venerdì 27 luglio 2012

LETTERE DALL'AFRICA

   Quassù in montagna leggo Karen Blixen. Mi sento un po’ più al caldo e meno solo, scoprendo di condividere con qualcuno la percezione del mondo. Non parlo del modo in cui lo pensi, ma del modo in cui lo senti: dell’effetto che il mondo ti fa sulla pelle. A volte Tanne mi guarda dalla pagina e chiede: anche a te manca il respiro quando stai tra la gente? Provi il mio stesso piacere acuto in mezzo al vento forte, e soffri di crudeltà che gli altri non vedono nemmeno? È un po’ come funzioniamo con la luce: materiali diversi la assorbono in modi diversi, così all’occhio umano appaiono di colori diversi. La luce del mondo ci colpisce tutti quanti, ma ognuno di noi ne trattiene una parte a seconda di com’è fatto, e quella che respinge è il suo colore (per questo le persone nere non assorbono meno delle altre, anzi vengono colpite da tutto; sono le persone bianche a non essere sfiorate dal mondo). A volte, per un colpo di fortuna, scopri uno scrittore del tuo stesso materiale, e leggendo lui impari un po’ meglio come sei fatto tu. 

   Sembrerebbe una pasta assai diversa da quella dei miei amati americani, ma non è così. Hemingway, che avrebbe preferito bere acqua piuttosto che spendere elogi per i suoi contemporanei, dichiarò che La mia Africa era uno dei libri migliori che avesse mai letto. La stessa cosa disse Salinger per bocca del suo ragazzo ribelle, Holden Caulfield, un altro a cui non piaceva mai niente: eppure non riusciva a staccarsi da quel libro preso per sbaglio in biblioteca. Carver aveva copiato una frase di Tanne su un foglio e l’aveva appesa al muro: “Scrivo un po’ ogni giorno, senza speranza e senza disperazione”. Un habitus che anche a lui stava a pennello, nonostante tutte le taglie di differenza tra un’eterea nobildonna danese e un ex alcolista, ex disoccupato, ex buono a nulla come Ray. Invece avevano in comune un bisogno, quello di scrivere per salvarsi la vita. Tanne cominciò a quarantasei anni, dopo avere perso la sua terra, seppellito l’uomo che amava, fatto ritorno alla casa della madre e a un mondo in cui non c’era più nulla per lei. Aveva preso in considerazione l’idea di morire e credo sia stata davvero vicina a farlo, lucidamente, direi quasi saggiamente; poi decise di vivere per raccontare. 
 
   Il mio preferito tra i suoi libri non è La mia Africa, ma quello che l’ha generato: Lettere dall’Africa. Si tratta dell’epistolario tra Tanne, la madre Ingeborg e il fratello Thomas durante la permanenza in Kenya. Trovo che La mia Africa, scritto sei anni dopo il ritorno in Danimarca, sia un capolavoro sulla nostalgia: su come si possa vivere nella memoria, tenere in vita le cose amate, rinnovarne l’incanto raccontandole. Ma nella nostalgia si stempera il dolore e lo stesso accade con le tinte forti dell’euforia, lo sconforto, la rabbia, la sorpresa di un incontro, la desolazione della perdita. Sono i colori di questa bellissima raccolta di lettere. Una delle ultime è del 12 ottobre 1930, alla madre, poco dopo la scoperta del volo: “Dubito davvero che per me possa esistere una felicità più grande che volare sulle pianure d’Africa e le colline Ngong con Denys. Qui devo ammettere che Dio ha infinitamente più fantasia di noi, cosa di cui non mi sembra dia gran prova nella vita quotidiana. Perché io non sarei mai stata capace d’inventare né l’Africa né Denys - forse il volo, che certo è un comune desiderio umano, e una volta non eravamo uccelli? - e ora riesco a capire quanto sia divertente essere un angelo. Immagina enormi distese infinite sotto di te, con branchi di zebre, gnu, giraffe, e lunghe catene di montagne verdi, e luce e ombra che si alternano ovunque, e in alto, al di sopra di tutto questo, la tua stessa velocità!” 

   La successiva fu spedita al fratello il 17 marzo 1931, quando Tanne aveva già perso la piantagione e stava vendendo i mobili di casa, due mesi prima che Denys si schiantasse con il suo aeroplano, quattro mesi prima di imbarcarsi per l’ultima volta da Mombasa: “Di tutti gli idioti che ho incontrato in vita mia - e Dio solo sa che non sono pochi - credo di essere stata la più grande. Ma mi ha impedito di cadere a pezzi un indomabile amore per la grandezza, che è stato il mio demone. E ho vissuto una quantità infinita di cose meravigliose. Anche se con altri l’Africa è stata più clemente, io credo fermamente di essere uno dei suoi figli prediletti. Un gran mondo di poesia mi si è dischiuso quaggiù, e mi ha fatta entrare, e io l’ho amato. Ho guardato i leoni negli occhi e ho dormito sotto la Croce del Sud, ho visto le grandi praterie in fiamme e le ho viste coperte di tenera erba verde dopo la pioggia, sono stata amica di Somali, Kikuyu e Masai, ho volato sopra le colline Ngong, e credo che la mia casa qui sia stata un rifugio per i viandanti e i malati, e per gli indigeni il nucleo di uno spirito amichevole.”

   Io quella casa l’ho visitata qualche anno fa: ora è un museo e si trova nella periferia di Nairobi. Ma gli alberi del giardino sono quelli che aveva piantato lei, e all’orizzonte si vedono le colline dove è sepolto Denys Finch-Hatton. Sulla lapide di lui c’è l’ultimo verso del suo poema preferito, la Ballata del vecchio marinaio: “Avrà pregato bene chi ha amato bene, sia esso uomo, uccello o bestia”. Di lei non resta una tomba ma una casa, che a me pare un modo più bello di essere ricordata. Quella zona della città sorge sui terreni dell’antica piantagione di caffè, la Karen Coffee Company, e solo per questo si chiama Karen, ma è come se qualcuno avesse voluto pronunciare il suo nome a voce alta, esaudire la sua preghiera: “Io conosco il canto dell’Africa, della giraffa e della luna nuova distesa sul suo dorso, degli aratri nei campi e dei volti sudati delle raccoglitrici di caffè, ma l’Africa conosce il mio canto? L’aria sulla pianura fremerà di un colore che ho avuto su di me, o i bambini inventeranno un gioco nel quale ci sia il mio nome? La luna piena getterà un’ombra che mi assomigli sulla ghiaia del viale, o le aquile sulle colline Ngong guarderanno se ci sono?”

Karen Blixen, Lettere dall'Africa 1914-1931
traduzione di Bruno Berni, Adelphi editore