genitori di Grace ascoltano Mozart in salotto, dentro casa c'è la vecchia Russia polverosa, per strada New York brulica di vita: lui, medico, ha ricevuto pazienti tutto il giorno; lei ha appena lasciato il negozio per la cucina. Canta, le dice lui, una volta cantavi così bene. Lei non risponde. Sembrano smarriti e un po' stanchi. Ma dove siamo? Dopo trent'anni a lui pare ancora di essere appena sceso dalla nave, di avere appena ridato l'esame di anatomia in inglese. Lei è preoccupata per la figlia adolescente, testarda, infatuata di idee rivoluzionarie, una ragazza che torna tardi la sera, ormai così americana. Ci può stare tutto questo in un racconto di una sola pagina? Sì, nelle mani di un artista.

Le origini, gli ambienti, l'umanità che li abita fecero rientrare Grace Paley, all'inizio, in una corrente che a New York nasceva nel secondo dopoguerra, quella della letteratura ebraico-americana. Negli stessi anni esordivano Bernard Malamud, Saul Bellow, Philip Roth, il lettore americano familiarizzava con le massime talmudiche e la cucina kosher, in città lo yiddish era la seconda lingua dopo l'inglese. Grace però non intendeva proseguire su quella strada. Poco più che ragazza si era sposata ed era andata a vivere al Greenwich Village, quartiere di artisti, scrittori, intellettuali, culla della Beat Generation; aveva fatto due figli ma poi il marito se n'era andato, lei era rimasta sola con i bambini. Intorno, ancora una volta, la città ribolliva. La strada chiamava e restare in casa non era proprio possibile, nemmeno se eri una giovane madre divorziata e lavoratrice. Al Village fin dagli anni Cinquanta si era formato un comitato in difesa del parco di Washington Square, la piazza che è il cuore del quartiere e che un'autostrada urbana avrebbe dovuto sventrare: per la prima volta nella storia newyorkese un gruppo di cittadini, principalmente donne, si opponeva a un progetto di lavori pubblici, e fece tanto di quel rumore che finì per averla vinta. Negli anni Sessanta un movimento sempre più grande si formò intorno a quel nucleo originario: per il diritto alla casa, alla scuola, agli spazi di socialità urbana, e poi contro la guerra in Vietnam e l'uso dell'energia atomica. Grace in quel movimento fu sempre in prima fila, tenne discorsi e scrisse manifesti, fu arrestata più volte. Faith Darwin, il suo alter ego letterario, in un racconto è Faith sull'albero: proprio un albero del parco di Washington Square, arrampicata lassù mentre osserva le donne, le sue amiche, i figli che sono figli di tutte, bambini che giocano tra madri che chiacchierano tranquille, e lei sola è lassù a fare la sentinella, angosciata da ciò che sta per capitare. Si sentiva spesso sull'orlo di una tragedia storica, un disastro ecologico, una fine del mondo; chissà se in quell'angoscia c'era anche un ebraismo risvegliato da ciò che era successo in Europa.

Ma non le interessò mai definirsi ebrea, piuttosto newyorkese, e donna più che scrittrice. E femminista, ambientalista, anti-militarista, tutte declinazioni della stessa non-violenza che fu sempre il suo credo. Negli anni Ottanta la comunità letteraria cominciò a tributarle il giusto riconoscimento. Grace intanto si era risposata con un compagno di penna e di battaglie che sarebbe restato con lei fino alla fine, giunta in tarda età, nel 2007. Viveva ancora al Village e ancora distribuiva volantini all'angolo della sua strada. Smise di scrivere racconti e si dedicò ad altri amori, la poesia e l'insegnamento: una sua studentessa fu A.M. Homes che la ricorda come maestra di rigore morale, attenzione verso l'altro, responsabilità, ascolto. Una donna per cui la scrittura veniva dopo le persone e correva dietro alla vita, una newyorkese per cui il richiamo del mondo là fuori era sempre stato troppo potente per starsene sola a casa a scrivere storie.


martedì 6 novembre 2018

SENZA MAI ARRIVARE IN CIMA

Da qualche anno i miei libri preferiti sono libri di viaggio. Le vite dei lettori hanno stagioni, e a un certo punto della mia l'interesse si è spostato dalle storie allo sguardo, alla scrittura intesa come esplorazione di sé e del mondo. La narrativa di viaggio è un vecchio genere, forse è il viaggio stesso ad appartenere a epoche più romantiche della nostra, e io sono legato ad autori per cui viaggiare era un'arte e una filosofia, qualche volta un mestiere, sempre un modo di vivere. Della scrittura di viaggio, mi piace che nasca da un'attentissima osservazione. Ma l'osservazione non basta, per farne racconto il paesaggio deve dialogare con chi lo attraversa, diventare specchio di un paesaggio interiore. Direi che i grandi racconti di viaggio mettono in relazione un luogo e una personalità memorabili. I miei preferiti: Festa mobile di Hemingway e La mia Africa di Karen Blixen, In Patagonia di Chatwin e Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson, Il leopardo delle nevi di Peter Matthiessen e Un indovino mi disse di Tiziano Terzani. Gli ultimi due mi sono molto cari da quando la ricerca del viaggio mi ha portato in Himalaya. “Per tornare viaggiatori bisognerebbe ritornare a essere come gli unici veri viaggiatori”, disse Terzani: “i pellegrini.” Ho trovato il mio pellegrinaggio e il racconto che ne ho scritto intende essere, anche, un dialogo con Tiziano, che considero un maestro dell'arte di viaggiare, di cercare, di osservare e voler capire, di interrogarsi, di amare il mondo e la sua varietà, di rendere la scrittura uno strumento di tutto questo. Il libro si intitola Senza mai arrivare in cima ed esce oggi. Parla di quel che cerchiamo quando andiamo in montagna, e di qualche altra cosa. Il mio amico Nicola è riuscito a essere allo stesso tempo un personaggio del libro, il suo destinatario e l'autore della copertina; sono contento che sia, anche, un libro sull'amicizia.

Infine, è un libro che aiuta delle persone. Con i guadagni sostengo due associazioni che ho conosciuto in Nepal: Sanonani House e CASANepal, due Onlus italiane che operano a Katmandu, case-famiglia per bambini e donne vittime di violenza. Quel piccolo paese ai piedi dell'Himalaya mi ha dato tanto, nella vita e nella scrittura, e in questo modo spero di potergli ridare qualcosa indietro.

“Tashi delek” è il saluto tibetano, vuol dire più o meno “Buona fortuna”, e in Nepal lo si sente quando, superata una certa quota, si entra nel mondo dell'alta montagna e anche l'umanità cambia. Cambiano i volti, gli abiti, cambia la lingua, compaiono gli yak al pascolo e i segni di devozione che si agitano al vento. Il “Namasté” delle pianure e delle valli cede il passo al saluto dei montanari: lassù è ormai Tibet, il regno perduto. Dunque, tashi delek.


domenica 9 settembre 2018

1999

(Questo pezzo è uscito su Repubblica Milano del 5 settembre)

Nel 1999 avevo ventun anni, ero appena uscito dalla scuola di cinema e con un amico girai un documentario in cui alcuni “ragazzi del '77” ci portavano, ormai quarantenni, nei luoghi della loro formazione a Milano. Ero affascinato tanto da quella generazione quanto dalla mia città a quell'epoca, dalle parti di lei che avevano generato o accolto i movimenti giovanili degli anni Settanta, i centri sociali, le radio libere, gli esperimenti di autogestione. Leggevo “L'orda d'oro” di Nanni Balestrini e Primo Moroni, “Costretti a sanguinare” di Marco Philopat, “Zone Temporaneamente Autonome” di Hakim Bey. Molti dei luoghi che esplorammo in quel documentario erano nel Ticinese, proprio intorno alla libreria Calusca di Primo Moroni, con la topografia politica del quartiere che scoprivo allora: via Torino in cui sfilavano i cortei del sabato, via De Amicis ferita dai colpi di pistola, via Santa Marta in cui rifugiarsi dalle cariche della polizia, piazza San Giorgio ritrovo dei primi punk di Milano. Ma c'era anche il Virus di via Correggio (ci ero cresciuto accanto!), il Parco Lambro dei festival nel fango, la Statale in cui una ragazza aveva cominciato a far politica, lo slargo di via Padova in cui un ragazzo si era fatto il primo buco. A ventun anni imparavo daccapo la città in cui ero nato, mi dotavo di occhi nuovi per guardarla. Me ne innamoravo, anche, dopo un'adolescenza in cui era stata per me una città fredda e distante, e mi preparavo a impossessarmene, a esercitare il mio diritto generazionale.
Oggi il quarantenne sono io e chissà cosa racconterei a un ventenne del 2019, se mi chiedesse dove mi sono formato a Milano, che cosa succedeva nel mio mondo allora, quali erano i posti importanti per me. Forse gli direi che nel 1999 il baricentro della città, quanto a Zone Temporaneamente Autonome (quelle che si liberano finché dura, e poi si scappa), sembrava essersi decisamente spostato da sud a nord. Il Ticinese ormai si divideva tra reduci dei bei tempi andati e Milano da bere. Al suo posto c'era l'Isola, magari, ma in pochi allora la chiamavano così, era solo il pezzo di città tra via Farini e Melchiorre Gioia, la Stazione Garibaldi e il Monumentale: uno strano quartiere fatto di scali ferroviari e cimiteri, edifici pubblici dismessi, erbe infestanti che spuntavano nell'abbandono. Era proprio quel genere di vegetazione che interessava a me.
Per qualche anno fu la parte di Milano in cui tornai più spesso, quasi sempre di sera. In via Don Sturzo c'era il Deposito Bulk, occupazione di una scuola in disuso, dove noi ragazzi bevevamo e ballavamo tra le vecchie aule e i corridoi, sembravamo i bambini liberati di “Another Brick in the Wall”. All'Isola di centri sociali ce n'erano ben due: Pergola e Garigliano con la musica, la cucina, il cinema, i concerti reggae, la birra a tremila lire. C'era Metropolix, ostello autogestito in piazza Minniti, da cui passava gente di tutto il mondo. Ma quello a cui mi affezionai di più era un posto che si chiamava Stecca degli artigiani, un'altra occupazione su via Confalonieri, una vecchia corte di officine che in parte ospitava ancora meccanici e falegnami, in parte un circolo culturale. Durò qualche anno e riuscii perfino a festeggiare lì alla Stecca l'uscita del mio primo libro, nel 2004. Poco dopo fu sgomberata e demolita per fare spazio al progetto a cui ci eravamo opposti per tutto il tempo, il cosiddetto Bosco verticale, cioè i due condomini per milionari che ora sorgono al suo posto.
Ecco, questo è il giro che la mia memoria ha fatto quando Piero Colaprico mi ha chiesto: vuoi scrivere un pezzo su quel che pensi di piazza Gae Aulenti? Ma certo, ho risposto, prima di rendermi conto che di quella piazza non ho quasi niente da dire. Non ho rapporti con lei. L'ho vista una volta sola e non ci sono più voluto tornare, così come evito di passare sotto il Bosco verticale (che io chiamerei, più correttamente, Orto). Il fatto è che non potrò mai guardare quel pezzo di Milano senza pensare a quel che c'era prima e a cosa significava per me, e forse è questa la prova definitiva che una città è la tua. È tua perché a un certo punto l'hai esplorata, hai trovato rifugio in certe sue strade, te ne sei innamorato. È tua perché hai difeso la parte di città che amavi – la sua anima, per come la vedevi allora – hai perso e ti sei sentito derubato di lei. È tua perché quando la guardi i tuoi occhi vedono in quattro dimensioni, e la quarta è il tempo: vedono la città di oggi sopra a quella di ieri, e le mettono in relazione.
Non c'entra la nostalgia. È giusto che una città si trasformi, anzi più si trasforma e più è viva, e io riesco perfino ad apprezzare le forme dei grattacieli, a trovarli belli, a riconoscere in loro una prova dell'intelligenza e del gusto umani. Intanto però mi chiedo: che cosa si fa lì dentro? Che cosa si fa per Milano? Oltre quelle finestre ci sono luoghi aperti o chiusi, luoghi che possono essere anche miei o che saranno per sempre di qualcun altro? Scambiando la Stecca con l'Orto verticale, chi abita a Milano ne è stato arricchito o impoverito?
Per fortuna nel tempo ho scoperto anche un'altra cosa, e cioè che l'anima di una città non muore, si sposta soltanto. Forse dovrei essere io a chiedere al ventenne del 2019 dov'è la sua città, di quale Milano si sta innamorando lui. E lasciarmi portare lontano dalla bellissima piazza Gae Aulenti.


mercoledì 15 agosto 2018

Per l'Alpe Devero

Cari amici del Comitato Tutela Devero,
sono con voi nella difesa del vostro splendido territorio di montagna dalla costruzione dell'ennesimo e distruttivo comprensorio sciistico.
So di cosa parlo perché vivo in mezzo a pascoli che, d'inverno, diventano piste da sci: lo sci di discesa richiede una trasformazione profonda del paesaggio, la costruzione di strade, edifici, impianti di risalita, la presenza costante di mezzi a motore, il disboscamento e il livellamento di interi versanti della montagna. Non solo: lo sci senza neve artificiale non è più immaginabile, e questo significa la costruzione di grandi bacini idrici a monte delle piste, lo spreco d'acqua e di energia elettrica, lo scavo di lunghe condutture e l'installazione di cannoni su tutto il percorso. Alla fine di questi lavori (che poi si riveleranno infiniti, perché una pista richiede continua manutenzione) la vostra montagna sarà irriconoscibile. Come capita dalle mie parti, immagino che la maggioranza degli abitanti della vostra valle sia a favore del progetto. Succede perché sono male informati e credono alle promesse di amministratori e imprenditori interessati solo al loro tornaconto. Progetti come questo danno lavoro, sì, ma solo a breve termine: qui a Estoul si discute da anni della convenienza del nostro impianto che, come in tanti piccoli comprensori, è sempre in perdita, prima o poi smetterà di essere sostenuto dal denaro pubblico e chiuderà. Allora nessuna amministrazione spenderà i soldi necessari a smantellarlo: ci terremo i piloni, le stazioni in cemento, le vasche dell'acqua, i versanti spianati, le strade, e la montagna impiegherà secoli a riprendersi quello che era suo, a rigenerare la propria bellezza. Agli abitanti della valle dovete spiegare questo: si stanno giocando una grande ricchezza, cioè la bellezza della loro montagna, per avviare un'attività economica che è in perdita in tutta Italia. Quella ricchezza la stanno togliendo a se stessi e ai loro figli, che non potranno riaverla indietro. Ciò che rovinate in questo modo, lo rovinate per secoli e secoli a generazioni di discendenti.
Poi parlate ai montanari delle persone che arrivano sulle Alpi da ogni parte del mondo per vedere boschi, torrenti, rocce, animali selvatici, un paesaggio non toccato dall'uomo che è sempre più raro sulla terra. È un bisogno diffuso, in un'umanità sempre più urbana, e lo dimostrano i dati del turismo dolce che sono in crescita dappertutto. Una crescita lenta, che non porterà le effimere invasioni di sciatori delle domeniche d'inverno, però solida, radicata, rispettosa del vostro territorio, non a rischio di fallimento. È quello il futuro. La conservazione della vostra montagna non è solo ecologia: è anche il vostro futuro economico, un paesaggio integro varrà sempre di più nei prossimi anni e ancora di più per i vostri figli, varrà oro.
Un abbraccio
Paolo

lunedì 6 agosto 2018

TRE SEDIE

Il momento più difficile è quando vanno via tutti. I tavoli vuoti, l'erba piegata dove c'erano le tende, lo striscione nell'aria che minaccia pioggia. Allora i boschi intorno alla baita tornano al loro silenzio, io alla mia solitudine. È la stessa di prima ma è dura abituarsi di nuovo a lei, dopo tre giorni in cui migliaia di persone hanno popolato questa montagna: hanno dormito, mangiato, bevuto, discusso, cantato, ballato nei boschi in cui di solito cammino solo. Sono i luoghi in cui vado a scrivere, o meglio a osservare e pensare, che è l'inizio della scrittura: questo per me è il camminare. È un rapporto silenzioso con il paesaggio e per questo sono sempre stato un camminatore solitario. A lungo ho praticato la montagna come allontanamento, un andar via dagli altri, una forma di eremitaggio, di immersione nel mondo interiore.
Però, a un certo punto, qualcosa è cambiato. È successo quando in montagna ho cominciato ad abitarci. La solitudine è buona se dura un giorno, un mese, un anno, se è una stanza tutta per te in cui sei libero di entrare e uscire, non se è una condanna di cui non vedi la fine. Nemmeno il vecchio Thoreau aveva davvero la stoffa dell'eremita, se della sua capanna sul lago Walden scrisse: “In casa mia avevo tre sedie: la prima per la solitudine, la seconda per l'amicizia, la terza per la società.” Dopo un po' di solitudine era tornato anche a me il desiderio di amicizia e società, però non volevo scendere in città per ottenerle. Volevo vedere se, a mettere le tre sedie nel bosco, qualcuno ci si sarebbe seduto.
Questa è l'origine dell'associazione culturale di cui faccio parte, “Gli urogalli”, del festival che organizziamo e dell'ostello che stiamo costruendo a Estoul, la frazione di Brusson dove abito da dieci anni. Abbiamo battezzato il festival “Il richiamo della foresta” con l'idea che, prima che un programma culturale, proponesse alle persone un luogo e un tempo da condividere: si sta per tre giorni nei boschi, si fondano relazioni, si sperimenta una comunità effimera perché poi magari i giorni si trasformino in settimane e mesi, l'effimero in duraturo. Dovrei aggiungere che siamo persone di idee libertarie (alcune preferiscono dire anarchiche, altre tenersi le idee ma non definirsi in alcun modo). Per questo, tra i tanti modi di parlare di montagna, più che la chiave naturalistica, alpinistica, antropologica, letteraria, che pure ci interessano, abbiamo scelto quella sociale e politica. Che significa chiedersi: a quali bisogni risponde il nostro andare in montagna? Che relazioni genera? Che cosa vogliamo, noi che ci andiamo ad abitare? Come possiamo costruirlo insieme?
Non siamo certo i primi a farci queste domande, ed è bene sapere cos'è successo a chi ci ha preceduti. Enrico Camanni ha inaugurato il festival raccontando del movimento del Nuovo Mattino e di quando, negli anni Settanta, dai ragazzi della contestazione nacque un nuovo modo di scalare, un atto di gioia, amicizia, ribellione, libero dalla retorica della conquista. Linda Cottino ha parlato di alpiniste, delle loro storie sconosciute, della necessità di riempire quel vuoto che è la narrazione della montagna femminile, e Irene Borgna dei montanari tra cui lei stessa, donna e cittadina, è andata ad abitare, riuscendo con pazienza a esserne accolta. I villaggi di Urupia, Granara, Agape e Paraloup hanno portato esperienze di ripopolamento e vita collettiva sulle Alpi e sugli Appennini e mostrato come la montagna possa essere luogo non di arretratezza e chiusura, ma di diversità, tolleranza, sperimentazione; o di resistenza e di lotta, in Val Susa come in Kurdistan, nei racconti di Michela Zucca, Ezel Alcu, l'editore Tabor, la rivista Nunatak. Infine Nives Meroi e Romano Benet hanno raccontato del loro matrimonio di montagna, di come nasce l'amore sulle rocce della Carnia e di cosa diventa sui ghiacciai dell'Himalaya e del Karakorum, ed Erri De Luca ha chiuso il festival (o aperto il prossimo, dice lui) parlando di geografia e di migrazioni, e descrivendo un grande sud del mondo che si estende molto al di là dell'emisfero australe: è il sud delle periferie, dei mari solcati dagli uomini, delle coste lungo cui si mescolano, delle montagne che attraversano. “Le montagne, bordi della terra, prove della sua forza d'elevazione, margini in cui l'umanità si incontra”: ecco gli appunti che ho preso durante il discorso di Erri. C'è un'altra forza d'elevazione nel nostro paese, contraria a quella di gravità che lo tira verso il basso, e in questi tre giorni a duemila metri ha dato una piccola prova di esistere.
Ora il bosco tace e io sono tornato alle mie letture e camminate, ai rari incontri e ai piccoli lavori. Salgo per i vecchi sentieri e il silenzio della montagna mi sembra vibrare di echi. So che, se li ascolto abbastanza a lungo, presto prenderanno corpo, diventeranno scrittura.


sabato 16 giugno 2018

DIECI ANNI

Oggi è il decennale della morte di Mario Rigoni Stern. Me lo ricordo bene, il 16 giugno 2008: era la mia prima estate in baita e m'innamoravo dei suoi libri, quando lui morì. Ma come, pensai, io sono appena arrivato e tu vai via? Non avrei più fatto in tempo a scrivergli, ad andarlo a trovare, ad ascoltare la sua voce, a bere un bicchiere di vino con lui: non mi restava che leggerlo, seguire le sue tracce, ricordarlo. Ho poi capito che questo poteva essere un compito che mi era stato assegnato, il compito della memoria che tocca a chi, come me, viene dopo. Cerco di svolgerlo meglio che posso. Quest'anno la casa editrice Einaudi mi ha fatto il grande onore di affidarmi l'introduzione a una nuova edizione del "Bosco degli urogalli", il primo libro di montagna di Mario, del 1962. Lo trovate in libreria. Ve ne riporto qui una parte, e spero che oggi tanti di noi brindino al ricordo di questo nostro maestro.


Il sergente maggiore Rigoni tornò a baita dalla guerra il 9 maggio 1945. Ci tornò a piedi, attraversando le montagne per raggiungere il suo Altipiano. Con sé non aveva più armi né divisa ma il cucchiaio d'ordinanza, una cintura di molti buchi più stretta di quando era partito e il cappello con la penna nera che portava dal primo dicembre 1938, data del suo arruolamento volontario come “aspirante specializzato sciatore rocciatore”. In sei anni e mezzo da alpino aveva partecipato agli attacchi contro la Francia, la Grecia, la Russia, era sopravvissuto alla ritirata nella steppa in cui erano morti tanti suoi compagni, dopo l'armistizio aveva rifiutato di aderire alla Repubblica di Mussolini e per questo era stato internato nei campi di prigionia tedeschi, dove dall'autunno del '43 aveva combattuto la sua personale Resistenza. Diventato soldato a diciassette anni, spinto dalla voglia di avventura e dal patriottismo di un adolescente, smetteva di esserlo a ventitré con l'aspetto e lo spirito di un reduce: non volendo più saperne di esercito, rinunciò alla carriera militare e andò in congedo definitivo. Dunque il sergente maggiore Rigoni tornò a essere Mario Stern, figlio di Giobatta, montanaro dell'Altipiano, al momento senza lavoro. Incredibilmente, era ancora un ragazzo.
Così comincia Una lettera dall'Australia, uno dei racconti più belli di questo libro: “In quell'anno, il 1945, ritornavano a casa quelli che erano rimasti. Come nelle sere d'autunno ritornano alle stalle le pecore, le mucche e le capre a piccoli gruppi o isolate, così tornavano dalla Germania, dalla Russia, dalla Francia e dai Balcani quelli che la guerra aveva portato via e lasciato vivi. Chi era stato dalla parte dei fascisti si rintanava in casa e non aveva il coraggio di uscire; quelli che erano stati partigiani passavano cantando per il paese con fazzoletti rossi verdi attorno al collo, e quelli che ritornavano dalla prigionia sedevano in silenzio sull'uscio di casa a fumar sigarette e a guardare il volo degli uccelli.”
Dunque Mario, disoccupato, aspettava. L'uscio è il punto della casa da cui si può scegliere se partire o restare, e in un'indecisione simile si trovava anche lui. Veniva l'estate, ma erano troppo presenti i ricordi per lasciarseli alle spalle e andare avanti. Aveva sofferto la fame e il freddo, la privazione della libertà, la violenza dei carcerieri. Questo era niente, aveva ucciso e visto morire: morti, tanti morti. Chissà se lo torturavano di più i nemici che aveva ammazzato o gli amici che non era riuscito a salvare? Di notte si svegliava gridando al pensiero dei morti. Quanto aveva camminato e quanta neve! A volte provava a raccontare, ma aveva già capito che nessuno voleva ascoltare le sue storie: tutti avevano avuto la propria parte di guerra e non ne potevano più della guerra degli altri. Così aveva messo via il manoscritto del lager, le pagine in cui furiosamente, quell'inverno, aveva trascritto i ricordi della ritirata di due anni prima. Era stata la neve a farglieli tornare in mente. Forse c'era davvero un libro, dentro quelle memorie sgualcite, ma adesso non era ancora pronto a rimetterci mano.
Pensò che per il momento, dato che tra la gente non gli andava di stare, poteva andare a far legna per sua madre. A cavar ceppi, cioè sradicare i resti degli alberi abbattuti, legna utile e gratuita, però un lavoraccio: si dà di piccone tutt'intorno al ceppo e si tira finché la terra non lo lascia andare. Ad avercelo si fa prima con un mulo, e ancora prima, ad avercela, con un po' di dinamite. Ma lavorare era una cosa buona, aiutava a non pensare troppo e a rimettersi in forma, e poi stare in bosco da solo gli era sempre piaciuto. Così Mario si alzò dalla soglia, spense la sigaretta, buttò qualcosa nello zaino e andò in montagna.


giovedì 17 maggio 2018

LOUIS

Dopo un inverno così nevoso da far tornare ricordi lontani alla memoria dei vecchi, la Val di Rhêmes in aprile è tutta segnata dalle valanghe. Sale da nord a sud, al rovescio, per quella destra orografica della Valle d'Aosta che chiamiamo appunto l'envers, gole ombrose e selvatiche tagliate dai torrenti tra pareti di roccia scura. Lungo la Dora di neve non ce n'è più, ma i versanti sono così ripidi da scaricare di continuo quella che si è accumulata su in alto, per canaloni e colatoi: le slavine scavano i pendii e portano giù terra, pietre, tronchi d'albero, perfino animali travolti e trascinati a fondovalle. “Ieri due camosci”, dice Louis Oreiller, come aggiornando il conto della primavera. Io alzo gli occhi a ogni borbottio di distacco, lui non ci fa nemmeno caso. A Rhêmes Notre-Dame, 1700 metri d'altezza, dove la valle si apre in una conca glaciale e concede un po' di dolcezza e di luce, quello delle valanghe dev'essere un rombo familiare.
Louis ha 85 anni, tutti spesi ad ascoltare la montagna. È un vecchio magro e ha una barba bianca ingiallita dal tabacco, ma qui non si muore di fumo, si muore di vino e lui non beve come chi ne ha vista troppa di gente ammazzarsi in quel modo. Ha gli occhi azzurri, arrotola sigarette di trinciato, cammina con quel passo che io ho provato molto a imitare (lento, assorto, un po' curvo in avanti, il passo di chi ha sempre vissuto in salita e si ritrova a disagio nel piano), a vederlo non sai se dargli vent'anni di meno, per il fisico, o cento di più, perché c'è qualcosa di vecchissimo in lui.
Dopo averla ascoltata per una vita intera, e averne imparato la lingua, ha scritto o meglio dettato a Irene Borgna il più bel libro di montagna che io abbia letto nell'ultimo anno. Si intitola “Il pastore di stambecchi” e parla una lingua strana, non c'entra il patois né la erre arrotolata della petite patrie, è una lingua che sembra venire da un altro paese. O da un tempo molto, molto lontano. Quella montagna è qui fuori dalla sua finestra. Dai vetri della cucina, mentre la moglie di Louis prepara il pranzo sulla stufa a legna, osservo la Granta Parey, la piramide di roccia che chiude la Val di Rhêmes a sud, poco prima dei valichi che danno in Francia. Un'altra frontiera non si vede, tutta la destra della valle è dentro il Parco Nazionale del Gran Paradiso: fin da ragazzo, negli anni Cinquanta, Louis ha fatto avanti e indietro per quei confini come contrabbandiere e bracconiere, portando pelli da vendere o barattare, corna di stambecco per soldi, carne di camoscio per fame. È stato inseguito da gendarmi, doganieri, forestali, ha imparato a fuggire di notte e su sci di legno costruiti in casa, si è stampato in testa la mappa di tutti i passaggi segreti, tutte le scorciatoie e i nascondigli della montagna. Poi è passato dall'altra parte perché una volta quelli come lui li assumevano, così in un colpo solo ti levavi un problema e ne risolvevi molti altri: per quarant'anni Louis ha fatto prima il guardaparco, poi il guardacaccia nella riserva della valle, in alto su quei pendii da cui si staccano le slavine. Tutto il giorno lassù, quasi sempre da solo. Lui e la montagna.
Io sono a mio agio seduto in questa cucina, mi è sempre piaciuto stare con i vecchi. Raccontami qualcosa di quello che hai sentito, gli chiedo. “La voce delle cascate”, dice lui. Come? “Se ascolti con pazienza, scopri che le cascate cambiano voce ogni due ore. Fino alle quattro di pomeriggio, poi tornano indietro. Però devi stare lì seduto tutto il giorno per sentirla cambiare.” E gli alberi, Louis, hanno una voce anche loro? “Ce l'hanno sì, tutto ha una voce, solo che noi non la sentiamo. Una volta ho tolto un pezzo di corteccia alla base di un larice, poi ho cominciato a battere con il rovescio dell'accetta e ho avvicinato l'orecchio alla pianta. Il colpo aveva come un'eco, andava su e tornava giù come un'onda. Ho poi scoperto che un albero morto non lo fa, lo fa solo un albero vivo.”
Ora riaccende la sigaretta che si era spenta, e sento bene che è tabacco da pipa. Alle pareti, foto di famiglia e di montagna. Louis, Nathalie, il figlio Silvio, un lupo, un bivacco, tanta neve. Louis a quarant'anni aveva già i capelli bianchi e una bellezza dura, che adesso ha perso. Adesso è un vecchio dolce, non si può più immaginare la sua forza di un tempo. Parlami ancora, Louis, parlami delle rocce. “Le rocce, quante ne ho accarezzate. Tante volte ho traversato senza corda per dei posti da accopparsi. Appoggiavo la guancia alla roccia e chiedevo alla montagna di lasciarmi passare. Bisogna chiedere permesso e capire la risposta, se lei ti dice di no e non sai ascoltare è finita.” E la neve, anche quella hai ascoltato? “Ho lavorato tanto per il servizio valanghe, tutti i giorni d'inverno mandavo giù il grado di pericolo. Usavo gli strumenti in dotazione più qualche altro metodo. A contare gli strati di neve mi aveva insegnato un vecchio bracconiere, Elso, il mio maestro: ti tiri su la manica della camicia, affondi il braccio nella neve e li conti, uno per uno. A prevedere le valanghe mi hanno aiutato anche le femmine di stambecco, che scompaiono dalla montagna qualche ora prima del distacco. I maschi invece sentono la neve in arrivo, prima di una nevicata si mettono in cerchio intorno a un dosso e posano la testa verso l'interno, formano una specie di rosa con le corna. Sono sempre in numero dispari: tre, o cinque, o sette.”
Ecco, in questo libro che commuoverà gli amanti della montagna ci sono stambecchi che fanno la rosa, c'è un corvo che attacca il cucciolo di camoscio agli occhi mentre la madre lo sta partorendo, c'è un ermellino che vendica i figli uccisi cogliendo la vipera quand'è in amore. C'è un sapere non tramandabile, che non erediteremo. Provo un terribile senso di perdita a pensare che questi montanari si portano via tutto quello che hanno imparato, e che noi non impareremo mai. Noi possiamo soltanto ascoltare questa voce che ci riempie di meraviglia e di rimpianto.
Conosci la mia valle, Louis? Gli si illumina lo sguardo: non solo perché la mia, la Val d'Ayas, è sul dritto ed è tutta al sole. È che questi vecchi valdostani hanno sempre almeno un ricordo in ognuna delle nostre quindici valli laterali, posti in cui magari non tornano da cinquant'anni e di cui parlano come mondi lontani. “Sì, in quel lago del tuo libro ho fatto il guardapesca. Erano i primi anni Sessanta, mi ricordo tanti montanari in alpeggio. È ancora così?” Non te lo dico, non lo vuoi sapere. Parliamo dei vecchi amici, sono quasi tutti morti o sono via, come dicono quassù, come se morire fosse un po' partire. Fa un elenco di persone che conosceva nella mia valle, questo è via, questo è via, questo è via, finché ne nomina uno che è ancora qui. Quello sì, è vivo e vegeto, lo chiamano “Porca miseria”. È l'uso di soprannominare gli uomini con i loro tic verbali. Questo Porca miseria da noi è conosciuto perché anche dopo gli ottant'anni continua a litigare con tutti, qualche volta mena pure le mani.
Vai ancora in montagna, Louis? “No, ho smesso sette anni fa. Ho fatto un lungo giro a salutare tutto. Sapevo che era l'ultima, sono stato su per un giorno intero.” Poi pensandoci gli scappa una frase: “Ma se torno...”, e io che amo il buddismo gli chiedo se davvero pensa che torneremo. “Non so”, dice. Poi ci riflette e risponde più deciso: “No, credo di no.” Ma ho colto nel frattempo uno sguardo di Nathalie, che si è voltata dalle sue pentole per vedere cosa rispondeva. Lui crede che forse torneremo, lei no e non vuole sentire bestemmie o eresie.
Vado via dopo una mattina passata ad ascoltare questo vecchio e la montagna che parla attraverso di lui. La Granta Parey ha lo stesso nome del Gran Paradiso e vuol dire solo una cosa, montagna grande, non c'entra coi paradisi. La gente una volta non perdeva tempo a trovare nomi alle montagne.
“Salutami la Val d'Ayas”, mi dice, mentre parto. Vieni tu una volta a salutarla, no Louis? “Ma come faccio, non sento più il piede del freno. La patente ce l'ho ancora ma in discesa credo di frenare e invece vado dritto. Meglio di no.” E se una volta ti vengo a prendere io e ti porto di là, a raccontare a un po' di ragazzi che cosa hai sentito in montagna? “Allora forse sì”. Bene. Allora organizzo. Forse c'è ancora tempo per imparare.

(Louis Oreiller sarà ospite al Richiamo della foresta, il festival che con alcuni amici organizzo a Estoul in Val d'Ayas, il 21 luglio)

mercoledì 9 maggio 2018

IL FUTURO POSSIBILE

(questo pezzo è uscito su Montagne360)

Ormai da dieci anni affitto una baita a Estoul, in Valle d’Aosta, in mezzo a un pascolo che per tre mesi all’anno diventa una pista da sci. Come i montanari miei vicini salgo in primavera, ci abito per tutta l’estate e vado via in autunno, un po’ perché l’inverno rende la baita quasi impraticabile, un po’ perché lo sci non mi piace. Non nel senso che non mi diverte: ho imparato a sciare anch’io da bambino; ho riprovato una volta da grande scoprendo che sono ancora capace; ma qualcosa, nello sci di discesa, è contrario alla mia idea di rispetto per la montagna, incoerente con lo spirito con cui vivo lassù. Forse perché abitandoci vedo che cos’è una pista: per avere gli sciatori in una stagione sempre più breve, ormai ridotta a poche settimane tra gennaio e marzo, un versante della montagna è disboscato, spianato, percorso da condutture elettriche e idrauliche, sfigurato da impianti di risalita e cannoni per l’innevamento artificiale, cementificato da stazioni di partenza e d’arrivo, invaso da mezzi a motore. Ce la prendiamo con quelli che vanno in moto sui sentieri? Lo sci di discesa ha un impatto molto più violento sulla montagna. Non solo distrugge il paesaggio, ma consuma moltissima acqua, elettricità e gasolio. Vorrei perlomeno che gli sciatori lo sapessero. Perlomeno siamo consapevoli di quel che facciamo, poi possiamo decidere di farlo lo stesso (e prenderci le nostre responsabilità): lo sci di discesa è un modo antiecologico di andare in montagna.
Da suo abitante, conosco bene anche il rovescio della medaglia: Estoul sarebbe un paese abbandonato senza lo sci. Quei pochi fine settimana in cui, se c’è il sole, salgono migliaia di turisti per fare su e giù sulle nostre pistarelle, mantengono per tutto l’inverno trenta o quaranta persone. Tutti i miei amici in un modo o nell’altro lavorano con lo sci: i bigliettai, gli agenti di rinvio, i gattisti, gli addetti alla sicurezza e all’innevamento, i maestri di sci, i noleggiatori di materiali, i proprietari e i dipendenti di un bar, due ristoranti e due affittacamere. Credo di non conoscere nessuno che a Estoul non dipenda dallo sci. Forse solo Anna che ha ottant’anni, quattro mucche e un cane, lei sì starebbe lo stesso lassù senza gli sciatori.
Per cui il problema, oltre all’impatto dello sci, è il fatto che esista solo lo sci nelle nostre montagne spopolate di tutto il resto. E nel momento in cui mi oppongo ai progetti di nuove piste (ma parliamo anche di come rendere più ecologiche quelle vecchie), mi sento in dovere di immaginare un’altra economia possibile per il posto in cui abito. È uno dei grandi temi dei nostri tempi: come conciliare economia ed ecologia, rispetto della Terra e lavoro per l’uomo? Credo che cercare risposte ed esplorare possibilità sia il nostro compito di nuovi educatori, operatori culturali, imprenditori sociali della montagna. Ho scelto con cura queste parole che vengono dalla città, e che alla montagna sembrano estranee, perché penso che l’assenza di lavoro culturale e sociale faccia parte del suo impoverimento, e che proprio da qui si possa cominciare ad arricchirla e ripopolarla. Personalmente, insieme ad alcuni amici, ho fondato a Estoul un’associazione che organizza in estate un festival di arte, musica, e letteratura, e sto costruendo un rifugio alpino che vorrebbe diventare un presidio culturale d’alta quota. Ovvero un luogo in cui fare formazione (per esempio per i nuovi montanari o per chi vuole diventarlo), invitare i ragazzi delle scuole, ospitare artisti italiani e stranieri, proporre agli abitanti della valle un programma culturale e una sede in cui essi stessi possano partecipare alla vita associativa, e infine accogliere e far incontrare tra loro gli amanti della montagna. Che cosa c’entra tutto questo con l’economia? Io spero che c’entri, spero che sia un passo per portare alla montagna nuove idee, nuovi abitanti e nuovo lavoro, non pensandola più unicamente come luogo di divertimento e riposo, ma di rapporti sociali e produzione culturale. A me sembra che ne senta terribilmente la mancanza.
(fotografia di Loïc Seron)

venerdì 27 aprile 2018

CAMMINATORE DI PERIFERIA

Nessuno come chi ha un cane conosce i nostri quartieri di periferia. Li attraversiamo senza una meta per giorni e notti, sotto la pioggerella o il sole pallido o la foschia che avvolge i lampioni, e conosciamo ogni aiuola spartitraffico, ogni pezzetto di terra ai piedi di alberi malati, ogni prato spelacchiato al limitare dei parcheggi, perché è lì che i nostri cani ci portano, come profeti. Ci conducono alle piante infestanti cresciute nelle crepe dell'asfalto e alle pozzanghere chissà come fangose. Noi li seguiamo: siamo quelli che vagano all'alba tra le rotaie del tram, quelli che fumano sui marciapiedi di notte mentre un cane che non sembra di nessuno se ne va in giro. Il cane non è davvero nostro, noi non siamo i suoi padroni. Siamo amici silenziosi e nella solitudine ci facciamo compagnia.
Io sono un camminatore di città per pochi mesi all'anno ormai. Sono nato e cresciuto a Milano, ho fatto in tempo a vederla nel Novecento e a venticinque anni, in cerca di un posto in cui abitare, ho scelto la Bovisa perché le case costavano poco, ma anche perché credevo davvero nella periferia. Nelle sue possibilità e nella mia presenza lì, nel calore che ci saremmo scambiati a vicenda. Ricordo la meraviglia di girare per le strade ai primi tempi e scoprire cascine, orti, ferrovie, fabbri, falegnami, bocciofile, tutto quello che chi odia Milano non sa, perché non l'ha mai visto. Imparavo la storia del quartiere dalle sue fabbriche abbandonate, dai vecchi che fanno i girasoli nella piazza dove il tram arriva e torna indietro, dalle lapidi sui muri delle case. Le lapidi sono sempre lì, anche adesso che quasi tutto il resto è sparito. Durante i miei inverni in città torno a osservarle ogni sera, traccio il percorso con Lucky per salutarle tutte: le lapidi dei partigiani e dei deportati nei campi di concentramento, su ogni lapide una corona di fiori che ogni primavera viene messa nuova, e poi per un anno appassisce fino alla successiva Liberazione. Le lapidi dei morti in quartiere: Luca, studente, raggiunto da un proiettile mentre correva a prendere l'autobus; Nicolò, vigile urbano, trascinato sull'asfalto da un furgone a cui aveva chiesto i documenti; Maria Luisa, ragazza, violentata e uccisa nel parcheggio della stazione. Loro sono i santi della periferia, in quelle lapidi è custodita l'anima del quartiere.

Ma questa non è una storia d'amore, è piuttosto la storia di quel che succede molto tempo dopo che l'amore è finito. Se il nostro abitare assomiglia al crescere delle piante, negli ultimi quindici anni a Milano ho visto sradicare metodicamente ogni germoglio, ogni rampicante, ogni arbusto che avevamo curato – le associazioni, gli spazi autogestiti, le fabbriche occupate, tutti i modi spontanei e infestanti in cui le persone mettono radici nelle città, e le rendono rigogliose e vive – e calare al loro posto monoliti dalle superfici lisce e luccicanti, un'ondata di gelo. Così a un certo punto me ne sono andato per disamore. Sono andato in montagna e ogni volta che torno trovo un pezzo di questa nuova città in più, un pezzo di quella vecchia in meno. Ecco, è la storia di uno di questi pezzi che volevo raccontare.
So che è difficile da credere, ma alla Bovisa c'è un bosco. Lo chiamano la Goccia e si trova oltre la ferrovia, dentro quella che fu la Fabbrica del Gas, su quaranta ettari di terreno abbandonato dai primi anni Novanta. Siccome a Lucky d'inverno mancano i pascoli, i torrenti, le rocce della montagna in cui è nato, qualche volta andiamo di là a farci passare la nostalgia. Di sera intorno non c'è un'anima e possiamo entrare da uno dei tanti varchi nelle recinzioni, poi lui va a caccia di animali selvatici mentre io mi aggiro tra alberi di ogni specie. Platani, frassini, pioppi, tigli: ce ne sono migliaia, tra gli edifici industriali d'inizio Novecento e gli scheletri maestosi dei gasometri, insieme a tutto il sottobosco cresciuto in venticinque anni di abbandono. È incredibile come alla terra basti che l'uomo volti lo sguardo, lei non aspetta che una distrazione del suo grande nemico per tornare a germogliare e riprodursi: il bosco è popolato da volpi, lepri, ricci, serpenti, falchi, gufi. Siamo a cinque chilometri dal Duomo di Milano e Lucky insegue le lepri, e mentre lui corre finalmente libero io vado a vedere a che punto sono le ruspe. Vado a vedere quanto manca da vivere a questo nostro bosco segreto.
È davanti a uno scavo profondo un metro, interrotto, ripreso, già di nuovo invaso dalle erbe, che ripenso alla mia storia alla Bovisa e a come io la ritrovi tutta quanta in ciò che sta succedendo qui. Di chi è davvero la città, di chi è il quartiere che abitiamo, chi ne decide il destino? In teoria noi: buona parte di questo bosco è comunale, ovvero è proprietà degli abitanti di Milano, e in molti chiedono da tempo al Comune, in tutti i modi possibili, di farne un parco. Ma il Comune ha altri progetti che non ha mai sottoposto alla nostra approvazione: costruire dei palazzi che nessuno ha chiesto, di cui nessuno ha bisogno, perché il quartiere è già pieno di case vuote. Insomma è come se questo nostro bosco non fosse davvero nostro, o come se chi governa la città non fosse lì per noi, per realizzare quello che desideriamo.
Per non compierlo, questo dovere dei governanti, ci vuole una scusa: qui la scusa è che il terreno è avvelenato da un secolo di industria chimica e va bonificato, ecco perché le ruspe hanno già cominciato ad abbattere gli alberi e tirare su la terra per portarla via. Un metro di profondità per quaranta ettari di estensione fa quattrocentomila metri cubi: chi si prenderà, mi chiedo, tutta questa terra avvelenata di Milano? Come la ripuliranno dal veleno? E lasciarci crescere sopra un bosco, che già da un quarto di secolo ci affonda le radici, ne cava nutrimento, la ricopre di foglie e legno e vita animale, non era un modo più saggio, ecologico ed economico che distruggere tutto, rivoltare la terra, far partire migliaia di camion e lasciare una spianata? Ecco che cosa succederà dopo la bonifica: il nostro terreno sarà venduto a un costruttore ed edificato, mettendo un giardinetto tra un palazzo e l'altro per farci stare buoni. Questa è la storia della Bovisa nel nuovo secolo, si ripete ogni volta uguale, e non rende onore alla sua storia del secolo vecchio, né a quelli che qui hanno provato a coltivare pianticelle.

Ma ormai, come dicevo, io sono un suo abitante per metà. Questo è soltanto un ultimo bacio al mio quartiere spelacchiato. Sono contento che sia primavera e che tra un po' ce ne torniamo in montagna. Ciao, Milano.


mercoledì 21 marzo 2018

L'ULTIMO RECUPERANTE

Alla fine, dopo averlo incontrato tante volte tra Estoul e Milano, Stefano Torrione l'ho conosciuto camminando, in quel piccolo Tibet in terra nepalese che abbiamo attraversato insieme. Credo che venti giorni a quattromila metri possano valere, per un'amicizia, come venti settimane o mesi a livello del mare. Di solito Stefano chiudeva la lunga carovana di uomini e muli con le sue macchine al collo e un bigliettino in cui si era trascritto la frase in nepali: “Sono un fotografo italiano, posso fare una fotografia?”. Ma o la frase era sbagliata o Stefano sbagliava la pronuncia, fatto sta che nessuno lo capiva: i montanari lo scrutavano mentre lui si intestardiva a ripetere questa frase incomprensibile, finché aveva buttato via il bigliettino per affidarsi al suo vecchio collaudato attrezzo del mestiere, il suo sorriso da figlio di buona donna. Con quello lo facevano entrare in tutte le tende, in tutte le capanne e i monasteri. Così, quando il sole scendeva tra le montagne e il momento sarebbe stato perfetto per un tramonto sull'altipiano lui di solito non c'era, era da qualche parte con un pastore di yak o una battitrice d'orzo o una filatrice di lana. Mi ricordava i fotografi d'altri tempi, quelli di guerra e dei grandi reportage antropologici: i paesaggi gli interessavano poco, preferiva gli esseri umani, ed era nei volti e nei corpi che i suoi occhi cercavano la buona fotografia.


Da quattro anni però Stefano sta facendo un lavoro dove gli uomini non ci sono, o meglio non ci sono più. Prima c'erano, ci sono stati. I volti sono rimasti negli elmetti, nelle maschere antigas, i corpi nelle baracche e nelle trincee, i piedi nelle suole di scarponi che spuntano dai sassi. Erano soldati, anche se la parte da cui stavano adesso non importa più; un secolo fa hanno combattuto su quel fronte della Grande Guerra tutto fatto di creste e di cime, di forcelle e pareti delle Alpi. Cent'anni sono tanti per le cose degli uomini, però la montagna ha la memoria più lunga della pianura. Ancora adesso dai ghiacciai in ritiro spuntano cannoni, mortai, granate, filo spinato, baraccamenti, e dai buchi e dalle grotte dove i soldati si accampavano emergono le loro cose. Sono queste le tracce che Stefano è andato a cercare, non con elicotteri o fuoristrada ma salendo sulle sue gambe. Una volta quelli come lui si chiamavano recuperanti, andavano in montagna a raccogliere il ferro il rame e il piombo dei residuati bellici per guadagnarsi da vivere: Stefano invece non porta giù niente, fotografa e basta. In quattro anni ha messo insieme un archivio prezioso per capire, ricordare, raccontare che cosa è successo sulle nostre montagne un secolo fa.

Ora ne fa un libro autoprodotto che si può ordinare qui. È un gran bel progetto. Forza!


giovedì 22 febbraio 2018

SULL'USO DELLE FORESTE

"Strano che così poche persone vengano nei boschi a vedere come il pino vive e cresce sempre più in alto, sollevando le sue braccia sempreverdi alla luce - a vedere la sua perfetta riuscita. I più invece si accontentano di guardarlo sotto forma delle tavole portate al mercato, e considerano quello il suo vero destino. Ma il pino non è legname più di quanto lo sia l'uomo, ed essere trasformato in assi e case non è il suo impiego autentico e più elevato: non più di quanto lo sia per l'uomo essere abbattuto e trasformato in letame. C'è una legge più alta che riguarda il nostro rapporto con i pini quanto quello con gli uomini. Un pino abbattuto, un pino morto, non è un pino più di quanto il cadavere di un uomo sia un uomo. Si può dire che colui che ha scoperto i pregi dell'osso di balena e dell'olio di balena abbia scoperto il vero scopo della balena? O che colui che abbatte l'elefante per l'avorio abbia visto l'elefante? Questi sono utilizzi meschini e accidentali, proprio come se una razza più forte ci uccidesse allo scopo di fare bottoni e pifferi con le nostre ossa, perché ogni cosa può servire a uno scopo più vile oltre che a uno più elevato. Ogni creatura è migliore da viva che da morta, uomini e alci e alberi di pino, e colui che lo comprende appieno preferirà conservarne la vita anziché distruggerla."

(H.D. Thoreau, I boschi del Maine, 1864. Un contributo al dibattito sull'uso delle foreste: qui e qui due voci diverse in merito al recente testo di legge.)

foto di Loïc Seron

sabato 6 gennaio 2018

FIOCCA

Caro Mario, come fiocca. Facendo i conti, da Natale in poi, direi che ne è venuta più di un metro, e altrettanta ne prevedono nei prossimi giorni. Una settimana fa era neve ghiacciata, piccoli cristalli acuminati spinti qua e là da un vento gelido, di quella che ti frusta in faccia quando vai per strada; oggi che fa più caldo viene giù fitta, a fiocchi spessi, e si accumula a vista d'occhio. Benché io passi parte della mia vita in questa baita a duemila metri, devo confessarti che non ho un buon rapporto con la neve: mi fa sentire isolato, rende l'andare in paese difficile o a volte impossibile, e anche camminare nel bosco è faticoso, quando a ogni passo affondi fino al ginocchio. Così resto in casa. Penso ai selvatici rintanati sotto alle barme. Guardo dalla finestra gli abeti carichi, hanno spalle di monaci curvi nelle tonache ben chiuse, e i larici spogli e slanciati che sono fragili creature estive e a volte si schiantano sotto il peso della neve, e nel pomeriggio ascolto il rombo delle valanghe. Le valanghe, se tutto va bene, cadono nei punti che sappiamo, e anzi le aspettiamo quando nevica tanto e loro non sono ancora cadute: è meglio dopo che prima, quando sono sospese in bilico sui pendii; è meglio quando ormai ferme e assestate intasano i canaloni. Le conosciamo così bene che potremmo dare a ogni valanga un nome. Eppure quel rombo è angosciante lo stesso: assomiglia a un tuono, o a un crollo fragoroso sopra la testa. Anche quando sai cos'è, viene istintivo cercare riparo.


Però, caro Mario, sono contento per i miei amici che lavorano con la neve. Qui tutti, in un modo o nell'altro, dipendono da lei, perfino chi d'estate pascola le mucche e d'inverno vende il formaggio agli sciatori. Erano preoccupati, in novembre, perché dopo un anno di siccità le vasche dell'innevamento artificiale erano mezze vuote, e non si sarebbe potuto sparare a lungo. Ora invece sparare non serve più e il mio amico cannoniere passa spesso a trovarmi, in sella alla sua motoslitta, sfaccendato in queste notti in cui il cielo fa il lavoro al posto suo. Chi si è beccato gli straordinari sono i gattisti che la sera incontro al bar e che poi fanno su e giù fino all'alba, perché gli sciatori all'apertura degli impianti trovino le piste battute: una passa davanti a casa mia e così a letto, di notte, vengo investito dai fari della grande ruspa che passa rombando, e se per caso sono in piedi vado alla finestra a salutare. Non è un disturbo, anzi: così come tutta questa neve mi angoscia, il passaggio di qualche anima mi fa compagnia. I gattisti poi li conosco, d'estate uno fa il muratore e l'altro sale in alpeggio con le mucche. Se non fossero in servizio, li inviterei dentro per un bicchiere.

Da me si beve vino e niente acqua: dopo un anno senza pioggia non solo le vasche dell'innevamento sono vuote, ma pure la mia fonte si è prosciugata. L'acqua nella baita arriva, o meglio arrivava, con il sistema più semplice del mondo: un tubo che parte da una sorgente un centinaio di metri più a monte me la portava in casa. Qui di acqua ce n'è sempre stata, non per niente il nome del villaggio è Fontane, eppure l'altro giorno ho aperto il rubinetto in cucina e ne è scesa sempre meno, finché l'ultimo filo incerto ha lasciato il posto al verso gutturale dei tubi vuoti. Allora ho messo le ciaspole, ho preso la pala e ho risalito la valletta di Fontane fino al punto in cui si trova, o dovrebbe trovarsi, la sorgente che dà il nome al villaggio; ho scavato nella neve e ho scoperto che là sotto era tutto asciutto. Il mio tubo nero sporgeva triste nel solco del ruscello che, normalmente, scorre estate e inverno in mezzo al pascolo. Avrei potuto parlarci dentro e salutare qualcuno nel bagno di casa.

Caro Mario, in dieci anni di montagna ho imparato che in queste situazioni due cose non bisogna perdere, la calma e l'ironia. C'è del ridicolo nell'essere sommersi dalla neve e senza acqua. Mi sono ricordato di quel verso del Vecchio marinaio in cui il naufrago nell'oceano si lamenta della sete: “Acqua, acqua dappertutto, e non una goccia da bere!”. Naturalmente ho provato la soluzione più romantica, ma ho scoperto che sciogliere la neve sul fuoco non conviene per nulla: impiega molto tempo, consuma troppo combustibile, e di una pentola di neve fresca non resta che un terzo o un quarto d'acqua, che poi nemmeno si può bere. Così mi sono avventurato giù in paese e ho comprato due taniche da quindici litri, che ora riempio a una fontana e poi trascino su fino a casa, caricandomele sulla schiena e pensando ai miei portatori nepalesi di un paio di mesi fa. Di un'acqua così preziosa si riscopre il valore: ne basta una tazza per lavarsi i denti, una pentola per lavare i piatti, un piccolo secchio per lo scarico del bagno. Per fare la doccia chiederò ospitalità a qualche amico.


Ho un lucernario, sul tetto, grazie a cui riesco a immaginare che cosa si provi a essere una creatura che vive sotto la neve, come le arvicole di cui trovo le tane al disgelo. Sopra il lucernario un po' di neve si scioglie per il calore della casa, e io immagino che succeda lo stesso con il calore del terreno: così, anche sotto uno strato molto spesso di neve, si formano camere d'aria, bolle dalle strane forme, gallerie che seguono chissà quali linee del calore. Il soffitto di neve di queste camere diventa più chiaro, se per qualche ora il cielo dà tregua e il sole comincia a scaldare, e si arriva quasi a sperare che presto quel soffitto si buchi, e arrivi primavera. Ma poi comincia a nevicare di nuovo, il soffitto della camera si ispessisce, sotto diventa buio. Allora le piccole arvicole e gli scrittori con il naso in su si rassegnano: sarà ancora lungo l'inverno.

Caro Mario, è cominciato l'anno 2018 e con questo sono dieci che non ci sei più. Mi manchi moltissimo. Vorrei leggere le notizie dalla tua montagna, quello che pensi guardando il bosco, quello che scopri ancora alla tua età. Vorrei leggere degli inverni lontani che la neve ti fa tornare in mente, dei tuoi sentieri che nasconde alla vista, delle storie che ti racconta al mattino, rivelando passaggi notturni ai tuoi occhi da cacciatore. Qui da me viene solo la volpe, ogni tanto, a vedere se nella ciotola del cane è rimasto qualche avanzo. Dicono che siano tornati i lupi, io però non li ho ancora visti e non ci tengo, se devo essere sincero. Fuori fiocca, caro Mario, e io bevo un bicchiere alla tua salute e penso a tutte le cisterne e le vasche segrete della montagna, alle grotte gorgoglianti, ai torrenti sotterranei, a quel che c'è prima delle sorgenti: a tutti questi pozzi che un anno senza pioggia ha lasciato vuoti. Penso che la neve di oggi sarà l'acqua di domani. Benedetta neve.