domenica 2 dicembre 2007

ALICE MUNRO

Questo blog potrebbe anche essere il tempio di Alice Munro. La parola non è scelta a caso: se la scrittura fosse una religione (cioè un modo di vedere il mondo, di squarciare il velo che lo avvolge e afferrarne l’intima verità), Alice sarebbe una grande sacerdotessa. Parlare dei suoi dieci libri, della sua sterminata raccolta di racconti - e più il tempo passa, più a me sembra l’infinita riscrittura di un’unica storia - cercare di studiarne la forma e di smontare la loro magia, è un lavoro per gente coraggiosa, ma prima o poi bisognerà cominciare a farlo. Bisognerà smettere di nascondersi dietro ai luoghi comuni che la riguardano: sensibilità femminile, poesia del quotidiano, la solita muffa cresciuta sulla parola minimalismo - e inventare parole nuove.

Questo è solo il primo passo. C’è che dice che tutte le storie siano storie d’amore. Per come la vedo io, tutti i racconti di Alice Munro sono racconti gialli. Non a caso sono sempre ambientati in un paesino della sperduta provincia canadese: Walley, sulle sponde del lago Huron, un posto che non esiste sulle carte geografiche ma evoca subito il nome di Wingham, Ontario, il luogo in cui nel 1931 nacque la nostra Alice Ann Laidlaw. Soltanto che qui non c’è un delitto, non c’è un investigatore, non c’è un colpevole da smascherare. O almeno, sono spostati i termini della questione: il delitto è il fenomeno visibile di un mistero molto più grande. È l’impronta lasciata nel fango da qualcosa di incomprensibile e inaccettabile, qualcosa di nascosto che all’improvviso prende forma - e la forma può essere una scelta eccentrica in una vita rispettabile, una bugia senza motivo o un adulterio svelato, un ricordo rimosso che torna alla luce. Ma sotto, dietro, all’origine di questa anomalia che cosa c’è? Il colpevole è sempre e solo l’essere umano: di volta in volta diverso, ma in fondo qui i nomi non hanno più molto valore. E l’investigatore - in questo senso parlo di religione - non è altro che la scrittura stessa. Come raccontava Flannery O’Connor, leggendo Alice Munro si ha la vertiginosa sensazione che le cose accadano riga per riga, che lei stessa le scopra mentre le scrive. Che la scrittura non sia perciò una forma di narrazione, ma qualcosa di molto più simile alla meditazione. Prendo un personaggio e un fatto che lo riguarda, ci giro intorno con le parole, li guardo da tutte le angolazioni e vado avanti e indietro nel tempo, cerco indizi, formulo ipotesi, mi avvicino alla verità percorrendo una lentissima spirale, che a lungo sembra girare in tondo ma invece stringe sempre di più il suo centro. Molti descrivono le loro storie come forme geometriche, traiettorie di viaggio, alberi dotati di radici, tronco, rami e frutti e foglie, in ogni caso come oggetti lineari, con un inizio e una fine, che in qualche modo rappresentano un percorso. Alice Munro dice una cosa difficile da capire: “Ognuno sa come funziona una casa, come essa delimita lo spazio e crea collegamenti tra uno spazio chiuso e un altro e fa vedere in modo nuovo quello che c’è fuori. Questo è il modo meno approssimativo che possiedo per spiegare come funziona una storia per me, e come vorrei che le mie storie funzionassero per gli altri”. Bello, vero? Eppure qualcuno saprebbe spiegare che cosa vuol dire?

Chiudo, per ora, con questa domanda e con un racconto. Il quartiere di Five Points. Brenda è la moglie di un ex minatore, Cornelius, che qualche anno fa ha subito un crollo in galleria, si è ritirato con una pensione minima, ripara elettrodomestici e soffre di terribili mal di schiena. L’uomo sempre allegro e forte come un toro è diventato depresso e mezzo invalido, e come conseguenza quasi inevitabile Brenda ha cominciato a tradirlo con Neil, uomo giovanile e sprezzante, che vive in una roulotte, fuma erba, ha il fascino del selvatico e del viaggiatore. La verità è che sia Brenda che Neil non sono più giovani, e si trovano entrambi nel punto della vita in cui questa scoperta a lungo aggirata diventa inevitabile. Stanno insieme da un paio di mesi, in cui hanno avuto furtivi e sporadici incontri sessuali. Il sesso è effettivamente quello che li tiene uniti. E oggi, per la prima volta, litigano: nella roulotte Neil racconta a Brenda un ricordo di gioventù, quando lui e i suoi amici, in cambio di soldi, andavano a letto con una ragazza grassa e brutta. Lo sfruttamento si era trasformato in ricatto, la ragazza aveva cominciato a rubare denaro dalla cassa del negozio di famiglia, alla fine il negozio aveva chiuso e la famiglia si era trasferita e nessuno li aveva mai più visti. Forse è capitato a tutti: è quel tipo di ricordo che all’inzio è divertente e poi degenera, e alla fine si vorrebbe non avere mai cominciato a raccontarlo. E infatti Brenda ci resta male, ne è delusa se non proprio disgustata. Anche Neil adesso è nervoso. Bastano altre due parole di troppo, ed ecco il litigio.

In un modo o nell’altro fanno la pace, o almeno smettono di litigare, e il racconto finisce così, con Neil che come ogni volta accompagna Brenda al suo furgone. Ma questa volta è diverso, lo sanno tutt’e due. Ed è qui che si nasconde la rivelazione.

***

Brenda vede le mani di lui sul volante e pensa alla fatica che farebbe se dovesse descriverlo. Da lontano - in macchina, mentre la aspetta - è sempre stato una luminosa immagine sfocata, la sua presenza un sollievo e una promessa. Da vicino, è stato di volta in volta una zona determinata - pelle vellutata o indurita, peli ispidi o appena rasati, odori peculiari o uguali a quelli di altri uomini. Ma è soprattutto un’energia, una qualità del suo essere che lei vede nelle sue dita corte e tozze, o nella curva abbronzata della sua fronte. E neppure chiamarla energia è esatto - è piuttosto la sua linfa vitale, che sale dalle radici, chiara e gagliarda, colmandolo fino a traboccare.

Se si voltasse, ora, lo vedrebbe per quello che è - quella fronte convessa e abbronzata, la cornice di ricci castani che cominciano a farsi più radi, folte sopracciglia con qualche pelo bianco, occhi chiari e infossati e una bocca che sa divertirsi, orgogliosa e imbronciata. Un uomo dall’aria da ragazzo che comincia a invecchiare.

Neil fa inversione, porta la macchina nella posizione giusta per tornare indietro, ed è ora che Brenda scenda e raggiunga il furgone. Lui toglie le mani dal volante con il motore acceso, piega le dita, poi stringe di nuovo il volante con forza - con abbastanza forza, si potrebbe pensare, da ridurlo in poltiglia. “Cristo, aspetta a scendere”, dice. “Non scendere”.

Brenda non ha ancora messo la mano sulla maniglia, non ha ancora fatto una mossa per andarsene. Non sa cosa sta accadendo, lui? Forse è necessaria l’esperienza di molte liti coniugali per saperlo. Per sapere che ciò che credi - e per un po’ speri - sia la fine assoluta per quanto ti riguarda, potrebbe rivelarsi soltanto l’inizio di una nuova fase, una continuazione. È questo che sta accadendo, è questo che è accaduto. Neil ha perso un po’ del suo lustro ai suoi occhi, potrebbe non recuperarlo più. Probabilmente lo stesso vale per lei, per quanto riguarda lui. Brenda ne avverte la pesantezza, la rabbia, la sorpresa. Anche lei si sente così. Pensa che fino a questo momento era stato facile.

sabato 25 agosto 2007

MADRE

Oggi è il giorno giusto per cominciare.
Ho appena sentito alla radio la notizia della morte di Grace Paley, scrittrice e militante politica.
Nata da immigrati ucraini nel 1922, nella sua lunga vita ha scritto tre libri di racconti - The Little Disturbances of Man (1959), Enormous Changes at the Last Minute (1974), Later the Same Day (1985) - raccolti in italiano in un’unica edizione, Piccoli contrattempi del vivere (Einaudi, 2002).
Tutte le sue storie sono ambientate nella comunità ebraica di New York, tra le strade del Lower East Side, lungo la vita di un personaggio indimenticabile: Faith, che durante trent’anni di esistenza letteraria cambia e cresce, è ragazza ribelle e poi moglie fedele e poi madre sola e orgogliosa, si innamora di uomini e ideali, diventa femminista, ecologista, pacifista. Senza mai perdere la Fede, la Grazia e l’Ironia.
Se Raymond Carver è il padre, Grace Paley è la madre del racconto americano contemporaneo. In nome dell'amore che provo per loro, non lo chiamerò mai più minimalismo. È la forma del racconto breve elevata a letteratura: senza questi due scrittori, tanti dei libri che amo non esisterebbero nemmeno. Grace Paley ha insegnato scrittura per molto tempo. Io non l'ho mai incontrata, eppure è una maestra per me. E il diario che oggi inauguro è dedicato a lei.
Qui dentro, ogni tanto, copierò dei racconti. È un esercizio che mi piace fare prima di mettermi a scrivere - un po’ come per un musicista scaldarsi le mani con l'esecuzione di un capolavoro. Questo è il mio bacio d’addio a Grace Paley, madre di tutti noi.
***
MADRE
Un giorno stavo ascoltando la radio. Sentii una canzone: Vorrei vedere mia madre sulla soglia. Mio dio - dissi - io la capisco questa canzone. Tante volte ho desiderato vedere mia madre sulla soglia. In effetti, stava sempre nel vano delle porte a guardarmi. Un giorno stava proprio così, sulla soglia di casa, l’oscurità del corridoio alle sue spalle. Era Capodanno. Disse con tono triste: Se torni a casa alle quattro del mattino a diciassette anni, a che ora tornerai quando ne avrai venti? Fece questa domanda senza sarcasmo o meschinità. Aveva cominciato i suoi inquieti preparativi per la morte. Non ci sarebbe stata, pensava, per i miei vent’anni. E così si interrogava.
Un’altra volta era sulla soglia della mia camera. Avevo appena pubblicato un manifesto politico attaccando la posizione della famiglia nell’Unione Sovietica. Disse: Vai a dormire, per l’amor di Dio, stupida sciocca, tu e le tue idee comuniste. Li abbiamo visti, tuo padre e io, nel 1905. Avevamo già capito tutto.
Sulla porta della cucina disse: Non finisci mai di mangiare. Vai in giro senza meta. Che ne sarà di te?
Poi morì.
Per il resto della mia vita ho desiderato tanto vederla, non solo sulla soglia, ma in un altro gran numero di posti - in sala da pranzo con le zie, alla finestra a guardare su e giù per l’isolato, in giardino tra le zinnie e il tagete, in soggiorno con mio padre.
Stavano seduti su comode poltrone di cuoio. Ascoltavano Mozart. Si scambiavano occhiate stupefatte. Avevano l’impressione di essere appena scesi dalla nave. Di avere appena imparato le prime parole in inglese. Avevano l’impressione che lui avesse appena superato brillantemente un esame col suo professore americano di anatomia. Avevano l’impressione che lei avesse appena lasciato il negozio per la cucina.
Vorrei poterla vedere sulla soglia del soggiorno.
Si è fermata sulla soglia per un attimo. Poi si è seduta accanto a lui. Avevano un giradischi costoso. Ascoltavano Bach. Lei gli disse: Parla un po’ con me. Non parliamo più come una volta.
Sono stanco, disse lui. Non vedi? Oggi devo aver visitato trenta persone. Tutte malate, tutte che parlano parlano parlano. Ascolta la musica, disse lui. Una volta eri molto intonata. Sono stanco, disse.
Poi lei morì.
***
Grace Paley, Piccoli contrattempi del vivere
(Traduzione di Laura Noulian - Einaudi 2002)