domenica 10 marzo 2013

STORIA DI UNA SCHIENA

     (Questo racconto è uscito ieri sulla Repubblica. L'ho scritto l'otto marzo ed è dedicato a Grace Paley.)

     Una mattina giocherellavo con la sua schiena. Parlavamo di vecchi amori. Anzi no: lei parlava, io camminavo con le dita su e giù per la sua spina dorsale. Il fatto è che ho sempre pensato che i vecchi amori vadano lasciati dove stanno, non è il caso di svegliarli dalla tomba e portarli a fare un giro. Ma alle ragazze, chissà perché, l’argomento piace da impazzire.
     Più tardi scrissi: Era una schiena color caffelatte, e tutta ossa. Vedeva solo le pance degli uomini e la fine delle cose. Si domandava sempre come fosse di là, dove il mondo ti veniva incontro invece di andarsene via.
    Ti sei offeso, disse, quando le mostrai quelle poche righe.
    Ma no, risposi.
    Le pance degli uomini?, disse lei. Questa non te la perdono. Schiene, pance, ossa, parli di amore e non ci metti nemmeno un bacio.
     È vero che a me piacciono le ossa - costole, vertebre, gomiti, ginocchia, anche - ma mi piacciono pure i baci. Tornai in cucina. Mi venne in mente la frase di Dorothy Parker sulle sei e mezza di sera a New York. Secondo te qual è l’ora più triste della giornata?, le chiesi ad alta voce. Come?, domandò lei dal letto, immersa in qualche Grande Romanzo Americano. L’ora più triste, ripetei.
     Ma che ne so, rispose. Forse le cinque meno dieci.
     Le cinque meno dieci erano l’ora più triste, quella in cui tornavano i fantasmi del passato. La schiena sussultava suo malgrado: ascoltava i singhiozzi soffocati dal cuscino, contemplava il soffitto e ricordava. Lei una volta l’aveva visto, il futuro. Fuori da un bar, a notte fonda, un uomo l’aveva afferrata per i fianchi e costretta a voltarsi, e lì, durante quel bacio da ubriachi, la schiena aveva finalmente potuto guardare avanti. Il futuro era una strada illuminata dai lampioni, scintillante di pioggia, indimenticabile.
     Ecco fatto. Però, ora che il bacio c’era, avevo pure scoperto come finiva la storia. Mi sa che muore, dissi tornando di là. Già mi immaginavo la schiena sdraiata su un prato. La mia schiena color caffelatte si sarebbe addormentata guardando gli uccelli e le nuvole, oppure le formiche e i fiori?
     Lei sbuffò, posò il suo libro sul cuscino, prese il foglio che le porgevo e leggendolo si fece tutta seria.
     Magari non muore, disse alla fine.
     Già, e come?, chiesi io. Una schiena così nostalgica.
     Magari incontra una persona gentile, disse lei. Sai com’è, a volte basta una gentilezza a cambiarti la giornata. Mi restituì quell'inutile pezzo di carta e si rigirò nel letto, tirandosi la coperta sulla testa.
     Gentilezza, gentilezza, pensai seduto al tavolo. Non mi veniva in mente niente.
     Poi sentii un impellente bisogno di chiedere scusa. Vale come gentilezza? Scusa per questo racconto, scusa per l’incapacità di ascoltare, scusa per come qualsiasi ricordo in cui non ci sono mi offende, scusa per quando le provo tutte per farti sentire in colpa. Vorrei essere quello dei baci e non delle ossa. Lasciai il racconto sul tavolo e andai di là per dirglielo, ma la trovai che dormiva. Distesa sulla pancia, con un braccio a coprirle gli occhi dalla luce del giorno, il gatto raggomitolato sulla schiena.