venerdì 27 gennaio 2012

IN AUTOBUS

   (Oggi vi presento Sofia. Dopo più di quattro anni, ce ne sono di pezzi che ho scritto e che non finiranno mai in nessun racconto. Ad alcuni sono affezionato, ma la scrittura assomiglia a un crostaceo più che al maiale dei proverbi: per avere un pezzetto di polpa si butta via quasi tutto. Così ho pensato di pubblicare qui qualcuno di questi frammenti. Prendeteli come un assaggio del libro che verrà.)

In autobus, appoggiata alla spalla di un ragazzo conosciuto centocinquanta miglia fa, la notte del New Jersey che scorre nel finestrino, a Sofia viene in mente che sparire, quello che desiderava una volta, non sarebbe una soluzione. Risolverebbe molte cose, ma non tutto. Estinguerebbe il suo dolore ma non il dolore che ha provocato agli altri. Non cancellerebbe le ferite che ha inferto. Per fare questo non basta accelerare il normale decorso biologico, saltare i prossimi cinquant’anni e arrivare subito alla fine. Se si potesse, bisognerebbe fare l’esatto contrario. Come l’indietro veloce dei vecchi film in cassetta. L’autobus sobbalza, e mentre il ragazzo si agita nel sonno Sofia immagina come sarebbe la scena: ora l'autista inverte la marcia, la giovane donna si alza dal suo sedile ed è di nuovo a New York. Entra in una casa in cui due ex amici non si parlano più, poi i due ex amici litigano furiosamente. Cocci di ceramica si innalzano dal pavimento come spruzzi di schiuma dal mare e diventano piatti, tazzine da caffè. I frantumi delle cose tornano cose intatte, la giovane donna non va a letto né con uno né con l’altro dei due ex amici, i due ex amici sono di nuovo amici. All’autunno segue l’estate, l’aereo della giovane donna decolla in retromarcia. Ora è in Italia, a Roma; la ragazza invece di scappare ritorna, la sua vita non è una fuga senza fine ma un viaggio a ritroso nei posti in cui è stata felice. Esce dalle piscine emergendo per i piedi, miracolosamente asciutta. Comincia i libri dall’ultima pagina, fuma sigarette che si allungano invece di accorciarsi, sputa bevande nelle bottiglie vuote. Non prova più nulla per un maestro di teatro e poi se ne innamora, poi va a vederlo per la prima volta recitare. Le sue relazioni sentimentali si riducono a diciannove, diciotto, diciassette. Ora la ragazza sale su un treno e va a Milano. Torna in case in cui la aspettano persone care, ritrova città di cui conosce le strade e poi se le dimentica lentamente. Ricomincia a parlare con i suoi genitori, fa di nascosto cose che prima faceva alla luce del sole. La sua esperienza in fatto di uomini si riduce un giorno dopo l’altro: ora non è mai andata con nessuno che abbia il doppio dei suoi anni, mai con due ragazzi insieme, mai con il ragazzo di una sua amica. Una notte riconquista la verginità nella casa sull’albero costruita da suo padre: “Io non ho paura di niente”, dice al vicino di casa premuroso, scoprendo che quello impaurito è lui. Poi si baciano, si vestono, lui scompare dietro la siepe, lei si arrampica e rientra in camera dalla finestra. La bambina ha i capelli corti e il giorno dopo all’improvviso lunghissimi. Ha un apparecchio che le storta i denti, ossa che si accorciano, piedi sempre più piccoli. Ora non sa più mentire, non sa più rubare, non sa più dubitare di quello che le viene detto: comincia a credere in Dio, nella felicità domestica, negli slogan pubblicitari, nell’infallibilità di suo padre, non ha mai visto sua madre piangere né stare sdraiata per ore al buio. Dimentica come si fa a leggere e scrivere. Adesso le sue parole si riducono a tentativi di parole e poi a sillabe e suoni disarticolati, gridolini di piacere, strilli di pianto. Smette di mangiare qualsiasi cosa non sia una pappetta schiacciata, e poi solo latte materno. Dorme quasi tutto il tempo. Ora è in una scatola di vetro, ora tra le braccia di un’estranea, ora smette di sapere che cosa sia la luce; le contrazioni si calmano e le pareti intorno a lei diventano morbide e rassicuranti; le due uniche qualità del mondo ora sono l’umidità e il tepore, il mondo stesso un bagno denso e vibrante di gorgoglii, pulsazioni, rimbombi, sospiri. Ora lo spazio esterno e lo spazio interno non sono più due cose separate, è proprio come essere un oggetto fatto della stessa sostanza del mondo, ma è un’armonia che dura pochissimo: poi le dita della bambina rientrano nelle mani, le mani nelle braccia, le braccia nel busto; la bambina non ha più un cervello né un cuore né un sesso, dunque non è nemmeno più una bambina, è solo un ammasso di cellule che si dimezzano a velocità stratosferica, un vertiginoso precipitare delle potenze di due. Da otto milioni a quattro milioni, da trentaduemila a sedicimila, da centoventotto a sessantaquattro, e poi otto, quattro, due. Le due cellule si dividono ed è in questo preciso momento che Sofia, o il materiale di cui Sofia è stata fatta, smette di esistere. Poi ci sono soltanto un uomo e una donna in un letto, e fine della storia.

domenica 1 gennaio 2012

SCARTOFFIE

Ho scritto il mio primo racconto quindici anni fa. Me ne sono reso conto stamattina, per via del capodanno che mi ha spinto a riaprire i cassetti, mettere ordine tra le cose vecchie e fare un po’ di spazio per quelle nuove. Così ho ritrovato Bianca, una storia del gennaio 1997. Da allora non ho più smesso: non ricordo un periodo in questi quindici anni passato senza un racconto su cui lavorare. Più che un mestiere è diventato un modo di essere, l’habitus di cui parlava Flannery O’Connor - un abito, un’abitudine e un’abitazione - tanto da confondersi pericolosamente con la mia identità. So di prendere la scrittura un po’ troppo sul serio, e certe volte mi dispiace. Non ho mai scritto racconti per gioco, né per soldi, né per fare un regalo a qualcuno, e non ne ho mai cominciato uno sull’onda dell’entusiasmo per poi lasciarlo a metà, così non sono uno di quegli scrittori di cui è difficile ricostruire il lavoro, perché hanno sparso frammenti, romanzi incompiuti, racconti comparsi solo su riviste o antologie, appunti abbandonati nei bauli, e perfino loro non saprebbero ben dire quanta roba hanno scritto e dov’è. Io invece lo so benissimo: ho scritto ventisei racconti, sto scrivendo il ventisettesimo. Considero i primi cinque il mio apprendistato, e sono contento che riposino in pace in una scatola da scarpe. Sette racconti sono finiti nella prima raccolta, cinque nella seconda, i restanti dieci formeranno la terza. Ventisette racconti in quindici anni fanno un po’ meno di due all’anno. Sono lento, lo so, ma anche molto ostinato, e mi sento come Andy Dufresne in quel romanzo di Stephen King, l’ergastolano che impiega trent’anni a scavare un tunnel con un martelletto, però alla fine frega tutti e scappa di prigione.

Non sono una di quelle persone che dicono: fin da piccolo scrivevo storie, ho sempre saputo che avrei fatto lo scrittore. Quando leggo questo genere di affermazione, nelle interviste e nelle biografie, provo una certa invidia: mi sembrano vite invidiabili quelle illuminate fin dall’inizio da una vocazione. Anche quelli che hanno cominciato tardi dicono: scrivo perché mio padre mi raccontava un sacco di storie, o perché ero figlio unico e dovevo inventarmi da solo le mie avventure, o perché anche da bambino sono sempre stato un ladro, un bugiardo e un seduttore, e insomma ero uno scrittore fin da prima di saperlo. Ci inventiamo delle origini, se non le abbiamo, per essere certi di fare quello a cui eravamo destinati. Non ci piace coltivare il dubbio di avere sbagliato strada. È raro che qualcuno dica: a diciott’anni ho provato a scrivere una storia e ho scoperto che mi piaceva. Avrei anche potuto fare altro nella vita, però è finita che ho fatto lo scrittore. Magari sarei stato più bravo come meccanico.

Io da bambino volevo fare il falegname. In montagna, possibilmente. Il falegname montanaro. Durante l’adolescenza invece avevo deciso che avrei fatto il barbone: leggevo Hesse in quel periodo, Narciso e Boccadoro, e quello era il tipo di barbone che volevo diventare, un libero cercatore, un cavaliere errante votato alla povertà. Nel frattempo, tutti sapevano che avrei fatto il matematico. Anch’io lo sapevo. Era la cosa che mi riusciva meglio da quando ero molto piccolo, un linguaggio che capivo d’istinto. Ed era pure il gioco più appassionante che conoscessi, quello con cui sfidavo me stesso. Ecco, se avessi preso quella strada ora potrei dire: fin da piccolo giocavo con i numeri, ho sempre saputo che avrei fatto il matematico. Però non è successo.
Quello che è successo, invece, è che ho scoperto le donne. La porta della letteratura me l’hanno spalancata a quindici anni le ragazze di cui mi innamoravo, e che non si innamoravano mai di me. Ho cominciato a provare un bisogno che non veniva soddisfatto dalla matematica. Avrei potuto buttare quattro stracci in un sacchetto, legare il sacchetto a un bastone e cominciare subito la mia carriera di barbone, ma ci voleva un bel coraggio per farlo, e mentre cercavo il coraggio leggevo, andavo in sala giochi con il mio migliore amico, ragionavo con lui sull’amore, la libertà, la morte, il motivo per cui le ragazze andavano sempre con quelli più grandi e gli altri misteri della vita.
Noi due avevamo cominciato a tenere un quadernetto, che chiamavamo il quaderno dei frasoni. I frasoni potevano essere indifferentemente aforismi di grandi filosofi, brani di romanzo, versi di canzoni o battute di film, o perfino qualcosa che qualcuno aveva detto sull’autobus per andare a scuola, purché illuminasse, a nostro parere, uno dei suddetti misteri della vita. Il mio amico era l’esperto di Emil Cioran e film americani, io di Hermann Hesse e buddismo zen. Nel nostro quaderno andavano forte anche i western di Sergio Leone, pieni com’erano di sentenze su cui meditare (“Ne ho incontrati tanti di uomini nella vita: bugiardi, ladri, codardi, preti, preti spretati, anche uomini onesti, ma uomini e basta mai”), le lezioni del professor Keating alla sua classe di poeti estinti (“Andai nei boschi per succhiare il midollo della vita, e non scoprire in punto di morte che non avevo vissuto”), e le sparate vagamente fasciste degli alpinisti degli anni Trenta (“E l'ebbrezza di quell'ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia. Osa, osa sempre, e sarai simile a un Dio”). Come si vede, l’ironia non era una qualità che ai tempi apprezzavamo. Eravamo terribilmente drammatici, e lo erano anche i frasoni. Nelle ore lentissime in cui avremmo dovuto imparare la chimica inorganica o la poesia italiana del Risorgimento, uno dei due diceva all’altro: “Mi passi il quaderno dei frasoni?”. Lo leggevamo e rileggevamo. Era lì dentro la nostra lezione. Cucivamo insieme quegli scampoli di verità per costruirci una veste più ampia, dentro cui saremmo stati finalmente le persone che volevamo diventare.
Poi, com’erano entrate, le parole cominciarono a uscire. Fu un processo del tutto naturale. Prendemmo l’abitudine di scrivere dei pezzi sul diario dell’altro (li chiamavamo i dedicozzi, che facevano il paio con i frasoni, dunque a ripensarci qualche tipo d’ironia ce l’avevamo). Erano meditazioni che ogni tanto diventavano storie vere e proprie: me ne ricordo una scritta dal mio amico, in cui si immaginava da vecchio mentre saliva una montagna. Aveva le gambe tremanti e camminava con un bastone. Un ragazzino all’inizio lo accompagnava, ma a un certo punto lui gli diceva: adesso vattene, da qui in poi devo proseguire da solo. Infine arrivava in cima, dove trovava una capanna di legno con il camino acceso e la sedia a dondolo, e sulla sedia a dondolo c’ero io, altrettanto vecchio e stanco, che gli dicevo: finalmente sei arrivato, ti aspettavo. Gli offrivo un bicchiere di vino, se mi ricordo bene. Lo stavo aspettando per morire. Nella sua storia avevamo avuto vite opposte, io da solo lassù in montagna e lui a esplorare le città e gli oceani, proprio come Narciso e Boccadoro, ma alla fine ci riunivamo per morire insieme.
I dedicozzi furono una buona palestra per il passaggio successivo, cioè le lettere d’amore alle ragazze. Ora non serviva più trovare un pretesto per incrociarle in corridoio, balbettare qualcosa di patetico nei bagni comuni: andavi dritto a cercarle in classe e con dignità consegnavi il tuo foglio a quadretti, strappato a un quaderno di matematica e piegato in quattro. Io diventai un produttore seriale di questi testi. Scoprii prestissimo che le lettere d’amore annoiano non solo chi le legge ma pure chi le scrive, perché dicono sempre la stessa cosa, e così al posto di lettere cominciai a scrivere storie, i cui protagonisti, seguendo l’intuizione del mio amico, eravamo noi due, cioè la ragazza e io. Nelle storie ci allontanavamo, ce ne andavamo in giro per il mondo, avevamo vite intense e dolorose e belle, poi ci rincontravamo e finalmente ci amavamo. Alle ragazze queste storie piacevano molto. Ne volevano sempre di nuove. Però scoprii anche che lo scrittore, con le ragazze, fa spesso la fine di Cyrano: tu scrivi e scrivi e le riempi di idee romantiche, poi arriva uno con la moto e se le porta via.

Comunque, nel gennaio del 1997 un liceo di Milano lanciò un concorso tra gli studenti delle superiori, per un racconto di cinque cartelle a tema libero. Arrivò una circolare che fu letta in classe e io pensai: eccomi, sono qui. Con una spontaneità che adesso rimpiango, quella sera mi sedetti sul pavimento della mia stanza e scrissi la storia di due uomini che viaggiavano in macchina lungo una strada deserta. Guidavo io, e il passeggero era il mio amico (avevo appena preso la patente e per anni avrei ambientato i miei racconti in macchina). C’era un terzo personaggio, una donna, che stava a casa e guardava fuori dalla finestra. Naturalmente era la ragazza che mi piaceva in quel periodo. Nel racconto stava un po’ con tutt’e due, e sembrava aspettare il loro arrivo. I due amici in macchina parlavano poco ma intanto dividevano una sigaretta, ascoltavano musica dall’autoradio, e più il viaggio proseguiva più avevi la sensazione di una tensione che si scioglieva: le parole tra loro riaffioravano, l’intimità veniva lentamente ricostruita. Così capivi che non stavano andando verso la ragazza, ma via dalla ragazza; che l’amore per la stessa donna era stato la causa del conflitto tra di loro, e che alla fine avevano deciso di rinunciare a lei e partire insieme. Anch’io e il mio amico ogni tanto avevamo problemi per via delle donne di cui ci innamoravamo, e questa storia era la mia risposta alla sua sulla montagna, il mio modo di immaginarci vecchi e di nuovo uniti. Finii il racconto la sera stessa e lo intitolai con il nome della ragazza, Bianca. Nel 1997 in casa non c’era ancora il computer, così domandai a una vicina se potevo andare a batterlo da lei: aprii un programma di scrittura per la prima volta in vita mia, copiai il racconto usando due dita e mettendoci mezza giornata, lo stampai e vederlo stampato mi sembrò un miracolo, lo misi in una busta e lo spedii al concorso. Dove poi andò bene, e quel risultato mi spinse a continuare. Non avrei mai sperato di ritrovare l’articolo in cui se ne parlava, invece eccolo qui: e così, da qualche parte in rete, ho ancora diciannove anni e sono un ragazzo della quinta D.

Ecco, questa è la storia del mio primo racconto. Ora torno a occuparmi del ventisettesimo. Liberato il cassetto dalle vecchie scartoffie, è tempo di cominciare a riempirlo con le scartoffie nuove. Buon anno a tutti.