mercoledì 1 ottobre 2008

ALCOL

Negli ultimi tempi ho letto due libri simili: John Barleycorn di Jack London (fuori catalogo da anni, è stato ripubblicato adesso dalla UTET) e Aspro e dolce di Mauro Corona (Oscar Mondadori). Se qualcuno trovasse il paragone stravagante, può aiutare un confronto tra le due biografie: Jack London ha fatto lo strillone di giornali, il pescatore clandestino d’ostriche, il lavandaio, il cacciatore di foche, il contadino, il marinaio, il cercatore d’oro. Mauro Corona è stato muratore, boscaiolo, cavatore di marmo, bracconiere, alpinista e scultore del legno. Sono entrambi autodidatti. A un certo punto della loro vita, chissà per quale richiamo arcaico o volontà di ribellione, si sono messi a scrivere: e siccome raccontavano storie che conoscevano bene, e siccome le raccontavano con le parole giuste, sono stati molto letti e molto amati. C’è chi li odia entrambi, e posso capire perché. Sono uomini in cui è difficile distinguere lo scrittore e il personaggio. Si sono costruiti addosso corazze molto eroiche. Eppure, se volete sapere qualcosa dell’alcol, leggetevi questi due libri.

Jack London ha cominciato a cinque anni, portando da bere al padre che lavorava nei campi. Mauro Corona a nove, nella cucina del vecchio che abitava dietro casa sua. Un secchio di birra tiepida e una scodella di Raboso - vinaccio duro e denso, che lasciava le labbra viola, come la crosta sul fondo della tazza mai lavata. Da quella prima bevuta e passando per le sbronze giovanili, scendendo e salendo di gradazione, attraverso le risse, gli incidenti, le avventure sessuali, le follie della grappa e del whisky, gli amici morti, le mille mattine dopo, fino al civile, radicato alcolismo della maturità, questi libri sono, né più né meno, le autobiografie di due ubriaconi. Attraversano le stesse paure e le stesse crisi depressive, subiscono il corteggiamento della Signora e scovano sistemi simili per starne lontani: andarsene via da soli, in alta montagna o in alto mare, per giorni e notti. Cercare di fare la pace con quella cosa. Tuffare i piedi nell’acqua di un torrente, o il corpo nell’oceano, come se ci fosse un demone da annegare, una combustione interna da spegnere nell’acqua ghiacciata. L’alcol brucia. Brucia anche il cervello, tra le altre cose. Non risparmia nemmeno i cervelli meravigliosi, che non sopportando tanta meraviglia ne sono irresistibilmente attratti.

Come mi guardi, vecchio, con gli occhi lucidi e le labbra screpolate, la tua febbre da spirito guerriero ubriaco. John Barleycorn (chicco d’orzo) in America è il soprannome dell’alcol - o almeno lo era all’inizio del Novecento. Noi forse lo potremmo chiamare acino d’uva. I miei scrittori preferiti, in una rimpatriata dall’aldilà, prosciugherebbero nel giro di una notte la cantina del Jack Daniel’s, quel posto in Tennessee con i vecchi che tirano i tappi di sughero: Jack London, William Faulkner, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Tennessee Williams, John Steinbeck, Dorothy Parker, Carson McCullers, Truman Capote, John O’Hara, Richard Yates, Jack Kerouac, John Cheever, Charles Bukowski, Raymond Carver. Tutti ubriaconi. L’elenco completo compare in un libro di Tom Dardis mai uscito in Italia, The Thirsty Muse (La Musa Assetata). Per qualche motivo, con poche eccezioni, ne stanno fuori le donne e gli scrittori ebrei. Immagino abbia a che fare con l’istinto di conservazione. Che cos’altro posso dire? Lascio l’ultima parola a Jack London nella traduzione di Luciano Bianciardi, un altro che ne ha vuotate parecchie di bottiglie, e le ha pagate fino all’ultima goccia.

***

Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. E mai sono meno amico che quando l’ho vicino e più sembro amico suo. È il re dei bugiardi. È il più onesto degli uomini sinceri. È l’augusto compagno con cui si cammina a braccetto degli dei. È in combutta con la Signora Senza Naso. La sua via porta alla verità nuda, e alla morte. Ti dà vista chiara e sogni torbidi. È nemico della vita, e maestro di saggezza oltre la visione della vita. È un assassino con la mano rossa, e massacra la gioventù.

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Jack London, John Barleycorn

(traduzione di Luciano Bianciardi, UTET Libreria)

sabato 27 settembre 2008

LA PERSECUZIONE DEL RIGORISTA

E poi, visto che ho riletto L'amore e altre forme d'odio e mi è piaciuto così tanto, sono andato a cercarmi l'ultimo libro di Luca Ricci, La persecuzione del rigorista. Sempre Einaudi, questa volta un romanzo breve (ma Luca, in segreto, mi ha detto che posso considerarlo un racconto lungo. Possiede anche lui questa umiltà piena di orgoglio dello scrittore di racconti). Ho fatto una recensione al libro per Radio Popolare, ed eccola qui.

Un prete giovane e di buona famiglia, destinato alla carriera vaticana, viene mandato in punizione in una piccola parrocchia di campagna. È un paese spopolato dell’Appennino, in cui l’inverno del protagonista trascorre tra le confessioni delle fedeli più anziane e bigotte, l’assistenza a un ragazzo con problemi mentali, il rifornimento di chierichetti al vecchio parroco dai dubbi gusti sessuali. Il giovane prete è arrogante, disgustato da una vita di provincia impregnata di mediocrità e televisione. Eppure un giorno, accompagnando il ragazzo disabile agli allenamenti, il suo occhio acuminato cade sull’attaccante della squadra locale. Figlio di contadini, calciatore senza talento, l’uomo ha due qualità che lo attraggono: sembra essere un infallibile rigorista, ed è del tutto indifferente al proprio dono. Tira serie di rigori per niente eleganti, calciando rasoterra e di punta, eppure non sbaglia mai. Non manifesta tensione prima di tirare e non festeggia dopo che ha segnato. Il rigore è il suo gesto perfetto, la sua opera d’arte. Per il prete, l’esistenza di un uomo del genere diventa un’ossessione. È l’incontro con l’opposto da sé: l’opposto dell’intelligenza, del desiderio, della rabbiosa imperfezione della natura umana. È l’insopportabile manifestazione della grazia davanti a qualcuno che ha smesso di credere in Dio, o se n’è dimenticato. Come Salieri con Mozart nel film di Milos Forman, il protagonista comincia ad assistere in segreto a tutti gli allenamenti, a tutte le partite. Un rigore dopo l’altro. "Era come vedere un calcio di rigore per la prima volta”, dice. “Un calcio di rigore originario, anteriore all’invenzione dei calci di rigore. Mi dava qualcosa di cui avevo un bisogno forsennato, qualcosa che da troppo tempo avevo deriso dentro di me”. Alla fine, proprio come Salieri, il prete elabora il suo diabolico piano. Distruggere la perfezione. Sedurre il rigorista, ventilare l’ingaggio in una grande squadra grazie alle proprie amicizie influenti, vincere la sua totale indifferenza alla fama e ai soldi, trascinandolo giù a consumarsi nell’ambizione. Corrompere l’innocenza, inquinare la purezza. Dichiarare guerra a Dio e all’assurda forma in cui ha deciso di manifestarsi - un infallibile e inutilissimo rigorista di provincia.

L’aggettivo più usato per La persecuzione del rigorista, nelle recensioni apparse sulla stampa e in rete, è disturbante, come disturba uno specchio imprevisto, o qualcuno che ci guardava quando non pensavamo di essere osservati, e come sempre dovrebbe disturbare la letteratura. Accantonato il problema della fede, il prete di Ricci assolve in un modo tutto suo al compito di pastore d’anime: conosce i segreti degli uomini, li manovra usando le loro debolezze, li lusinga e li minaccia per condurli alla propria volontà, li domina come un gregge. Sembra un gioco, e invece è la pratica del potere: materia torbida che riempie l’involucro dei rapporti umani.

martedì 23 settembre 2008

L'AMORE E ALTRE FORME D'ODIO

Tanto per cambiare discorso, e passare dagli scrittori morti a quelli vivi, una decina di giorni fa ho conosciuto Luca Ricci. È un omone di quelli che ti immagini sempre con la camicia a scacchi, ha l’accento toscano e il vizio di dormire fino a tardi la mattina (dividevamo la stanza durante un seminario in Romagna, e ogni volta dovevo tirarlo giù dal letto gridando: Luca, lo scrittore si vede dal mattino!). Invece, pur essendo uno scrittore pomeridiano, a 34 anni Luca ha già pubblicato 4 libri. Io ne avevo letto solo uno, L’amore e altre forme d’odio, uscito per Einaudi un paio d’anni fa e vincitore del Premio Chiara 2007. È una raccolta di racconti che ricorda molto il lavoro di John Cheever. Coppie borghesi, villette a schiera, matrimoni che procedono stanchi ed eventi minacciosi che si insinuano sotto la cappa di conformismo, e a volte riescono a far saltare in aria la baracca. In più, nel libro, Luca coltiva le sue personali ossessioni. Tutti i racconti sono divisi in quattro paragrafi, a cui credo lui attribuisca una funzione narratologica (che a me sfugge). Tutti i racconti sono privi di nomi - l’io narrante è il marito, e gli altri personaggi sono mia moglie, mia figlia, il mio vicino. Tutti i racconti, in questo modo, sembrano variazioni di un unico tema: un uomo, una donna, un figlio, una casa, un ordine apparente che sta per andare a rotoli. L’effetto è potente, distruttivo. Luca la sa lunga sull’arte del racconto. Ecco le prove.

***

ANCORA DUE MINUTI

Mia moglie ci raggiunse quasi subito. Io non sapevo più che dire. Era come se mi fossi mangiato la lingua. Mi dette un’occhiata che sulle prime non seppi interpretare. Ma c’era gioia nei suoi occhi, di questo ero sicuro.

- Prendete quello che vi pare.

Le ragazze rimasero sedute. Quasi certamente qualcuna di loro aveva già visto qualcosa che le sarebbe piaciuto, ma nessuna si azzardò a dire niente.

- Avanti. C’è tanta di quella roba qui dentro.

Per prima cosa tirai giù dagli scaffali i peluche. Orsetti, giraffe e maialini. Poi mia moglie aprì l’armadio. Le ragazze impazzirono. Cominciarono a staccare dalle grucce vestiti e giacche e camicette. Confrontavano le misure: quello che non andava bene a una andava bene all’altra.

- Ma avete una figlia?

- La roba era di nostra figlia, sì.

La frenesia delle ragazze si tramutò subito in un dubbio. Mi avvicinai a mia moglie con fare scherzoso.

- Così crederanno che sia morta.

Mia moglie si mise a ridere, mentre le ragazze ci fissavano. Avevano perfino smesso di passarsi i vestiti.

- Non preoccupatevi. Nostra figlia sta benissimo. Si è dovuta trasferire dopo le prime udienze.

- E non li vuole più questi vestiti?

- Ormai porta solo tailleur.

- Davvero? Allora possiamo prenderli?

- Ma certo. Anche i peluche.

- Non sono ricordi d’infanzia?

- Li ha sempre odiati. Più che altro sono ricordi dei suoi genitori.

A poco a poco le ragazze ripresero coraggio. Infilarono le cinture nei pantaloni e i braccialetti nei polsi. Liberarono i buchi dai vecchi orecchini e chiesero a gran voce un calzascarpe.

Mettemmo le cose che le ragazze avevano scelto dentro alcune buste di plastica, e le accatastammo in corridoio.

- Forse è meglio andare.

- È tardi?

- Non vogliamo disturbare troppo.

Mia moglie, che fino a quel momento mi era sembrata padrona della situazione, ebbe un piccolo sussulto. Si guardò intorno.

- Rimanete altri due minuti. Non abbiamo ancora visto quei cassetti.

Le ragazze si voltarono in direzione del mobile che mia moglie stava indicando. Sapevo che c’era la biancheria e allora mi feci da parte. Cominciarono con i collant. Una delle ragazze mi rivolse uno sguardo più insistito delle altre. Socchiusi la porta e mi ritrovai in corridoio insieme alle buste di plastica. Incominciai a origliare.

- Sono tutti coordinati.

- Queste mutandine con cosa vanno?

- Con questo reggiseno a balconcino, vedi?

Mia moglie continuava a parlare ma le ragazze erano meno partecipi. Sentivo solo la voce di mia moglie e un frusciare di stoffe.

- Guardate questa sottoveste di seta.

- È bella. Però...

- Però?

- Sono indumenti troppo personali, troppo intimi.

- Ma no. Meglio a voi che in un cassetto.

- Non viene proprio mai vostra figlia?

- Ogni tanto. Ogni tanto mi compare anche in sogno.

Accostai l’orecchio alla porta per sentire meglio. Mia moglie tirò fuori tutto quel che rimaneva. Una delle ragazze se ne uscì con una risata nervosa. Così no, non l’avrebbero bevuta.

***

Luca Ricci, L'amore e altre forme d'odio, Einaudi 2006

lunedì 15 settembre 2008

STOP WRITING

Ho avuto pensieri strani alla notizia della morte di David Foster Wallace. Il primo riguarda il metodo che ha scelto: l’impiccagione è una forma di suicidio molto razionale. Richiede intelligenza. Non è come spararsi un colpo in testa, né inghiottire una manciata di pastiglie, né fare un passo nel vuoto: non è questione di un momento di follia o disperazione. Bisogna trovare la corda (andare nel ripostiglio, frugare tra le scatole). Bisogna capire dove appendere il cappio (non è che tutti i soffitti abbiano una trave sporgente). Bisogna ricordarsi il nodo scorsoio (l’ultima volta l’abbiamo fatto da bambini). Insomma è un gesto che contiene una storia: sarà per questo?

(E quando hai scritto l’ultima riga, messo l’ultimo punto in fondo all’ultima frase, l’avrai saputo che erano gli ultimi? C’erano idee che hai lasciato lì, cose che ormai era troppo tardi per scrivere? E poi, sul tuo sgabello, un attimo prima di calciarlo via, da qualche parte della tua mente sprofondata nelle tenebre sarà comparsa quella lista. Virginia Woolf: acqua. Ernest Hemingway: fucile. Vladimir Majakovskij: pistola. Yukio Mishima: spada. Emilio Salgari: rasoio. Cesare Pavese: sonniferi. Sylvia Plath: gas. Da domani ci sarà un’altra voce nell’elenco. David Foster Wallace: cappio. Da domani tutto quello che hai scritto, i saggi sulla matematica dell’infinito, il romanzo da mille pagine incendiarie, quei tuoi racconti pieni di ragazzini, diventeranno un unico, lunghissimo biglietto d’addio.)

Scrittori suicidi. Sarà colpa della scrittura o eri già segnato prima, e ti sei messo a scrivere soltanto per ritardare quel momento? Io ho pensato che non ne so niente. Chi potrebbe avere questa presunzione, credere di sapere che cosa ti è successo? Poi ho pensato che invece lo so, perfettamente.

***

È TUTTO VERDE

Lei dice non m’importa se mi credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente. Quando è la verità si fa in quattro per cercare di farti credere a quello che dice. Perciò sento di non avere dubbi.
Si rasserena e guarda dall’altra parte, lontano, ha l’aria furba con la sigaretta sotto la luce che entra dalla finestra bagnata, e io non so cosa mi sento di dire.
Dico Mayfly, con te non so più cosa fare o cosa dire o cosa credere. Ma ci sono delle cose che so per certe. So che io sto diventando vecchio e tu no. E che ti do tutto quello che ho da darti, con le mani e con il cuore. Tutto quello che ho dentro di me l’ho dato a te. Tengo duro e lavoro sodo ogni giorno. Ho fatto di te l’unica ragione che ho per fare quello che faccio sempre. Ho cercato di costruire una casa per te, una casa di cui facessi parte, e che fosse una bella casa.
Mi rassereno anch’io e getto il fiammifero nel lavandino insieme ad altri fiammiferi, piatti, una spugna e cose del genere.
Dico Mayfly il mio cuore ha fatto il giro del mondo e ritorno per te ma ho quarantotto anni. È ora che la smetto di lasciarmi semplicemente trascinare dalle cose. Devo usare quel po’ di tempo che ancora mi resta per cercare di sistemare tutto e stare bene. Devo provare a stare come ho bisogno di stare. In me ci sono delle esigenze che tu non riesci neanche più a vedere, perché ci sono troppe esigenze tue di mezzo.
Lei non dice nulla e io guardo la sua finestra e sento che lei sa che io so, e seduta sul mio divano fa un movimento. Ripiega le gambe sotto di sé, ha un paio di pantaloncini.
Dico in fondo non mi importa di quello che ho visto o credo di aver visto. Non è più quello il punto. So che io sto diventando vecchio e tu no. Ma ora mi sento come se ci fosse tutto me stesso che va verso di te e in cambio non mi viene più niente.
Ha i capelli tirati su con un fermaglio e delle forcine e si tiene il mento con la mano, è mattina presto, sembra che stia sognando rivolta verso la luce pulita che entra dalla finestra bagnata sopra il mio divano.
È tutto verde, dice. Guarda come è tutto verde Mitch. Come fai a dire di provare certe cose quando fuori è tutto così verde.
La finestra sopra il lavello del mio cucinino è stata ripulita dal violento acquazzone di stanotte e ora è una mattina di sole, è ancora presto, e fuori c’è un casino di verde. Gli alberi sono verdi e quel po’ d’erba che c’è oltre i dossi artificiali è verde e liscia. Ma non è tutto quanto verde. Le altre roulotte non sono verdi e il mio tavolino lì fuori con le pozzanghere allineate e le lattine di birra e le cicche che galleggiano nel portacenere non è verde, né il mio furgone, o la ghiaia della piazzola, o il triciclo che sta rovesciato su un fianco sotto un filo per il bucato senza bucato accanto alla roulotte vicina, dove c’è uno che ha fatto dei bambini.
È tutto verde sta dicendo lei. Lo sta sussurrando e il sussurro non è più rivolto a me, lo so.
Getto la sigaretta e volto le spalle al mattino con il sapore di qualcosa di vero in bocca. Mi volto verso di lei che sta sul divano in piena luce.
Da dov’è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c’è qualcosa in me che non si riesce a chiudere, nel guardarla. Mayfly ha un corpo. È lei la mia mattina. Dite il suo nome.

***

David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax)

giovedì 21 agosto 2008

LA RAGAZZA INTERROTTA

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere. (Franco Basaglia)

Sono passati 30 anni dall'uscita della legge 180, che nel 1978 impose la chiusura dei manicomi in Italia, e io festeggio la legge Basaglia con la lettura di due libri: Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo, e Susanna Kaysen, La ragazza interrotta. Del primo c’è poco da dire. Grande romanzo. Anche dal secondo è stato tratto un film, Ragazze interrotte di James Mangold, con Winona Ryder e Angelina Jolie, del 1999. È il diario di Susanna Kaysen, diciottenne dell’alta borghesia di Boston che tra il ’67 e il ’69 passò due anni in un manicomio di lusso, il McLean Hospital, famoso per aver ospitato gente come Robert Lowell e Sylvia Plath. Per l’estrazione sociale delle pazienti, e la retta che i loro genitori pagano, qui non ci sono camicie di forza né lobotomie, ma solo quintali di psicofarmaci e qualche sana seduta di elettroshock. Le ragazze che Susanna incontra in clinica sono depresse, bulimiche, paranoiche, bugiarde patologiche, affette da sindrome borderline. Sono dipendenti da sonniferi e lassativi. Dopo due anni saranno le sue migliori amiche.

Il titolo è tratto dal quadro preferito di Susanna: Vermeer, Ragazza interrotta mentre suona. Vedendolo al Frick Museum, a diciassette anni, le era sembrato che la ragazza volesse attirare la sua attenzione, metterla in guardia da un pericolo. Era la malattia, o qualunque cosa fosse, che stava per arrivare.

***

Avevo dei problemi con i motivi geometrici. Tappeti orientali, pavimenti piastrellati, tende stampate, cose di questo genere. Con i supermercati era particolarmente dura, per via dei lunghi e ipnotici corridoi a scacchi. Quando guardavo queste cose, al loro interno ne vedevo altre. La realtà si stava facendo troppo densa.

Vedevano tutti quella roba e facevano finta di nulla? La pazzia era solo questione di smettere di fingere? Cos’è che non andava nelle persone che non vedevano certe cose? Erano cieche, per caso?

Negare era la mia ambizione. Il mondo, denso o vuoto che fosse, provocava in me soltanto negazioni. Quando avrei dovuto stare sveglia dormivo, quando avrei dovuto parlare tacevo, quando mi offrivano qualcosa di piacevole lo rifiutavo. Tutte le mie armi - fame, sete, solitudine, noia e paura - erano puntate sul mio nemico: il mondo. Naturalmente al mondo non importava niente di loro, e loro infastidivano me, ma dalle mie sofferenze traevo una macabra soddisfazione. Dimostravano la mia esistenza. Sembrava che tutta la mia integrità consistesse nel dire no.

***

Susanna Kaysen, La ragazza interrotta, Corbaccio

(Traduzione collettiva della Scuola Europea di Traduzione Letteraria)

giovedì 24 luglio 2008

WALTER TEVIS

Mentre si addestra nella nobile arte della Pesca a Mosca, cullato dal ritmo in quattro tempi e dal sogno di una trota iridea, il vecchio Capitano medita sui suoi libri preferiti. I suoi cari, vecchi scrittori americani. I suoi scrittori pescatori. Certe volte si chiede come mai la montagna in letteratura sia cantata così poco: Moby Dick, La linea d’ombra, Il vecchio e il mare - perché non c’è niente del genere sulla montagna? I libri di montagna sono libri di guerra o di alpinismo. Niente a che vedere con quello che sento io adesso. O forse è colpa della geografia americana: chissà che cosa avrebbe scritto il vecchio London, se fosse nato e cresciuto sulle sponde di questo mio torrente.

E mentre pesco e medito, e mentre la scrittura prende forma in una mente dotata di corpo, e in un corpo per metà a mollo nell’acqua ghiacciata, succede una coincidenza. Ieri stavo leggendo Lo spaccone, il romanzo da cui poi è stato tratto quel grande film con Paul Newman, e oggi scopro che il mio amico Guillermo ha appena letto l’altro capolavoro di Walter Tevis, La regina degli scacchi. I due libri sono gemelli. Il primo è la storia di Eddie Felson e del suo talento nel gioco del biliardo, il secondo è la storia di Beth Harmon e del suo talento nel gioco degli scacchi. Tutt’e due, Eddie e Beth, sono capaci di vivere soltanto all’interno di quel quadrilatero. Tutt’e due hanno un problema con il genere umano e con l’alcol. Per tutt’e due il talento si rivela una maledizione: perché ne sono divorati, perché in nome del talento rinunciano alla propria esistenza. Donne, uomini, lavori e luoghi, passioni e rivoluzioni: tutto quello che ti può capitare nella vita. Niente. Per Eddie e Beth ci sono solo il tavolo da biliardo e la scacchiera. La felicità e il dolore esistono solo lì dentro. Poi ci sono lo scotch e il bourbon, e la birra per quando si ha la gola secca la mattina. Giusto così. Non ti viene data un’ossessione senza lo strumento adatto a spegnerla, almeno ogni tanto.

Walter Tevis, scopro dalla sua biografia, ha pubblicato due romanzi di successo e poi è stato per 17 anni senza scrivere niente. Ecco uno che parla di alcol perché ne sa qualcosa. Poi gli hanno detto che aveva un tumore, e allora ha lasciato il suo lavoro e la sua città, si è chiuso in una stanza di New York con la sua macchina da scrivere, e prima di morire ha pubblicato altri quattro libri. Mi sa che non era contento lo stesso. In uno di questi, Il colore dei soldi, il vecchio Eddie Felson ormai stanco e acciaccato riceve il suo epitaffio: “Te ne sei stato seduto sul tuo talento per vent’anni”. Come diceva Marcellus Wallace era uno che poteva farcela, ma non ce l’ha mai fatta. Che cosa c’entra la Pesca a Mosca con questo? Tutto e niente: pescando e meditando si arriva ai pensieri più strani. La vita non è un’opera d’arte. Se la attraversi per farne il tuo capolavoro, sappi che può andare a finire molto male. E adesso puoi tornare a cercare il lancio perfetto.

mercoledì 7 maggio 2008

UNA COSA DIFFICILE COME L'AMORE

Leggo Alice McDermott, Una cosa difficile come l’amore

Long Island, primi anni ’60. Un sobborgo di villette a schiera e famiglie tutte uguali. Una sera d’estate, una Ford dai finestrini scuri si ferma davanti a una delle case: dentro la macchina, scortato dalla sua banda, c’è un ragazzo di nome Rick. Dentro la casa dovrebbe esserci la sua fidanzata, Sheryl, e Rick è venuto per lei. Da giorni la cerca al telefono senza successo. La madre di Sheryl gli ha ordinato di non chiamare più. Due sono le cose che Rick non sa, anche se ormai le teme: primo, Sheryl è incinta; secondo, è stata spedita da una zia in Ohio per portare a termine la gravidanza. Nascosta dove non la conosce nessuno. Seppellita per sempre insieme al suo segreto.

Quella sera che venne a cercarla si fermò sul praticello davanti a casa sua, in ginocchio e con i pugni piantati nelle cosce, e gridò il suo nome con una tale passione che perfino gli amici che lo circondavano, venuti a sostenerlo, a trascinarla fuori da quella casa, ad ammazzare la famiglia di lei se necessario, lasciarono cadere giù le catene. Perfino gli uomini del vicinato, in bermuda o pantaloni sportivi, magliette bianche e pantaloncini grigi, con mazze da baseball o badili protesi in avanti come fucili, perfino loro interruppero l’affannosa corsa a proteggerla: i buoni e i cattivi, i ragazzi in giubbotto nero e i padri nei leggeri abiti estivi, inchiodati per un unico attimo prima dell’inizio della battaglia dal suono tremendo e lancinante di quel grido di dolore.

Che libro ragazzi. Quella sera si scatena la rissa che diverrà leggenda nel quartiere: i padri, uomini di mezz’età e passioni assopite, dediti ormai al giardinaggio e al barbecue, si coalizzano per difendere la famiglia di Sheryl dall’attacco dei barbari. Sono pugni, calci, cinghiate, colpi di mazza e catena, ed è una battaglia senza vincitori né vinti, perché alla fine arriva la polizia e gli invasori si dileguano. Eppure, dal giorno dopo, tra i prati ben curati e i vialetti di ghiaia nasce un sentimento che prima non era mai esistito: vicini di casa sconosciuti, benestanti dai modi riservati e cortesi, adesso si sentono una tribù. Si salutano tra loro con complicità virile. Si fermano a chiacchierare dopo cena. Si mostrano a vicenda graffi e lividi, come reduci di una battaglia gloriosa.

Il romanzo è scritto in prima persona da una ragazzina del quartiere. È una voce narrante particolare, spettatrice degli eventi, curiosa di tutto quello che si nasconde sotto le apparenze, affascinata e terrorizzata dal segreto più grande della vita adulta, quella cosa difficile che è l’amore. E così, raccogliendo gli indizi e riempiendo i vuoti con l’immaginazione, ricostruisce la storia tra Rick e Sheryl: quello che è successo prima e dopo, le conseguenze che avrà sulla vita di tutti quanti. Il romanzo gira intorno a quell’unico evento, la battaglia tra gli uomini e i ragazzi. E, girandoci intorno, scopre che il padre di Rick è un medico fallito, la madre una depressa cronica, e lui non è mai stato amato da nessuno. Il padre di Sheryl, morto d’infarto l’anno prima, ha lasciato una vedova dura e scontrosa, e una figlia che si è fatta un’idea tutta sua sull’amore. Che logica ci sarebbe ad amare della gente, se poi quelli muoiono come se tu non fossi mai esistita? Non sarebbe idiota continuare ad amare uno che è morto, se sapessi che non lo rivedrai mai più? Che cos’è che ameresti allora, l’aria? Ecco perché non importerebbe se Rick andasse ad ammazzarsi o qualcosa del genere. Sarebbe come con papà. Mi manca, ma so che lo rivedrò perché penso sempre a lui. Non si può smettere di voler bene a qualcuno solo perché è morto, giusto?

Ecco qual è il punto. Si può anche leggere questo libro - uscito nel 1987 e vincitore di molti premi, pubblicato solo adesso in Italia per qualche mistero editoriale e per merito di Terre di Mezzo - come una satira dell’America borghese, ma secondo me è un errore. È il tipico errore europeo nei confronti della letteratura americana. Ad Alice McDermott, per come la vedo io, non interessa tanto raccontare la borghesia ipocrita, l’illusione della sicurezza messa in crisi dal conflitto sociale, né costruire un’opera pop intorno ai vecchi simboli del sogno americano - la cassetta delle lettere, l’altalena in giardino, la macchina parcheggiata nel vialetto: o forse le interessa ma solo come cornice, perché questo libro è un libro sull’amore. La storia tra Rick e Sheryl, raccontata da una ragazzina che si affaccia alla vita adulta, è il sogno irrealizzabile dell’amore assoluto: l’amore che salva la vita, l'unica magia capace di spezzare la maledizione della solitudine umana.

Dopo quella volta, dopo le macchine e l’improvviso carosello sul prato di Sheryl, i ragazzi con le catene e lo scontro e il suono raggelante di quel grido d’amore, dopo di questo le scenette quotidiane non ci soddisfecero più, non c’era litigio smorzato, pranzo fuori per l’anniversario, dolce bimbetto ritardato, che potesse più farci credere di vivere una vita vibrante, farci credere di saperne qualcosa dell’amore.

Che libro. Nel mio cuore e nella mia biblioteca ha preso subito posto tra Richard Yates, John Cheever e Rick Moody. Era da tanto che non mi sentivo più innamorato.

Alice McDermott, Una cosa difficile come l’amore

(Traduzione di Stefania Bertola, Terre di Mezzo)

mercoledì 30 aprile 2008

RUGGINE E OSSA

Leggo Craig Davidson, Ruggine e ossa.

Chissà che cosa si nasconde, nel pugilato, di così profondamente americano. Noi che in fondo non lo capiamo l’abbiamo amato nei libri, come nei libri amiamo l’America che non riusciamo a comprendere: i migliori racconti di pugilato sono di Hemingway, Thom Jones e F.X. Toole. C’è anche un bel libro di Joyce Carol Oates sul giovane Tyson. E poi i romanzi che non ho letto perché sono romanzi, ma se Fat City di Leonard Gardner assomiglia almeno un po’ al film di John Huston allora è un capolavoro. Bisognerebbe scrivere una storia minore della letteratura americana, fondare una sezione a parte nelle biblioteche: e qui l’ultimo arrivato sarebbe Craig Davidson, Ruggine e ossa.

Sollevo da solo due obiezioni. Primo, Craig Davidson è canadese. Secondo, in una raccolta di otto racconti ce ne sono soltanto un paio sul pugilato. Servirebbe troppo tempo per motivare la mia convinzione che la letteratura canadese faccia parte di quella americana, ma ora posso spiegare come mai credo che il posto giusto per questo libro sia lì, nello scaffale dei maschiacci, tra Il pugile a riposo e Million Dollar Baby. Prendete le trame dei racconti: un padre fallito tortura il figlio bambino perché diventi un infallibile tiratore a canestro. Una coppia in crisi alleva cani da combattimento - lui fa l’addestratore e lei l’infermiera - e davanti al proprio campione ormai sbranato riscopre l’amore. Un sessodipendente incontra una sessodipendente durante una riunione dei sessodipendenti anonimi, e indovinate come va a finire. Tutti i racconti funzionano così, con due personaggi che ballano su un quadrato immaginario, si girano intorno e si studiano con qualche jab e poi partono i primi ganci e montanti e ben presto è un corpo a corpo, con sopracciglia spaccate e colpi sotto la cintura e nasi ridotti in poltiglia da testate proibite. Alla fine, ma in fondo non è così importante, uno vince e l’altro perde. Raramente per KO. Più spesso finisce ai punti, o con i due pugili entrambi al tappeto, come succedeva in Rocky II, dove vince l’unico che, aggrappandosi alle corde e sputando sangue, riesce a rimettersi in piedi.

Carver aveva coniato una definizione meravigliosa per i suoi personaggi: gente che ce la mette tutta, ma il più delle volte semplicemente non basta. Ecco chi sono gli eroi di Davidson. Dannati senza possibilità di redenzione. Perché puoi essere duro e potente come Mike Tyson, o intelligente e veloce come Muhammad Ali, ma in quanto pugile conosci già il tuo destino: in un modo o nell’altro finirai male. Sarà questo che affascina tanto l’America? Sarà la tragedia inevitabile, nel pugilato, che lo rende subito letteratura? Sarà il suo essere metafora di un’altra storia, l’unica che è importante raccontare, quella che tutti stiamo cercando di scrivere?

***

“Vedrai uomini piangere quando si rompono una mano durante un incontro, messicani cazzutissimi e picchiatori yankee accasciati sullo sgabello all’angolo con gli occhi che zampillano lacrime. Non è tanto il dolore, anche se l’anticipazione del dolore c’è già: la mano che si gonfia nei guantoni da quattrocento grammi e lo sfrigolio elettrico di osso su osso, e magari sei all’ottava ripresa e il tuo destro di vantaggio è spaccato, ma continui a colpire pur di arrivare alla decima e sperare nei punti della giuria. È piuttosto la frustrazione a farli piangere. Nel pugilato tutto sta a lavorare sui punti deboli. Scarsa resistenza? Corsa su strada. Molle nel gioco di gambe? Saltelli sulla corda. Debole a incassare? Mille addominali al giorno. Ma i pugili con le mani rovinate non possono farci nulla, se non ingaggiare un secondo che sappia fasciare gli ossicini. Idem per quelli con l’arcata sopraccigliare sporgente e la pelle che come la tocchi si squarcia. Piangono perché sono punti deboli per cui non c’è un accidente da fare”.

Il pugile in lacrime. Ecco qualcosa con cui fare i conti, d’ora in poi.

Craig Davidson, Ruggine e ossa.

(Traduzione di Paola Brusasco, Einaudi 2008)

sabato 15 marzo 2008

IL SUO VERO NOME

Leggo Charles D’Ambrosio, Il suo vero nome.

Kurt, un ragazzino di tredici anni, accompagna a casa gli ospiti ubriachi quando le feste di sua madre finiscono. Il padre faceva il medico in Vietnam ed è morto suicida, dilaniato dalla spaccatura tra il suo mondo - la ricca borghesia americana, le estati a Long Island, i tradimenti e i divorzi e i secondi matrimoni - e il mondo che ha visto in Indocina, i corpi che non ha potuto curare. La madre, per reazione al suo ruolo di vedova, è diventata la regina della costa: dà una festa alla settimana e ogni volta beve troppo, ride a voce troppo alta, balla fino a troppo tardi con i mariti di qualche altra donna. Al piano di sopra Kurt cerca di dormire. Una notte, come al solito, viene chiamato da sua madre: c’è la signora Gurney che non si sente bene, bisogna accompagnarla a casa. E così Kurt si alza, prende sottobraccio la donna ubriaca e parte per la sua missione. Superare un chilometro di spiaggia che si rivelerà infinito, ascoltando le confessioni della donna, guardandola spogliarsi e vomitare, subendo perfino un tentativo di seduzione prima di convincerla ad andare a dormire. Poi torna a casa, ma la festa è ancora in pieno svolgimento e lui non ha voglia di farne parte. Sa che non riuscirà più a dormire. Allora si siede fuori, sull’altalena, e rilegge una lettera che suo padre scrisse a sua madre dal Vietnam. “Per me, se non altro, è un sollievo sapere che c’è qualcuno, lontano lontano, che non può veramente capire, e spero che non possa capire mai”.

È il racconto La Punta, forse il migliore del libro. L’altro mio preferito si intitola Lirismo ed è diviso in due parti. La prima sembra ispirata a un classico del racconto americano, Il grande fiume dai due cuori: è ottobre e Potter ha affittato un bungalow nel bosco per qualche giorno. Vuole stare un po’ tranquillo con la sua ragazza, Jane, per recuperare un rapporto consumato. Ma Jane fa amicizia con i vicini, un gruppo di cacciatori ubriaconi, e così la coppia viene invitata a una grigliata: quella sera Potter beve troppo e il giorno dopo si ritrova a pescare, cercando di smaltire la sbornia e la gelosia, e a pensare alla ragazzina di un’estate lontana. Il fiume, in qualche modo, ha il potere di dargli pace.

Se la prima parte è un omaggio a Hemingway, la seconda gravita dalle parti di Carver. Adesso è inverno, è appena passato il Natale e Potter è solo in casa. Non ci vuole molto a capire che Jane l’ha lasciato. Lui cuoce due patate al forno, le avvolge nell’alluminio ed esce in mezzo alla neve: troverà un barbone con cui dividere le sue patate. Poi tornerà a casa e sarà di nuovo solo come prima. Ci sarà da disfare l'albero di Natale e trascinarlo giù in strada, perché la nettezza urbana se lo porti via.

Ecco una cosa da dire dei racconti di Charles D’Ambrosio: hanno il ritmo e lo stile del grande classico, e una struttura che non obbedisce a nessuna regola. A un certo punto della storia, dove uno scrittore con la testa sulle spalle capisce che è il momento di chiudere il cerchio, lui parte verso un’altra direzione, scrive altre dieci pagine e poi lascia tutto lì, come se si fosse alzato per rispondere al telefono. Invece il racconto è proprio finito. E se questa stranezza alla prima lettura ti disorienta, poi cominci a capire che è una scelta, il modo di D’Ambrosio per catturare la vita: che non chiude, non obbedisce a strutture drammatiche, ma a un certo punto semplicemente gira e se ne va da un’altra parte.

La seconda cosa che mi colpisce al cuore è la disperazione dei suoi personaggi. Io non ho mai capito chi definiva Carver uno scrittore deprimente, perché mi è sempre sembrato un ottimista: la vita dei suoi eroi andava a rotoli ma loro restavano in piedi, versavano ancora un po’ d’acqua nel whisky e aspettavano l’alba - magari pensando al culo di una cameriera, o progettando di andarsene in California. D’Ambrosio è molto più vicino a Richard Ford, un altro maestro della “scuola del nord-ovest”, uno per cui non c’è redenzione. Qui i personaggi muoiono suicidi o consumati da un tumore, sono alcolizzati o fanatici religiosi, impazziscono perché la figlia di due anni annega in un abbeveratoio. Tutti, come D’Ambrosio, hanno ricevuto un’educazione cattolica e pagano il prezzo della sua morale, fatta di peccato, giudizio e punizione.

Charles D’Ambrosio è nato a Seattle e vive a Portland, Oregon. In dodici anni ha scritto due raccolte di racconti. Io l'ho conosciuto all’uscita dell'altro libro, Il museo dei pesci morti, che minimum fax ha tradotto e pubblicato un paio d’anni fa. È un uomo grande e grosso e sembra buono. I ricordi di quella sera sono offuscati dalle grappe bevute insieme: abbiamo parlato a lungo dei maestri, i nostri maestri pescatori o cacciatori. Hemingway, Carver, Ford. Gente che cercava di scrivere buone storie e prendere grossi pesci. Quelli di Charles sono vivi e tirano forte, puntando sempre verso monte, come i salmoni.

***

Ora Potter allungò una mano e strizzò la coscia di Jane.

“Tu te lo ricordi il tuo primo bacio?”, le chiese.

“No”, disse lei. “Per la verità no”.

Voleva essere solo una presa in giro, ma la risposta brusca lo sorprese: in quel momento lo stato d’animo di lei era completamente diverso.

Qualche goccia leggera colpì il parabrezza. Si accesero i tergicristalli, che disegnarono due palpebre sul vetro. L’ultima luce del giorno faceva risaltare le sagome delle montagne. La macchina seguiva dolcemente le curve, dondolando, rigirandosi, scendendo. La pioggia cadeva più forte e i tergicristalli scandivano il tempo, mentre Potter tornava a immaginare il suo primo bacio, la notte che scendeva e la paura che l’aveva tormentato per tutta la strada fino a casa. Nei suoi ricordi la paura era sbiadita, o almeno stava sbiadendo. E il pesce? Quello che gli restava era una vibrazione sulla lenza, un tremito nella mano, il ricordo di un incontro con il nulla, quasi, che avveniva e svaniva in un unico istante, e cominciò a riassaporarlo più e più volte, ascoltandolo come se fosse una musica. Dopo un po’ Jane alzò il volume della radio e non poterono più parlare.

***

Charles D’Ambrosio, Il suo vero nome

(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2008)

sabato 8 marzo 2008

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI

Leggo Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi.

I numeri primi hanno un grande fascino per i matematici. La loro bellezza risiede soprattutto in questo: non esiste un sistema per trovarli che non sia prendere i numeri naturali e controllarli uno per uno. Due dei più celebri problemi aperti nella matematica moderna - l’ipotesi di Riemann e la congettura di Goldbach - riguardano proprio la loro frequenza: più si procede sulla linea dei numeri naturali, più i numeri primi si diradano, ma senza che sia possibile trovare nessun tipo di regolarità. Tutte le armi a disposizione dei matematici, dall’aritmetica dei tempi di Euclide allo studio delle funzioni complesse, falliscono contro questo nemico antichissimo e misterioso. I numeri primi. Una volta si usavano nelle formule magiche. Di loro sappiamo solo che non finiscono mai: nessuno è l’ultimo, nessuno il più grande.

I gemelli sono numeri primi separati da un solo numero pari: come 17 e 19, 41 e 43, 59 e 61. Coppie di individui simili, persi nell’infinità dei numeri naturali, tanto vicini da sfiorarsi ma abbastanza lontani da non riuscire a toccarsi mai. Alice e Mattia sono due ragazzi così, fatti uno per l’altro eppure incapaci di condivisione, destinati alla solitudine dai loro demoni e da un trauma che li ha segnati durante l’infanzia. Alice ha perso l’uso di una gamba su una pista da sci, rischiando la morte per assideramento all’età di sette anni. Mattia ha abbandonato in un parco la sorellina, sofferente di disturbi psichici, per andare a una festa di classe: la bambina non viene più ritrovata e Mattia dovrà convivere con questa colpa per il resto dei suoi giorni. Al liceo i due ragazzi si incontrano. Entrambi stanno attraversando un’adolescenza durissima. Alice soffre di anoressia, mortifica il suo corpo come per punirlo per quella gamba rigida e fonte di umiliazioni. Mattia il corpo lo ferisce, tagliandosi i palmi con qualsiasi oggetto acuminato gli capiti in mano. È inevitabile che si riconoscano, e cha nasca tra loro un’amicizia. Il romanzo li segue fino all’età adulta: Mattia diventerà un brillante matematico, sarà assunto come ricercatore in un’università del Nord Europa, mentre Alice diventerà una fotografa di matrimoni. Ma nessuno dei due guarirà mai dalla propria malattia. Si attireranno a vicenda e si respingeranno, si ameranno eppure resteranno lontani. Come numeri primi gemelli, simili e per sempre soli.

Paolo Giordano ha 26 anni, è un fisico torinese e racconta di avere scritto questo suo primo romanzo nel tempo libero. Il libro ha l’urgenza delle storie che vogliono essere raccontate, e perciò chiedono il sacrificio delle notti e dei fine settimana, e non lascia spazio alle questioni di stile. In poche settimane è diventato un caso, montato in silenzio e senza pubblicità: perché ha il potere evocativo dei grandi romanzi di formazione. Quelli che ti risuonano dentro, risvegliando il ragazzo che eri. È un libro semplice e profondo, e non ha nessun bisogno di spiegarti di cosa soffrono Alice e Mattia: il motivo per cui lei vuole morire di fame, per cui lui sa di essere vivo solo quando sente dolore, è qualcosa che conosciamo anche noi. È l’ospite che abbiamo cacciato di casa, e che ogni tanto torna a bussare alla nostra porta. È il demone di cui qualcuno non si libera mai.

***

Mattia lo sapeva cosa c’era da fare. Doveva andare di là e sedersi di nuovo su quel divano, doveva prenderle una mano e dirle non dovevo partire. Doveva baciarla un’altra volta e poi ancora, finché si sarebbero abituati a quel gesto al punto di non poterne più fare a meno. Succedeva nei film e succedeva nella realtà, tutti i giorni. La gente si prendeva quello che voleva, si aggrappava alle coincidenze, quelle poche, e ci tirava su un’esistenza. Ormai l’aveva imparato. Le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante. Stavolta li riconosceva: quei secondi erano lì e lui non si sarebbe più sbagliato.

C’era stato un tempo in cui, seduto sul letto insieme ad Alice, poteva percorrere la stanza di lei con lo sguardo, individuare qualcosa su uno scaffale e dirsi gliel’ho comprato io. Quei regali erano lì a testimoniare un percorso, come bandierine appuntate alle tappe di un viaggio. Lei li conservava con cura, trovando loro una posizione evidente, perché a lui fosse chiaro che li aveva sempre sotto gli occhi. Mattia lo sapeva. Sapeva tutto quanto, ma non riusciva a muoversi da dov’era. Adesso intorno a lui non c’era un solo oggetto che riconoscesse. Guardò il proprio riflesso nello specchio, i capelli scombinati, il colletto della camicia un po’ storto, e fu allora che capì. In quel bagno, in quella casa come nella casa dei suoi genitori, in tutti quei luoghi non c’era più nulla di lui.

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Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, Mondadori 2008

giovedì 21 febbraio 2008

LA VISTA DA CASTLE ROCK

Leggo e rileggo Alice Munro, La vista da Castle Rock

La vista da Castle Rock è il panorama che il piccolo Andrew contempla dalle rovine del castello di Edimburgo, all’inizio del XIX secolo. Il padre, ubriaco e in vena di scherzi, gli indica una costa lontana, sbiadita dalla foschia, dall’altra parte del mare.

“Ecco fatto, figliolo, adesso hai visto l’America. Se Dio vuole, un bel giorno la vedrai più da vicino e di persona”. Il bambino crede alla bugia, senza sapere che si rivelerà profetica: pochi anni dopo prende con sé la famiglia, abbandona la povera contea di Ettrick e si imbarca verso il nuovo mondo. Da scozzese ritroverà il suo paesaggio naturale a nord dei Grandi Laghi, nel giovane e inesplorato territorio canadese. La sua storia è quella di una fondazione, una delle tante memorie famigliari che Alice Munro ha raccolto in questo libro.

Nella forma, La vista da Castle Rock è una raccolta di racconti divisa in due capitoli. Il primo riguarda gli antenati della scrittrice, i Laidlaw: dal capostipite William, una celebrità locale intorno al 1600, passando per James il letterato, Andrew che attraversò l’Atlantico, Robert il pioniere che fondò il paese di Morris, e poi giù fino a Bob, il padre della scrittrice, allevatore di volpi e visoni che perse tutto con la Grande Depressione. Alice Munro racconta di aver speso molto tempo tra archivi di famiglia e biblioteche, viaggi in Scozia e cimiteri quasi mai segnati sulle mappe. Cercava una pista, ma la povera gente non lascia grandi tracce di sé nella storia: a volte solo due date, un atto matrimoniale o un contratto di compravendita, un’iscrizione su una pietra tombale. Il primo racconto comincia proprio con uno di questi epitaffi, sembra rubato all’Antologia di Spoon River: “Qui giace William Laidlaw, il celebre Will O’Phaup, impareggiabile finché visse per le sue burle e le imprese di forza e agilità”. Davanti alla lapide, e alla vita evocata da queste poche parole, finisce il lavoro della biografa e comincia quello della narratrice: una sacerdotessa capace di resuscitare i morti con il potere dell’immaginazione.

Nella seconda parte del libro le storie diventano autobiografiche. Per i lettori di Alice Munro sono racconti di una voce intimamente nota: parlano della giovinezza trascorsa nelle campagne dell’Ontario, del primo matrimonio e della fuga a Vancouver, della nascita dei figli, del divorzio, del ritorno a casa. Nell’ultimo racconto, ambientato ai giorni nostri, la scrittrice attraversa con il secondo marito i luoghi della sua infanzia. In ospedale ha appena scoperto di avere un nodulo al seno. Il marito è un geografo, e negli anni le ha trasmesso la sua passione: e così, mentre il pensiero della malattia riempie di tensione il viaggio di ritorno, lei trova una forma di conforto nel contemplare il paesaggio dal finestrino - il lavoro degli antichi ghiacciai, dei fiumi impetuosi e ormai scomparsi, del bosco che riconquista i pascoli e i campi incolti.

Leggere i segni - nel paesaggio, nei volti, nei gesti delle persone - è sempre stato il grande talento di Alice Munro. In nove raccolte di racconti ci ha insegnato come la scrittura abbia il potere di svelare i segreti, scoprendo gli abissi nascosti dietro le apparenze. Rivolgere quello stesso sguardo allo specchio dà luogo a un libro strano, né saggio né narrativa, piuttosto un autoritratto in frammenti, allo stesso tempo delicato e brutale, per forza di cose imperfetto. Scrive l’autrice nell’introduzione: “Si potrebbe dire che racconti del genere prestano maggiore attenzione alla verità della vita rispetto alla narrativa consueta. Ma non quanto basta per prenderli alla lettera. E la parte che in fondo potrebbe essere definita storia di famiglia si è aperta all’invenzione, pur conservando i contorni della narrazione autentica. Le due correnti si sono avvicinate al punto da sembrarmi destinate a scorrere insieme, come succede nelle pagine di questo libro”.

In molte interviste Alice Munro ha chiarito il suo pensiero sul rapporto tra autobiografia e invenzione. Tutti noi, sostiene, riscriviamo continuamente il romanzo della nostra vita: gli eventi passati continuano a esistere nel tempo in forma di ricordi, e presto perdono i legami con la realtà. Diventano storie filtrate dalla prospettiva, dal bisogno di guardarsi indietro e trovare cause, significati, insegnamenti. La memoria è in fondo una distorsione della verità oggettiva, ma anche un atto ordinatore necessario: è il modo in cui raccontiamo il passato a noi stessi per salvarci la vita. Ecco perché La vista da Castle Rock è un libro tenebroso e inquietante. Non solo perché si muove tra cimiteri abbandonati, austere chiese luterane, cronache di antiche carestie. Perché ha a che fare con l’imminenza della morte e con la religione della scrittura.

***

Ora tutti questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio che non asciugavano mai, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d'inverno dai corpi e dai fiati delle mucche - quelle mucche che ancora incitavamo con gli stessi richiami comuni al tempo di Troia. E in una di queste case - non ricordo di chi - un incantevole fermaporta, una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’orecchio, quando in giro non c’era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio stesso cuore, e del mare.

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Alice Munro, La vista da Castle Rock

(Traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2007)

sabato 9 febbraio 2008

LO SPAZIO BIANCO

Leggo Valeria Parrella, Lo spazio bianco.

Maria ha quarant’anni e vive a Napoli, dove insegna italiano alle scuole serali. Lo spazio bianco è un trimestre nella sua vita: dalla nascita della figlia Irene, venuta al mondo prematura e affidata all’incubatrice, fino al termine di questa gravidanza artificiale. Il padre è sparito da tempo, nel libro non ha nemmeno un nome. “Mi figlia sta nascendo, o morendo”, ripete spesso Maria durante le interminabili giornate d’ospedale. Ore scandite dai caffè al distributore automatico e dalle sigarette clandestine, dalla crittografia delle cartelle cliniche, dagli incontri in corsia. Per tre mesi il mondo è ridotto a questo minuscolo spazio, e la lotta per l’esistenza a un conflitto quotidiano con le istituzioni. I medici da una parte e le madri dall’altra - Maria, Rosa, Mina - donne forti, sole, combattive, sagge e impulsive e solidali.

Lo spazio bianco, perciò, è lo spazio di un’attesa. Irene può morire, può vivere e crescere sana, o può sopravvivere con danni neurologici permanenti. Nessun medico ha il coraggio di quantificare le probabilità. E Maria non può far altro che osservare sua figlia come dentro un acquario, sfiorarle le mani dall’oblò dell’incubatrice e usare il limbo in cui è precipitata per fare i conti con la propria vita. Non è una donna abituata ad aspettare, né a lasciarsi andare al fatalismo. È una persona colta che di mestiere combatte l’ingiustizia sociale: i suoi sono allievi senza titoli di studio, uomini condannati all’ignoranza dal lavoro minorile, donne rinchiuse in casa, gli stranieri della nuova schiavitù. Sono gli altri personaggi del libro, le comparse o forse il coro - perché lo spazio bianco è teatro per un solo attore, è il luogo murato e impermeabile in cui si trova Maria. Nemmeno Napoli è il palco ma una quinta lontana, strade attraversate in autobus e contemplate da una finestra d’ospedale, il paesaggio del sovrappensiero. C’è un bel racconto di Erri De Luca, La città non rispose, che ritrae lo stesso luogo. E nel libro si sentono gli echi di alcuni scrittori contemporanei: la provincia di Antonio Pascale, la piccola borghesia e gli anni Settanta, e la città di Erri De Luca. Napoli è nominata poco eppure impregna ogni riga di dialogo, è negli sguardi che incroci e nell’aria che respiri in ogni scena.

Lo spazio bianco è anche la riga vuota tra un pensiero e l’altro. Il libro è breve - poco più di cento pagine - e tolti un prologo e un epilogo non ha capitoli. A un certo punto, durante l’esame per la licenza media, un allievo di Maria le chiede aiuto: sta scrivendo un tema, gli sembra di avere completato un pensiero e non sa più come proseguire. “Mettici uno spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi”, suggerisce Maria. La frase suona come chiave poetica, perché tutto il libro è così: scandito da brevi paragrafi - due pagine, una, a volte poche righe - e dagli spazi bianchi che li separano. La scrittura densissima rende queste unità narrative intense come meditazioni. Frammenti che si potrebbero anche isolare, o scombinare e riordinare secondo altri criteri, come i giorni tutti uguali dell’attesa. Costituiscono un’immersione sempre più profonda dentro la solitudine di Maria - tanto che, a metà del libro, anche il destino di Irene sembra assumere un valore secondario: “Io voglio che Irene viva, me ne importa solo di questo. Anzi, io non so neanche se voglio questo, voglio che questo incubo finisca presto. Chiaro?”

Lo spazio bianco, infine, è un cambio di rotta nel percorso di scrittrice di Valeria Parrella. Che esordisce nel romanzo dopo due raccolte di racconti - mosca più balena e Per grazia ricevuta - e sceglie un grande editore, Einaudi, lasciando minimum fax. Due scelte che sembrano segnare il raggiungimento di una maturità letteraria, ma anche, purtroppo, la fine di una bella anomalia: una scrittrice di racconti pubblicata da un editore indipendente, che vince premi letterari, scala le classifiche e diventa un caso. Adesso, con la copertina bianca e le pile di volumi in libreria, è tutto molto più normale. Però questi sono pensieri che non intaccano il valore della scrittura, e in fondo il libro è un romanzo solo nel nome: ha il ritmo e l’intensità dei migliori racconti, quelli che ti conquistano già dal titolo e non ti lasciano andare fino all’ultima riga.

***

Ammettere la sofferenza è stato per me molto difficile. Ho preferito credere a una continuità normale o ai momenti belli, la conquista del lavoro, l’estasi degli innamoramenti, la meraviglia della gravidanza. Solo a queste cose avevo dato verità. Quando il dolore mi aveva sorpreso non gli avevo creduto: era un inciampo, una cosa da mettersi davanti per superarla, per poi tornare a quell’altra vita. Così era stato per la malattia di mio padre, per la morte di mia madre.

Avevamo parlato a lungo, con Mina e Rosa, dei danni che la prematurità avrebbe comportato, degli handicap che forse ci avrebbero affollato la vita negli anni a venire. Lei lo sa? No, io proprio non lo sapevo, ma ero stata una buona alunna per tutta la mia vita, e avrei imparato.

Ricordai di aver visto, in una mostra sulle civiltà precolombiane, una maschera che aveva una metà del volto sana e sorridente, e l’altra corrosa dalla malattia. Avevo pensato all’artigiano pazzo che, cento anni prima dello sbarco spagnolo, un giorno aveva ficcato quel pezzo di terracotta in una forno, aveva accettato che le due parti cuocessero insieme.

Quel pazzo lo sapeva.

E sotto di me, ora, nella città incessante, lo dovevano sapere in molti. Camminavano, nell’ora rarefatta del primo pomeriggio, verso casa, la macchina, l’ufficio, con questa possibilità nei passi.

***

Valeria Parrella, Lo spazio bianco, Einaudi 2008

domenica 27 gennaio 2008

GARANTITO

Non c’è modo di essere libero stando seduto.
Sollevo una tazza vuota e chiedo in silenzio
che le mie destinazioni accolgano quello che sono,
cosicché io possa respirare.
I cerchi si allargano e inghiottono le persone.
Per mezza vita dicono buonanotte a mogli sconosciute.
Ho la testa piena di domande e un maestro nell’anima.
Va così.
Non venire più vicino o dovrò andare via.
Ci sono posti che mi attirano come la forza di gravità.
Se mai qualcuno potesse trattenermi a casa
saresti tu.
Tutti quelli che incontro, nelle gabbie che si sono comprati,
chiedono di me e del mio vagabondare.
Ma io non sono mai quello che credono loro.
Sono rabbioso e puro in tutti i miei pensieri,
e sono vivo.
Vento nei capelli, mi sento parte di ogni luogo.
Sotto la superficie c’è una strada che è scomparsa.
A notte fonda ascolto gli alberi:
stanno cantando con i morti,
sulla mia testa.
Lasciami trovare un modo d’essere.
Pensami come un satellite che orbiterà per sempre.
Conoscevo tutte le regole ma le regole non conoscevano me.
Garantito.

(Eddie Vedder, Guaranteed)

domenica 20 gennaio 2008

NELLE TERRE ESTREME

Leggo Jon Krakauer, Nelle terre estreme.

Nel 1992 la rivista Outside commissionò a Krakauer, alpinista e scrittore, l’articolo sulla morte di un ragazzo il cui cadavere era stato ritrovato in Alaska. In quei giorni Chris McCandless era soltanto un nome. L’indagine appassionò Krakauer al punto da spendere i successivi quattro anni in ricerche e pubblicare nel 1996 questa biografia - Into the Wild - diventata subito un libro di culto.

Chris era nato nei sobborghi di Washington DC nel 1968. Padre in carriera e madre casalinga, il solito quadro borghese completo di villetta a schiera, barbecue della domenica, studio del pianoforte. Lui non sembrava diverso dall’ambiente in cui era cresciuto. Gran lettore, buon mezzofondista: forse, pensandoci dopo, era sempre stato un solitario. Uno studente metodico che nell’estate del 1990, fresco di laurea e in attesa di iscriversi a un corso di dottorato, parte per una vacanza in macchina attraverso l’America, un viaggio da cui non farà mai più ritorno. Krakauer segue le sue tracce come un investigatore. Quell’estate Chris chiude il conto in banca - circa 25.000 dollari - e dona tutto in beneficenza. Più tardi deciderà di abbandonare l’automobile, bruciare i documenti d’identità, tagliare anche l’ultimo vincolo con il passato cambiando nome e battezzandosi Alexander. Per due anni viaggia attraverso il Midwest, l’Arizona e la California, insieme agli hobo che popolano le strade d’America: gli sradicati e i marginali, i senza casa, gli hippy fuori dal tempo, i tossici e i disoccupati. Le persone che l’hanno incontrato si ricordano bene di lui. Aveva l’aspetto di un vagabondo ma parlava bene, portava uno zaino pieno di libri, faceva amicizia con tutti. A volta si fermava per qualche settimana, lavorava come bracciante o cameriere finché aveva abbastanza soldi per ripartire. E a tutti raccontava il suo sogno: accamparsi nelle zone selvatiche d’Alaska e sopravvivere con le proprie forze.

Nell’estate del 1992 Chris decise di realizzare il progetto e partì per il Nord. Verso la metà di aprile vide per l’ultima volta un essere umano, l’uomo che da Fairbanks gli diede un passaggio fino all’imbocco dello Stampede Trail, una vecchia pista in disuso. Tutto quello che sappiamo dei successivi quattro mesi è descritto in uno scarno diario trovato insieme al suo cadavere, tra i libri di Thoreau e di Tolstoj. La solitudine. La lotta per procurarsi il cibo: bacche, radici e piccola selvaggina. L’esaltazione per le scoperte quotidiane. La meditazione, la paura, la grandiosa imperturbabilità della natura selvaggia. Infine la morte per fame. La storia si apre e si chiude su questo cadavere, svelandone l’origine ma non il mistero. Non c’è nessuna svolta imprevista, nessuna rivelazione - anzi il percorso di Chris sembra una lenta spirale discendente verso il suo inevitabile destino. Krakauer torna nei luoghi, interroga i testimoni, tocca gli oggetti personali e sfoglia i libri: è ossessionato dal ragazzo e al lettore trasmette lo stesso senso di ammirazione, sbigottimento, non comprensione. Che senso ha una scelta tanto radicale da portare alla morte? Il libro è pieno di domande e privo di risposte, e questo è il suo grande pregio. Perché sarebbe facile fare di Chris un simbolo, il paladino della lotta contro il capitalismo e la modernità, oppure un mistico contemporaneo, un ecologista militante, un poeta vagabondo. Come Forrest Gump, l’idiota che comincia a correre senza un motivo, è disponibile a essere l’idolo di qualsiasi seguace, a sventolare qualsiasi bandiera.

Io, leggendo questa storia, ho pensato soprattutto alla religione. I luoghi della rivelazione sono da sempre il deserto, la foresta, la montagna: come se, per avvicinarsi a Dio, l’uomo avesse bisogno di immergersi nella natura selvaggia. Nella letteratura, e soprattutto nella letteratura americana, è un topos narrativo dai padri illustri. Penso a Thoreau, che Chris considerava un padre spirituale, ma anche a Jack London, a Hemingway e al suo fiume dai due cuori, al Kerouac di Big Sur e dei Vagabondi del Dharma. In questi grandi racconti la natura è un rifugio, l’unico luogo di guarigione per spiriti feriti dalla vita, e la wilderness, l’essenza della selvaticità, rappresenta il bisogno di ritirarsi dalla società civile, di riportare l’esistenza alla sua origine animale, di morire per rinascere.

È un mito americano, eppure tocca i cuori di tutti noi. Perché nel nostro intimo sappiamo che cosa cercava Chris McCandless nelle foreste d’Alaska. Perché siamo abbagliati dal senso di assoluto che la sua vita emana, anche se è solo la vita di un ragazzo. Perché con tutte le domande che ci vorticano in testa mentre leggiamo la sua storia, lungo il viaggio scopriamo che il libro ci parla di noi: del nostro rapporto con gli altri, con la casa e con il denaro, con le regole della civiltà, dei nostri ideali e dei nostri compromessi, del nostro terrore della solitudine, del nostro bisogno di trovare un rapporto con lo spirito.

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Volevo il movimento, non un’esistenza quieta. Volevo l’emozione, il pericolo, la possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore. Sentivo dentro di me un’abbondanza di energia che non trovava pace in una vita tranquilla.

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Jon Krakauer, Nelle terre estreme

(Traduzione di Laura Ferrari e Sabrina Zung, Corbaccio 2008)