domenica 22 marzo 2009

CATERINA SULLA SOGLIA

Non ci sono soltanto brutte notizie in questi giorni, ed è ancora possibile fare libri senza fare i tagliagole, i commercianti col dito sulla bilancia, i pubblicitari. Esce, per l’editore Terre di Mezzo, un libro che ho a cuore come se fosse mio: Caterina sulla soglia, di Susanna Bissoli. Non so nemmeno da dove cominciare a parlare di questa raccolta di racconti. Forse da qui: verso la fine del 2006 la Shake Edizioni, che nella sua lunga e gloriosa storia si è sempre occupata di saggistica politica, mi aveva proposto di curare e dirigere una collana di narrativa. Io avevo accettato con l’entusiasmo di un mozzo a cui viene offerto di imbarcarsi su una nave pirata. Per prima cosa, mi era sembrata una buona idea organizzare una serie di incontri per raccogliere consigli. Uno fu con Davide Musso, editor di Terre di Mezzo, che proprio allora cominciava un’avventura simile: dividendo un panino e una birra in piazza Vetra ci raccontammo le nostre difficoltà e i nostri desideri, promettendoci aiuto reciproco se ce ne fosse stato bisogno. Un altro incontro fu con Matteo B.Bianchi, questa volta a casa mia, davanti a un cosciotto d’agnello innaffiato da succo d’uva: Matteo dirige da anni una delle migliori riviste letterarie italiane, e quanto a fiuto per il talento non lo batte nessuno. Durante quella cena, tra i nomi che Matteo mi fece c’era appunto quello di Susanna Bissoli. Era il primo della lista. Il modo in cui me ne parlava era più o meno questo: è un mistero che non l’abbia ancora pubblicata nessuno, perché secondo me è bravissima.

Da allora sono successe un po’ di cose. Tra queste il laboratorio di scrittura al Circolo Malacarne di Verona, che Susanna mi ha invitato a tenere completamente al buio, senza conoscermi né avermi mai visto in faccia. È stato il luogo magico in cui è nata la nostra amicizia, oltre ad alcuni dei racconti pubblicati in questo libro. Susanna usciva da una lunga malattia, ed era in uno stato di grazia tale che bastava dirle: scrivi una cartolina a un vecchio amico, o racconta la prima bugia che ricordi di aver detto da bambina, o descrivi una foto di famiglia, e lei se ne usciva con una storia che era già pronta per la tipografia. Tra le altre cose successe in quel periodo, l’avventura con la Shake è finita ancora prima di cominciare. Non è che sono sceso dalla nave, è proprio che sono rimasto all’osteria del porto. Ho messo il naso dentro il mondo editoriale e ho capito che non era il mio mestiere. A quel punto sono tornato da Davide e, memore della vecchia promessa, gli ho detto più o meno quello che Matteo aveva detto a me: devi pubblicarla, perché è bravissima. E adesso, ragazzi, finalmente ci siamo.

Ho passato molto tempo a scrivere e riscrivere un testo che potesse accompagnare questo libro, e ora non saprei immaginarne uno diverso. Eccolo qui. Le vite delle persone non sono romanzi, sono raccolte di racconti. Frammentarie, discontinue, disseminate di buchi neri e illuminate da verità intraviste, manipolate dalla memoria che filtra, cancella, riordina, riscrive. È il modo in cui Susanna Bissoli ci racconta le soglie di Caterina. Infilando nella cordicella del suo primo libro le perline colorate di tutti gli addii e le partenze, tutte le esperienze di perdita che una vita può sopportare: dell’infanzia, della madre, dell’amore, del corpo, della terra sotto i piedi. Leggendo queste sedici storie, la voce che mi suona in testa è quella di Grace Paley. Anche la scrittura di Susanna riesce a maneggiare la malattia e il dolore, perfino a ballare con la morte restando miracolosamente gioiosa. La gioia che c’è dentro è gioia dell’incontro, di avere a che fare con altri esseri umani, di scoprirli tutti diversi e tutti strani. È gioia di ricordare, raccontare, giocare con le parole della memoria: il dialetto veneto dell’infanzia, il greco della libertà e dell’amore, l’italiano zoppo dei migranti in cui, prigioniera di casa sua, a Caterina sembra di ritrovare la voce del mondo.

A volte è difficile dire che cosa si prova, e a volte invece è facilissimo. Quando è uscito il mio primo libro ero felice e triste: felice perché il mio grande sogno si stava realizzando, e triste perché da quel momento bisognava trovarne un altro, o rassegnarsi a vivere senza. Oggi, invece, sono felice e basta. Brava Susi, non so neanche più quante volte te l'ho detto. Brava. Ti mando un enorme abbraccio.

martedì 17 marzo 2009

PRINCIPIANTI

Dieci anni fa, il 27 aprile 1999, sulle pagine culturali di Repubblica usciva un articolo di Alessandro Baricco. Il titolo: L’uomo che riscriveva Carver. Il contenuto: Baricco fa un viaggio in America, e nella biblioteca di una piccola università trova i dattiloscritti originali della seconda raccolta di Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, corretti a mano dall’editor Gordon Lish. La lettura dei testi ha un esito sorprendente. Lish ha cambiato il titolo e il finale di quasi tutti i racconti, ha tagliato interi paragrafi, ha perfino riscritto di suo pugno alcune frasi. Nell’articolo Baricco sottolinea diversi difetti dei testi originali, e tira queste conclusioni: il Carver genuino era pur sempre un bravo scrittore, ma non il maestro che credevamo noi. Il genio minimalista, quello che avrebbe influenzato tutta la letteratura occidentale, era un corpo con due teste, quelle di Raymond Carver e di Gordon Lish. Il tono in cui queste conclusioni venivano tirate era più o meno il seguente: cari lettori di Carver, sapete che cosa ho scoperto? Che siamo stati truffati. Il nostro scrittore preferito era in realtà un’abile operazione editoriale.
Fino a qui tutto bene. Il mio Carver preferito è quello di Cattedrale, e la scoperta non mi ha ferito più di tanto. Ho sempre pensato che quei racconti picchiano duro al primo colpo, ma alla distanza rivelano una certa freddezza meccanica, tradiscono il lavoro fatto a tavolino. La domanda però era questa: come mai Baricco si prende la briga di andare fino a Bloomington, Indiana, chiedere il fondo Lish a una gentile bibliotecaria, tirare giù uno scatolone pieno di dattiloscritti e perdere tutto quel tempo a studiarli, per raccontare a noi questa storia? È una cosa che ha fatto perché gli andava, o ce l’ha mandato qualcuno? Ce l’ha mandato Repubblica? E in questo caso perché?
Dettaglio numero uno. La notizia non era esattamente uno scoop. Era uscita, pari pari, sul New York Times di quasi un anno prima, nell’estate del 1998. Così la luce sulla questione comincia a cambiare: nell’aprile del 1999 la redazione culturale di Repubblica decide di rispolverare una vecchia notizia, mandando uno dei più famosi scrittori italiani negli Stati Uniti per compiere ricerche inutili, dato che tutto era già stato verificato e descritto da un giornalista del New York Times mesi prima.
Dettaglio numero due. All'epoca dell’uscita dell’articolo, la casa editrice minimum fax si era appena aggiudicata i diritti italiani dell’opera di Carver, battendo nella gara un colosso come Einaudi. Il piano editoriale prevedeva di pubblicare uno alla volta tutti i suoi libri, una decina circa, in una collana progettata apposta per lui. E sapete quando uscì il primo di questi libri (Racconti in forma di poesia)? I più cinici di voi l’avranno già indovinato. Marzo 1999. Appena prima dell'uscita dell'articolo.
Insomma la teoria del complotto è formulata così: Einaudi perde l’asta per pubblicare Carver e decide di compiere un’azione di sabotaggio. Prende un vecchio articolo del New York Times. Assolda il sicario Baricco. Si compra la pagina culturale di Repubblica (che non dovrebbe essere in vendita, non essendo una pagina pubblicitaria, ma questo è un altro discorso; e un altro discorso ancora è come mai Baricco si presti a questa roba). E spara la bordata del 27 aprile: Carver è una truffa, un’operazione commerciale.
Ora mi chiederete: come mai salti fuori con questa storia a dieci anni di distanza? Perché, come raccontavo tempo fa, i diritti editoriali a un certo punto scadono. La durata dipende dal contratto che era stato firmato, e in questo caso era proprio di dieci anni. Nel 2008, scaduto l'accordo con minimum fax, la vedova di Carver ha rivenduto tutto a Einaudi, immagino cedendo a un’offerta economica che non si poteva rifiutare. In questi giorni esce il primo libro, e sapete che libro è? Si intitola Principianti e non risulta nella bibliografia ufficiale di Raymond Carver. Sono le versioni originali dei suoi racconti, ancora intatte dall’accetta-bisturi di Gordon Lish. Le cartelline che quel giorno del 1999 Baricco era andato a cercare nella biblioteca dell’università di Bloomington, Indiana. Proprio loro.
Ora, io sono contento che questo libro esista. Stamattina, appena ho saputo che era uscito, sono corso in libreria a comprarmelo, e nel viaggio in treno verso casa mi sono letto il primo racconto, Perché non ballate?, che nella versione ufficiale so quasi a memoria (In cucina si versò un altro bicchiere e guardò i mobili della camera da letto sistemati nel giardino. La parte di lui, la parte di lei). È sempre un bel racconto, solo un po’ meno secco e tagliente di quello che conoscevo. Per adesso do ragione a Baricco: la versione ritoccata da Lish è migliore. Quando li avrò letti tutti, magari ne riparleremo. Intanto però sto sogghignando, perché mi chiedo questa cosa: come lo recensirà Repubblica? Gli dedicherà un paginone domenica prossima? Parlerà di capolavoro ritrovato o tirerà fuori quel suo vecchio giudizio, per cui questo libro è un Carver incompiuto, materia prima ancora grezza, mancante del lavoro geniale del suo editor? E se cambieranno opinione, si vergogneranno almeno un po’? Io non ho dubbi su come andrà a finire. Accetto scommesse e aspetto seduto in riva al fiume, in attesa che passi il cadavere del mio nemico.

domenica 15 marzo 2009

L'AMICO DEL PAZZO

Certi libri fanno una brutta fine. Il nome di questa fine evoca, a scelta, i roghi delle streghe o l’inferno a cui credevamo da bambini, e io preferisco pensare che sia una metafora, che non esista davvero il locale caldaie con l’operaio che spala il carbone. L’uomo in canottiera che riceve carriole di libri non venduti e non rubati, forse nemmeno sfogliati da una mano curiosa in libreria, o proprio mai esposti sugli scaffali - i libri che hanno passato la loro misera vita dentro uno scatolone, libri a cui è stata negata perfino la possibilità di realizzare il proprio senso sulla terra - l’operaio, dicevo, che vedendo arrivare un altro carico sputa una bestemmia e appoggia la pala al muro, si asciuga la fronte con un fazzoletto sporco, e poi materialmente prende queste carriole di libri non letti e le butta nel fuoco. In ogni caso, di qualunque forma di distruzione sia metafora la parola macero, la cosa funziona più o meno così. A un certo punto un editore decide di liberarsi di un titolo. Sarà perché ha venduto poco, oppure ai suoi tempi ha venduto bene ma ormai non lo chiede più nessuno: e ci sarà una segretarietta secca, per citare il vecchio Bianciardi, che a un certo punto va dal capo e riferisce che fare il rendiconto annuale di quelle poche copie in movimento costa più che ritirarle dalla circolazione. E così il capo mette la firma su un foglio contenente la parola macero. Vuol dire che, da quel momento in poi, il titolo in questione è fuori catalogo. Non più in ristampa. Esaurito.

È appena successo a Marco Drago e al suo libro d’esordio, L’amico del pazzo (Feltrinelli 1998). Siccome Drago, dietro quella scorza da cinico, è un inguaribile sentimentale, mi ha proposto di organizzare un reading che faccia da funerale al pazzo, per non lasciarlo finire nella fossa comune del cimitero di Vienna in un grigio pomeriggio piovoso ma dirgli addio in grande stile - un reading che sia l’equivalente letterario della barchetta di giunchi su cui si allontanava il cadavere di Nicholas Ray, o della palla di cannone con cui furono sparate in orbita le ceneri di Hunter Thompson. E così mi ha passato il libro che ho qui sul tavolo in questo momento. E io, che per qualche motivo me l’ero perso (nel ’98 chissà cosa leggevo, sarò stato nella fase di transizione tra Herman Hesse e Bukowski), prima ho dato un’occhiata al racconto per il reading, e poi l’ho lasciato sul tavolino dell’oblio dove sono ammucchiati i libri in corso, e poi invece la settimana scorsa da lì mi ha chiamato, si è fatto raccogliere e sfogliare, e in una lunga notte di passione me lo sono letto tutto.

Adesso posso dire che L’amico del pazzo è un bellissimo libro. Più che racconti sono monologhi deliranti, il flusso di coscienza di una mente pericolosa.

È un libro in cui un figlio racconta la vita dei suoi genitori, cominciando dalla fine: Gli ultimi anni mia madre metteva La Vestaglia. Dopo un po’ tutti finiamo così, che lo si voglia o no. Tutti così. Ad avanzare tempo per fermare il tempo. A non voler più curarsi di cose fastidiose e superflue come l’aspetto esteriore. Come dire: devo affrontare la devastazione dentro di me, non m’importa della devastazione fuori di me.

È un libro in cui un operaio piemontese, dopo essere stato licenziato dal supermercato in cui lavora, accetta l’offerta di fare l’attore porno a Verona. Lui dà per scontato che non ci sia più posto per lui in un certo mondo normale che aveva frequentato fino a poco prima. Pensa che, una volta in quelle stanze, si debba dire addio alle piccole minchiatine tipo amici, cene in compagnia, famiglia, progetti, progetti, progetti. Una volta che vedi una donna adulta, istruita almeno fino alla quinta superiore, bellina, discretamente intelligente, prendere un pesce rosso vivo e usarlo dentro e fuori il suo buco preferito. Una volta che vedi anche cose come quella, pensa lui, rimane inutile darsi una ragione, spiegarsi, giustificare la propria presenza. Entrasse di colpo un ceffo con un fucile automatico e iniziasse a sparare alla cazzo, nessuno si azzarderebbe a stupirsi.

È un libro ambientato tra le dolci colline delle Langhe, quelle dei vini nobili e delle sagre del tartufo: Ci sono posti che non vorrei mai vedere e uno di questi posti è Alessandria. I primi palazzi alla periferia sud di Alessandria mi atterriscono, e poi anche questa strada per Alba. Ci sono persone che lavorano nelle vigne alle undici di sera. Cani che escono abbaiando dai cancelli e puntano alle caviglie di chi guida (hanno la speranza di trapassare coi denti la lamiera della macchina). Ci sono ragazzini ai bordi della strada, e paesi così brutti da far male.

E poi è un libro che fa ridere, come quando l’amico del pazzo perde la carta del bancomat, il feticcio che lo teneva aggrappato alla vita e agli ultimi residui di lucidità: Alla banca mi dicono che è stato un malinteso e che zero problemi per riavere la carta. In una quindicina di giorni. Come in una quindicina di giorni? Dio madonna, ma questa è la periferia dell’impero, allora. Dove abito? A Karatobe nel Kazakistan interno o in una città italiana? Mentre chiedo quello a una specie di cassiere, la tipa dietro di me dice: “È stato a Karatobe? Mio fratello fa il parroco lì”. Al che io la guardo e le dico che era una battuta e che dire Karatobe per me era come dire Kizil Irmak nel Turkmenistan. Lei mi dice: “È stato anche lì, lo conosce? Padre Romeo, lo conosce?”

E ora tutte queste parole andranno perdute come lacrime nella pioggia. Quando sei andato a letto, quella notte, con il tuo primo libro sotto il cuscino, pensando che il tuo desiderio più grande si era appena realizzato, non immaginavi che sarebbe finita così, non è vero?

domenica 8 marzo 2009

ANNIE SCRIVE COME UN MASCHIO

Non sapevamo niente di Annie Proulx, prima che uscissero I segreti di Brokeback Mountain. Grazie alla storia dei due cowboy omosessuali l’editoria italiana si è accorta di lei, e in pochi anni sono state pubblicate tutte le sue raccolte: Distanza ravvicinata (Baldini Castoldi Dalai 2003), Storie del Wyoming (Marco Tropea 2006), e ora Ho sempre amato questo posto (Mondadori 2009), più un paio di romanzi che non ho letto per i miei soliti problemi con la narrativa lunga. I racconti invece li ho letti tutti, e il risultato è strano: alcune storie non mi piacciono per niente, altre le ho amate alla follia. Non credo di essere io il Aproulx problema, o almeno non solo. Il fatto è che Annie Proulx scrive due tipi di racconto completamente diversi: uno che gioca con il grottesco, il paradossale, l’assurdo, e questo forse non è il mio genere; l’altro di un realismo così nero, onesto e disperato da ricordarmi i primi racconti di Richard Ford, e i film di Clint Eastwood. Sarà anche colpa del Wyoming, immagino. Tutti i racconti sono ambientati lì, e che sia l’epoca dei pionieri e delle mandrie di vacche mezze selvatiche e dei canti dei ragazzi attorno al fuoco, o quella dei pozzi petroliferi che chiudono lasciando ai disoccupati la scelta tra un diploma serale in informatica e l’arruolamento per l’Iraq, il paesaggio è sempre un cinemascope di montagne, neve, foreste, brevi estati struggenti, laghi e torrenti d’alta quota, la natura selvaggia che faceva da cornice all’amore tra Jack Twist ed Enis Del Mar, lo spaccone e il timido, il cowboy da rodeo e il mandriano silenzioso.

Anche la carriera di Annie Proulx non è di quelle dritte e lisce come strade asfaltate. La scrittrice ha origini canadesi, ma dice di avere sempre vissuto nel Wyoming. È nata nel 1935 ma ha esordito a più di cinquant’anni, nel 1988, e deve averne accumulata di vita nel frattempo, perché da allora ha scritto cinque libri e vinto tutto quello che poteva, dal Pulitzer al PEN/Faulkner al National Book Award, una carriera fulminea e tardiva come quella di Thom Jones. A vederla nelle foto assomiglia ai suoi racconti: durezza e dolcezza che si mescolano insieme per averne viste molte (e nonostante le cose viste, avere mantenuto una certa fiducia nelle possibilità del genere umano), e poca femminilità, o almeno una femminilità poco esposta, come una donna cresciuta tra gli uomini e abituata ai loro codici di comportamento.

Insomma, prendete Cormac McCarthy e Alice Munro, e la figlia illegittima di questa unione sarà un produttore di storie molto simile ad Annie Proulx. Secondo me il libro migliore è il primo, Distanza ravvicinata. Leggetevi il racconto che ha ispirato il film di Ang Lee, Gente del Wyoming. Oppure cominciate da quest’ultima raccolta e leggete Quelle vecchie canzoni di cowboy, la storia d’amore tra Archie e Rose, ambientata nel 1885. I due si sposano a sedici anni e ottengono un pezzo di terra dal governo per avviare una piccola fattoria: ad Archie piace cantare le vecchie canzoni, Rose adora stare lì ad ascoltarlo. Lui è un gran lavoratore e lei è innamoratissima e pronta a tutto, anche ad aspettarlo da sola, incinta, badando alla casa e alla terra, mentre lui fa la stagione come mandriano per mettere insieme il capitale necessario ad avviare il ranch: sembra l’inizio di un’epopea da pionieri, una di quelle leggende che daranno vita alle grandi dinastie del West, se non fosse che, scrive Annie Proulx nelle prime righe, solo in pochi vissero abbastanza per raccontarlo, mentre “in molti ebbero vita breve e vennero presto dimenticati”, e la storia di Archie e Rose è una di queste. Leggetevi l’ultimo racconto, A gambe all’aria nel fosso. È la vita triste di Dakotah, figlia di una ragazza madre “bella da morire e priva di scrupoli”, che l’ha messa al mondo appena prima di scappare di casa. La bambina è cresciuta con i nonni nel Wyoming più depresso che si sia mai visto, prendendo ordini e botte, e per sfuggire agli ordini e alle botte lei stessa imbocca la scorciatoia sbagliata, abbandona la scuola troppo presto e si sposa con il primo che passa, comincia a fare la cameriera, scopre di aspettare un bambino. Finirà ad arruolarsi nell’esercito per sfuggire a un matrimonio andato a rotoli e alla disoccupazione, e andrà avanti così, sempre più giù, soltanto per imparare, quando le sembra di aver toccato il fondo, che ogni successiva caduta è “solo l’inizio della sua discesa nell’acqua scura e fangosa”.

Ci sono scrittori dalla pelle dura come cuoio di sella, e la cui voce suona roca non tanto per il tabacco fumato e il whisky bevuto, ma per il freddo preso nei lunghi bivacchi all’aperto, durante inverni che non finivano più. Annie Proulx è tra questi.