mercoledì 30 settembre 2009

OLIVE KITTERIDGE

Nella vita di un lettore ci sono lunghi periodi bui. Apri un romanzo e lo abbandoni a pagina sei, cominci un racconto e dopo poche righe stai già pensando ad altro. Ti sembra che niente, nel gioco della narrativa, riesca più a procurarti piacere. È finita la magia, calato il sipario sulla credulità infantile; forse sei irreversibilmente cresciuto. Dovrai abituarti a nuovi riti. Niente più lunghi pomeriggi in poltrona, in cui dimenticavi tutto e quando alzavi gli occhi dal libro era già buio. D’ora in poi leggerai Vespa e Veltroni la domenica mattina. Da grande, parlerai solo di romanzi scritti cinquant’anni prima. Succede a tutti, come tagliarsi i capelli e ammucchiare i vecchi dischi in uno scatolone: ora è successo anche a te.

Poi invece capita di trovare libri che ti danno quella vecchia, cara sensazione. E così tiri un sospiro di sollievo e pensi: ma allora non era colpa mia. Era colpa loro. Con Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout, a me sembra di essere tornato ai tempi in cui leggevo L’isola del tesoro. La mattina scendo dal letto un po’ prima per leggere il prossimo racconto. La sera rinuncio perfino alla briscola chiamata online. Durante il giorno cammino a testa alta pensando: non è tutto finito. Ci saranno nuove storie da leggere, anche se forse saranno sempre meno e sarà sempre più dura trovarle. Non ho ancora tagliato i miei capelli, come cantavano Crosby Stills Nash & Young.

Intanto, dato che di questi tempi è necessario dire le cose chiare: Olive Kitteridge è una raccolta di racconti. Per confondere le acque, e illudere il lettore occasionale di trovarsi di fronte a un romanzone, sulla quarta di copertina viene paragonato a Via col vento, Furore e Il vecchio e il mare, che non c’entrano nulla uno con l’altro e nemmeno con questo, se non per il fatto che hanno vinto tutti il Premio Pulitzer. Altro colpo basso: nel libro non c’è l’indice. È una raccolta di racconti il cui editore italiano, Fazi, ha deciso di omettere l’indice, in modo che sembri un romanzo. Invece quelli del Pulitzer non si fanno problemi nella motivazione del premio: A collection of 13 short stories set in small-town Maine that packs a cumulative emotional wallop, bound together by polished prose and by Olive, the title character, blunt, flawed and fascinating.

Sono tredici racconti ambientati nella cittadina immaginaria di Crosby, Maine. In alcuni la protagonista è una donna di mezz’età, Olive Kitteridge; in altri Olive è solo una comprimaria; in altri ancora, come La pianista o Concerto d’inverno, entra in scena appena per un paio di righe, tanto per tenere insieme la raccolta. È una donna antipatica, invidiosa, maldicente, oppressiva con il marito e il figlio, e infatti il secondo a un certo punto se ne va a vivere in California, e il primo taglia la corda grazie a un ictus provvidenziale. Ci vuole del coraggio per costruire un libro intorno a un tipo così.. Eppure, miracolosamente, alla fine ti affezioni a Olive, alla storia del suo matrimonio e alle disgrazie del suo vicinato, al paesello di Crosby e ai suoi suicidi, aspiranti suicidi, depressi, accoltellatori di fidanzate, madri di accoltellatori di fidanzate, cacciatori che si fucilano a vicenda, vedove di cacciatori che non escono più di casa, pianiste in là con gli anni e alcolizzate, pretendenti timidi di pianiste in là con gli anni e alcolizzate, rapinatori di farmacie, farmacisti che si innamorano di commesse grigio-topo un po’ ingobbite. Quasi quasi, vorresti andare a viverci.

Libri che Olive Kitteridge mi ricorda:

Peter Orner, Esther Stories (in particolare la sezione intitolata “Storia di un matrimonio”. Ma i racconti della Strout sono meno fulminei, più distesi).

Ann Tyler, Un matrimonio da dilettanti (soprattutto i racconti che riguardano il rapporto tra Henry e Olive).

Alice Munro in Segreti svelati, o in Nemico amico amante: quelle strane storie in cui la vita ordinaria di persone normali prende una piega gialla, e un evento casuale basta a sconvolgere un’esistenza. Il primo racconto, Farmacia, potrebbe essere uno dei suoi per l’abilità con cui salta avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori dalla testa dei personaggi. Non tutti sono alla stessa altezza. Ma Alice Munro è la maestra del racconto, Elizabeth Strout è su un’ottima strada.

Infine, questo libro mi ha riportato dritto a un viaggio di quattro anni fa.

Cose che mi ricordo del Maine: gli astici, anche se tutti pensano che siano aragoste. Ne pescavano a tonnellate, li mangiavi ovunque. Mi ricordo un chiosco per la strada, come i chioschi delle angurie da noi, dove tuffavano gli astici in un pentolone d’acqua bollente e te li servivano con le patatine fritte su un piatto di carta. Mi ricordo l’uomo-astice che ho visto sul retro di un ristorante a Portland. Poco prima stava lavorando all’ingresso, con il suo costume da astice e i volantini e gli slogan per attirare i clienti. Poco dopo aveva fatto una pausa: sul retro del ristorante era entrato in macchina e aveva preso un pacchetto di sigarette dal cruscotto. Ora fumava una sigaretta seduto sul cofano, con la testa d’astice sfilata che gli pendeva sulla schiena, contemplando l’oceano. Per motivi noti soltanto ai lettori di Rick Moody quell’immagine mi ha commosso (“Maschera di pollo era il ritratto della tristezza, sorellina”). Mi ricordo il motel con i cottage di legno e il bosco tutt’intorno, e le penisole lunghissime tra un fiordo e l’altro. Una di queste l’ho percorsa fino al capo. In fondo non c’era un villaggio né un porto né niente, solo un vecchio faro a qualche centinaio di metri dal molo. Per la bassa marea, il pezzo di mare tra il molo e il faro era una distesa di fango. Una turista tedesca seduta su una panchina stava leggendo un libro - se mi fosse successo ora avrei giurato che fosse Olive Kitteridge. Quando la marea è salita, una barchetta a motore ha attraccato proprio davanti a me. A bordo c’erano due ragazzi con la barba e i capelli lunghi, e siccome uno aveva i capelli rossi e l’altro neri, ho pensato che potevamo essere io e il mio migliore amico, che proprio quel giorno mi mancava. I ragazzi hanno scoperto le nasse e cominciato a scaricare gli astici in certi vasconi di plastica, e io ho immaginato me e il mio migliore amico che ci trasferivamo nel Maine e facevamo i pescatori. Ho pensato al vecchio Santiago e al ragazzo, a Forrest Gump e al tenente Dan, a Santiago quando gli squali gli hanno ormai mangiato tutto il pesce e al tenente Dan aggrappato all’albero di vedetta, senza gambe sotto la tempesta, che grida a Dio non ce la fai a tirarmi giù, è tutto qui quello che sai fare? Io e il mio amico saremmo stati pescatori del genere. Dentro le nasse erano rimasti anche dei granchi, ma per qualche motivo nel Maine i granchi non si mangiano, o è vietato pescarli, e così i ragazzi li prendevano e li ributtavano in mare.

Elizabeth Strout, Olive Kitteridge

(Traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Editore)

martedì 15 settembre 2009

MAESTRE RITROVATE

Sono tortuose le strade che portano a leggere un libro. Mi ricordo bene, verso i sedici anni, la sensazione di vertigine che provavo entrando in biblioteca (allora, senza soldi, prendevo i libri in prestito o li rubavo; adesso al contrario ne compro troppi, più di quelli che riesco a leggere; forse quando sarò vecchio tornerò a fregarmene di accumulare carta, e possiederò solo il libro che sto leggendo). Migliaia di titoli, epoche e luoghi, e un esercito di scrittori morti che mi osservavano dagli scaffali, minacciando di crollarmi addosso come gli scheletri di Indiana Jones. Di certo lì dentro c’era quello che faceva per me, però come facevo a trovarlo? Il mio libro mi stava aspettando in qualche angolo di quel labirinto, e io non sapevo nemmeno da dove cominciare (credo di avere letto tutta Isabel Allende e tutto Paul Auster solo per evitare di vagare in preda al panico nella biblioteca di quartiere). Poi ho scoperto il sistema delle scatole cinesi. I libri sono pieni di indizi per arrivare ad altri libri, se uno è pronto a coglierli e a risalire la corrente. Così, a diciassette anni sono stato folgorato da un romanzo chiave per la mia generazione, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Devo averlo riletto tre o quattro volte, e poi ho cominciato a notare le tracce che gli scrittori seminano sempre, perché raccontando una storia sentono il bisogno di dire da dove vengono, di fare i nomi dei loro maestri. Anche Brizzi era stato generoso. Nel romanzo, il protagonista leggeva Due di due di Andrea De Carlo: e io sono tornato in biblioteca, ho preso in prestito Due di due, me ne sono innamorato, in qualche mese ho letto l'opera completa di De Carlo (tuttora penso che i suoi primi cinque o sei libri siano da conservare; poi ne sono arrivati un paio che mi hanno molto deluso; gli ultimi non li ho letti). Un altro indizio seminato da Brizzi: sulla prima pagina del suo romanzo c’era una dedica ad Andrea P. e T., che hanno disegnato e scritto. Questa è stata una ricerca più ardua ma alla fine ho decodificato i nomi di Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli, e così anch’io ho conosciuto le storie di Pier. E poi sono andato avanti a scoperchiare scatole: di Tondelli non solo ho letto Altri libertini, ma ho esplorato il lavoro che faceva con gli aspiranti scrittori, scoprendo che a tutti consigliava Hubert Selby Junior, Ultima fermata a Brooklyn. L’incontro con Selby mi ha spalancato le porte di un mondo in cui sono tuttora immerso. Appena tre gradi di separazione e da Jack Frusciante - quel tascabile nascosto sotto al banco di liceo tra le gomme appiccicate e le barzellette sporche - ero arrivato alla letteratura americana del dopoguerra. (A proposito di americani, di gradi di separazione e pure di banchi di liceo, vi ricordate che cosa legge Holden Caulfield prima di scappare dal collegio? Secondo me non ve lo ricordate. La mia Africa. A Holden non piace mai niente, meno di tutto quello che è finto e pretende di sembrare vero, e invece La mia Africa lo appassiona. Se ne sta lì da solo a leggere Karen Blixen quando arriva il vecchio Stradlater a pulirsi le unghie e rompere i maroni. Così l’ho letto anch’io, cercando di non pensare troppo a Meryl Streep e Robert Redford, anche se non è stato facile. Aveva ragione Holden, è un gran bel libro. Leggendolo si capisce bene come mai piacesse tanto a Salinger.)

Ora, perché ho raccontato questa storia? Perché c’è un nome che mi perseguita da più di dieci anni, cioè dai tempi in cui lessi Ballo di famiglia di David Leavitt. Nell’introduzione a quel libro, Fernanda Pivano faceva parecchi nomi. Era il testo con cui nel 1987 presentava il minimalismo letterario al pubblico italiano, citando ampiamente un saggio-manifesto di un paio d'anni prima, New Voices and Old Values, in cui lo stesso Leavitt definiva le caratteristiche del nuovo movimento. Dunque la Nanda ne individuava il padre e la madre in Raymond Carver e Grace Paley, e gli esponenti più notevoli (“autori ormai quasi tutti popolari anche in Italia, o che lo diventeranno presto”) in Marian Thurm, Peter Cameron, Meg Wolitzer, Bobbie Ann Mason, Ann Beattie, Amy Hempel, Elizabeth Tallent. Nomi di scrittori americani, acqua per mia gola arsa. Io all’epoca non ne conoscevo neanche uno. La mia biblioteca di quartiere ne era sprovvista, ma non era colpa sua: era l’editoria italiana che li aveva persi per strada. Solo in anni più recenti è cominciato un lavoro di recupero dei maestri dimenticati, e pazienza se scrivevano racconti brevi: e così anche noi abbiamo letto le storie di Eudora Welty e Kathrine Mansfield, e di John Cheever, Donald Barthelme, Mary Robinson, Richard Yates. Ora è la volta di Amy Hempel. Ecco il nome che mi perseguitava. I suoi unici testi tradotti in italiano erano fuori dalla circolazione da quasi vent’anni. In America è considerata una maestra e più di una volta, a New York, ho preso in mano uno dei suoi libri, l’ho sfogliato e alla fine l’ho rimesso nello scaffale. Non era diffidenza né altro. Semplicemente, il suo inglese era troppo difficile per il mio. Per fortuna adesso ci ha pensato Mondadori, pubblicando in un solo libro le quattro raccolte di racconti che Amy ha scritto: Ragioni per vivere (1985), Alle porte del regno animale (1990), Rientrata (1997), Il cane del matrimonio (2005). Io ci vado giù pesante con gli editori, specialmente con quelli industriali, ma questa volta mi inchino di fronte a un’operazione che non porterà nessun ritorno economico: dico grazie a chiunque, in Mondadori, abbia avuto l’idea di pubblicare questo libro. I racconti di Amy Hempel sono difficili. Spesso sono lunghi solo due o tre pagine. Per gli appassionati della questione Carver-Lish, riporto la frase che chiude la raccolta: Con uno speciale ringraziamento a Gordon Lish, editor del mio primo e secondo libro, per la conversazione durata trent’anni. Dunque pare che lo spietato aguzzino abbia fatto anche del bene. Non so se con Amy Hempel abbia usato la sua leggendaria mannaia, ma di certo queste storie sono oscure, ermetiche, ellittiche, lavorate in modo maniacale. In questo senso mi ricordano quelle di Lydia Davis. Parlano di persone normali in situazioni normali, anche se nel mondo di Amy Hempel la normalità delle persone è più vicina all’ossessione, alla nevrosi, alla malattia mentale che a una pacifica, monotona lucidità. Alcuni racconti mi hanno spiazzato, a volte anche disturbato, però senza commuovermi. Altri li ho letti più volte perché mi hanno colpito al cuore: credo che tutti siano da rileggere e meditare, senza fretta di passare al successivo, prestando attenzione alle parole. Se siete persone più pazienti di me, uno al giorno potrebbe andar bene. In fondo Amy Hempel ci ha messo vent’anni per scriverne 48. Copio qui un pezzo del quarantaquattresimo, a me è piaciuto molto, poi fate voi.

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COS’ERANO LE COSE BIANCHE?

Queste stoviglie sono una compagnia di repertorio, recitano una parte in ogni sogno. No, non cominciò così. Disse che le stoviglie recitavano una parte in ogni quadro. L’artista proiettava diapositive delle nature morte che aveva dipinto nell’arco di più di trent’anni. Qualcuno fra il pubblico ristretto e attento chiese: “Quella tazza non era in un quadro di qualche anno fa?”. Sì, infatti, disse l’artista, e anche la caraffa, la terrina e il calice. Chi era la donna nuda appoggiata al tavolo sul quale erano disposte le stoviglie? L’artista non lo disse, e nessuno fra il pubblico ristretto e attento lo chiese.

A me bastava guardare gli oggetti su cui per tanti anni si era concentrata l’attenzione di un uomo di talento. Ero capitata alla conferenza mentre ero diretta altrove, a un appuntamento con uno specialista fissato dalla mia dottoressa. Due giorni prima mi aveva fornito il suo nome e l’indirizzo, e devo ammettere che avevo smesso di ascoltarla, anche se - o proprio perché - era importante. Così, anziché andare nello studio del radiologo, ero entrata nella chiesa sconsacrata dove si teneva la presentazione dell’artista, annunciata fuori con il titolo: “Trovare il mistero nella chiarezza”. Non era forse il contrario di quel che cercava la maggior parte delle persone?

Le stoviglie erano bianche, non smaltate, ed erano dipinte in modo realistico. I vari pezzi proiettavano ombre di lunghezza diversa in ogni dipinto, a seconda del taglio della luce. A volte erano allineati in modo da toccarsi, e a volte rimanevano spazi vuoti tra uno e l’altro. Quegli spazi vuoti erano parte del mistero che l’artista aveva in mente? Voleva che li prendessimo alla lettera, che pensassimo: assenza? Disse che la mente vuole comprendere il significato delle cose, vuole sapere quello che rappresentano. D’accordo, disse l’artista, ecco cosa ho dipinto quel settembre. Sullo schermo apparve un tavolo ben noto - perché da anni figurava nelle sue nature morte - mentre le due stoviglie più alte, la caraffa e il vaso, erano sparite; al loro posto non c’era niente.

Ahhh, fece il pubblico ristretto e attento.

Poi qualcuno chiese all’artista: “Cos’erano le cose bianche?”. Voleva dire le cose bianche negli altri quadri. Che cosa rappresentavano? E l’artista disse che non intendeva rispondere a quella domanda.

Amy Hempel, Ragioni per vivere

(Traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori 2009)


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La seconda maestra ritrovata è Ann Beattie, di cui minimum fax pubblica il romanzo d’esordio, “Gelide scene d’inverno”, del 1976. La sua assenza dalle librerie italiane è ancora più inspegabile di quella di Amy Hempel, perché la carriera di Ann Beattie non ha nulla di ermetico e oscuro: in 33 anni ha pubblicato sette romanzi e otto raccolte di racconti. Per i racconti, in particolare, è stata più volte accostata a gente come Cheever e Salinger. Era una buona amica di Carver: io l’ho sentita descrivere il loro rapporto nell’unico documentario biografico che esista su di lui, “To write and keep kind”, del 1992 (un brutto film, ma un documento prezioso). Così incrocio le dita e spero che i miei amici di minimum fax abbiano in cantiere anche i suoi racconti, in particolare il best of che in America è uscito una decina d’anni fa con il titolo di “Park City”.

A proposito di titoli: quello originale del romanzo, “Chilly Scenes of Winter”, anticipa il film che pochi anni dopo avrebbe segnato un’epoca: “The Big Chill” (Il grande freddo). Anche in questa storia i personaggi fanno i conti con la fine delle illusioni. Ann Beattie è del ’47, perciò ha vissuto in piena adolescenza la febbre degli anni Sessanta: e infatti la colonna sonora del libro corre parallela a quella del film. Ma nel 1976 Brian, Janis, Jimi e Jim sono già morti da un pezzo, e il protagonista Charles si trova a fare i conti con un padre che non c’è più, una madre che è uscita di testa e ogni tanto prova ad ammazzarsi, un patrigno che potrebbe essere eletto come Americano Medio dell’Anno e un grande amore, Laura, donna sposata che prima va a vivere con Charles, poi torna dal marito (un ex giocatore di football soprannominato “il Bue”), poi lascia marito e figlia e prova a stare da sola, in cerca di se stessa. La storia è più o meno tutta qui. Ma più che la trama, credo che l’importanza di questo libro sia nel ritratto di una generazione: quella dei trentenni colti e benestanti che da ragazzi vissero la rivoluzione culturale e da adulti furono travolti dal riflusso, e nel frattempo avevano perso ogni riferimento riguardo alla famiglia e alla coppia. Janis Joplin canta molto spesso in Gelide scene d’inverno, ma è un passato che sembra già remoto. Il futuro prossimo, annunciato come una cappa di umidità all’orizzonte, è Reagan, lo yuppismo, il vuoto pneumatico degli anni Ottanta. C’è una domanda ricorrente che Laura fa a Charles, il quale è un innamorato all’antica, del tipo ossessivo-persecutorio: perché ti piaccio così tanto? Che cosa trovi di così irresistibile in me? Che cosa ho in fondo di speciale? Forse, Laura, è solo che sei diversa da tutto quello che c’è fuori. A me sembra che succeda così. Forse amare Laura è un modo per conservare quello che è stato, e che è perduto per sempre.

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Per un po’, quando le cose fra loro andavano a gonfie vele, parlando con Laura a Charles era capitato di dimenticarsi che non avevano passato insieme tutta la vita. Le nominava i suoi compagni delle medie e dava per scontato che li conoscesse anche lei, le raccontava di come aveva mentito per non entrare nell’esercito e si dimenticava che non le aveva mai detto una parola sull’esercito. Laura non gli raccontava mai molto del suo passato. La madre era morta quando lei andava alle superiori. Charles non ha idea di che fine abbia fatto il padre, se sia vivo o morto. E non si ricorda dov’è andata alle superiori. In Virginia, ma quale parte della Virginia? Durante le superiori ha lavorato come cameriera. Ma gli ha mai raccontato com’era, fare la cameriera? Gli ha mai raccontato un aneddoto buffo? Gli pare di no. Laura ha un fratello che gestisce un rifugio per cacciatori. Non lo vede da anni. Una volta per Natale le ha mandato una testa di cervo. E poi che altro, che altro sa di Laura?

I capelli di Laura sono sempre elettrici. Lei cosparge la spazzola di lacca spray, sperando di risolvere così il problema. Il suo Beatle preferito è George Harrison. Non ha mai dovuto portare l’apparecchio per i denti. Le piacciono i saponi costosi, dal profumo delicato. Ha i capelli lunghi e mossi. Quando si è comprata la prima macchina era esaltatissima, anche se era una macchina vecchia. All’università prendeva voti discreti. La prima volta che ha bevuto è stata a diciott’anni, un rum collins. Adesso beve scotch. Le fanno pena le giraffe. Non le importa cosa ci mettono sulla pizza, purché non siano alici. Però le piace la Caesar Salad, ed è rimasta sorpresa quando ha scoperto che dentro c’erano anche le alici tritate. Le piace Jules e Jim. Ha pensato di fare la regista. Una volta ha visto Otto Preminger per strada. Certo che è sicura che era lui. Cuoceva striscioline di carne, mandorle e verdure nel wok, coltivava violette che avevano gli stessi colori dei suoi saponi a tinte pastello, si faceva la doccia con l’acqua troppo calda per lui. Una volta gli ha chiesto perché si festeggiava il Primo Maggio. Non si ricorda bene i nomi e le date e non si sente troppo in colpa per questo. Ha i piedi lunghi. I piedi lunghi e magri. I macellai sono gentili con lei, i benzinai le puliscono il parabrezza.

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Ann Beattie, Gelide scene d’inverno

(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2009)

lunedì 7 settembre 2009

IN LETTURA

Tornato dalla spedizione al Momboso, sconfitto nel corpo ma non nello spirito, ricomincio dai miei americani. Bisognerebbe parlare di Fernanda Pivano ma vorrei farlo bene, dopo avere ordinato le idee. Per ora, ecco un po’ di libri letti e in lettura.

Jay McInerney, L’ultimo scapolo (Bompiani).

Ecco la raccolta dei racconti scritti da McInerney in una carriera di lavoro. Tra il primo (“Sono le sei del mattino. Sai dove ti trovi?”, che poi fu sviluppato per diventare Le mille luci di New York) e l’ultimo (“L’ultimo scapolo”, storia di un playboy invecchiato male che in un certo senso chiude il cerchio dello yuppismo), sono passati 25 anni. A me hanno colpito due fatti: primo, la maestria con cui queste storie sono scritte; secondo, il vuoto assoluto che c'è dentro. Qui gli uomini vogliono andare a letto con donne giovani, e le donne sposare uomini ricchi. L’esperienza umana, nel mondo narrativo di McInerney, si riduce più o meno a questo. Fanno eccezione pochi racconti, tra cui il mio preferito, “Corteo”: a New York una donna, che aveva lavorato come volontaria a Ground Zero nei giorni successivi all’Undici Settembre, si ritrova in mezzo a un corteo di protesta contro la guerra in Iraq. L’atmosfera si surriscalda, i manifestanti vorrebbero arrivare davanti al palazzo dell’ONU ma le vie d’accesso sono state transennate, volano slogan sempre più furiosi, qualcuno cerca di sfondare e interviene la polizia a cavallo. In mezzo agli scontri la donna ha questa visione: un poliziotto che lei ricorda bene, perché nel settembre 2001 avevano lavorato insieme, adesso mena manganellate alla folla dall’alto del suo cavallo. Così scopre che quei tempi, in cui la tragedia delle Torri aveva unito i newyorkesi (e forse gli americani) in un unico popolo, sono finiti per sempre. La scena è bellissima, poi però salta di nuovo fuori il chiodo fisso di McInerney: la donna fugge verso casa pensando che ha voglia soltanto di farsi scopare fino a svenire. E va bè, ognuno ha i suoi problemi.

Richard Yates, Una buona scuola (minimum fax)

Il romanzo è un gradino sotto il solito livello di Yates. Non significa che sia un bidone, ma non colpisce duro come gli altri. Il problema maggiore secondo me è nella narrazione collettiva: c’è un personaggio più o meno centrale (e infatti il primo e l’ultimo capitolo, che sembrano aggiunti su consiglio di un editor, cercano di elevarlo a protagonista), ma tutto il libro è costruito in montaggio alternato, seguendo le vicende di studenti, professori, mogli e figlie di professori, un piccolo mondo chiuso all’interno di un collegio maschile, nel New England dei primi anni Quaranta. Tecnicamente, il tentativo di costruire un affresco generazionale sconta un prezzo salato: io non sono riuscito ad affezionarmi a un solo personaggio. Per epoca e ambientazione mi è stato difficile non pensare continuamente a due modelli: uno è L’attimo fuggente, l’altro Il giovane Holden. Forse è proprio per colpa di Holden che Yates non se l’è sentita di seguire da vicino il suo alter ego, un ragazzino di New York che viene spedito in collegio, e dopo un inizio durissimo comincia a farsi strada scrivendo sul giornalino scolastico. Penso che il libro sarebbe stato migliore se si fosse concentrato su di lui.

In lettura: David Foster Wallace, Questa è l’acqua (Einaudi)

Non so, forse dovrei fondare un comitato di protesta contro le bandelle di Einaudi Stile Libero. Ormai non ne trovo una che dica onestamente che cosa c’è dentro il libro. Su questa leggo: “I sei racconti di Questa è l’acqua, scritti tra il 1984 e il 2005, offrono uno sguardo di insieme sulla straordinaria avventura artistica di Wallace, e una summa delle sue tematiche nei diversi stili con cui le ha affrontate ed esaltate”. Poi apro il libro e, per un mio vizio incurabile, vado a controllare le date dei racconti: ce n’è uno del 1984, due del 1987, uno del 1989, uno del 1991. Poi c’è la trascrizione di un discorso tenuto da Wallace nel 2005. Dunque si tratta, in realtà, di cinque racconti giovanili (Wallace esordisce nel 1987 con La scopa del sistema, e la sua prima raccolta di racconti, La ragazza dai capelli strani, è del 1989), più un saggio recente. Non sei racconti. Non sei racconti scritti tra il 1984 e il 2005. Non uno sguardo di insieme sulla straordinaria avventura artistica né una summa delle sue tematiche, ma piuttosto, come diceva dei suoi primi racconti Thomas Pynchon, un lento apprendistato, la palestra di uno scrittore che stava per diventare grande.

Dopodiché, come al solito, le balle redazionali non c’entrano nulla con la qualità del libro. Nella postfazione, il curatore Luca Briasco illustra molto chiaramente la genesi e la natura di questa raccolta. Io per ora ho letto i primi tre racconti e posso dire che mi sembrano buoni, ma assolutamente inferiori a quelli della Ragazza dai capelli strani (e infatti qualcuno, un editor o lo stesso Wallace, nel 1989 ha deciso di lasciarli fuori, e in seguito di non recuperarli per altre antologie). Invece il testo finale, “Questa è l’acqua”, è un piccolo capolavoro per chi, come me, ha il culto della scrittura raccontata dagli scrittori. Parla, credo, della consapevolezza e della lucidità, della compassione e dell’immedesimazione, dell’attenzione costante alla sostanza in cui siamo immersi, le doti necessarie a un bravo scrittore ma anche a un essere umano decente. Il testo vale da solo il prezzo esorbitante del libro (un dettaglio a cui non faccio mai caso, ma questa volta è un tascabile da 16,50 euro per 166 pagine, cioè 10 centesimi a cartella: mi sono perso qualche impennata recente dell’inflazione?).

In lettura: Ann Beattie, Gelide scene d’inverno (minimum fax)

Ma questa è un’altra storia e, come direbbe Michael Ende, la racconteremo un’altra volta. Prevede anche una sorpresa, perciò segnatevi la data del 9 ottobre e state all’occhio.