mercoledì 21 luglio 2010

CAPRE

In questi giorni esco presto la mattina. Non è che odio gli esseri umani (anche se a volte temo di sì, e che il sentimento sia ricambiato), è che non mi piacciono quando sono in tanti. In montagna d’estate i sentieri sono pieni di gente, e degli animali selvatici non c’è più nessuna traccia. Così stamattina mi sono alzato alle sei, ho bevuto il caffè e sono uscito. Niente zaino né borraccia né scarponi, solo il mio vecchio bastone e scarpe leggere come il vento. Dopo più di due mesi quassù mi sentivo in gran forma: ho superato il bosco e i primi pascoli, i villaggi abbandonati dei pastori, il pianoro tormentato di massi sotto cui le marmotte si rintanavano al mio passaggio. Mi sono fermato al torrente per bere, poi ho superato in velocità anche il rifugio: alle sette avevo davanti solo prati e pietraie, i laghetti del disgelo e le ultime nevi. Quello è il regno dei camosci ma il problema, con loro, è che di solito ti annusano da lontano, e scompaiono in un istante. Ma stamattina svalicando ho avuto un colpo di fortuna: sarò stato controvento, oppure ormai sono un selvatico anch’io, comunque giù nel vallone ne ho visti due su un piccolo nevaio. Tutt’intorno la pietraia era scaldata dal primo sole, la neve si era ridotta a una minuscola chiazza luccicante, e credo che i camosci fossero lì per rinfrescarsi. Si rotolavano sulla pancia, la schiena e i fianchi, godendosi quell’ultimo ricordo d’inverno. Sembrava che celebrassero un rito antico e giocoso. Mai visto niente del genere in tanti anni.

Ho continuato a salire, ormai chi mi fermava più? Adesso ero in cresta tra le due valli della mia vita e camminavo su lastre di pietra rotte dal ghiaccio, e su quel muschio morbidissimo che si forma a tremila metri. Da un lato dello spartiacque, quello dell’età adulta, il cielo era limpido, di un azzurro così pieno che sembrava avere massa e volume. Dal lato dell’infanzia salivano sbuffi di nuvole che si arricciavano dissolvendosi ai miei piedi. Di là ho passato vent’anni, di qua gli ultimi tre: sono contento che siano posti diversi ma vicini (mai tornare dove sei stato felice, diceva il poeta, però dà un certo conforto sapere che i tuoi ricordi sono lontani solo un paio d’ore a piedi). Poi ho visto alcune sagome scure, forme inconfondibili sulla roccia frastagliata. Mi era successa la stessa cosa proprio un anno fa, e oggi questo era il mio piano segreto: speravo che i loro movimenti obbedissero a qualche calendario, e che li avrei ritrovati all’appuntamento. Quando sono arrivato in cima ero in mezzo a un piccolo branco di sei stambecchi. Gli stambecchi non sono prudenti come i camosci, né ingenui come i caprioli: hanno un’aria maestosa e indifferente, come se per loro l’uomo fosse una minaccia da poco. Stanno lassù, sulle creste e le vette sopra i tremila, perché hanno caldo e perché amano controllare il mondo dall’alto. Lì non c’è niente, solo muschio e qualche filo d’erba, vento a tutte le ore e luce abbagliante. Il branco era composto da un maschio adulto, bello come un dio delle capre, il pelo lucido e le corna da re; due femmine più giovani e i loro cuccioli nati da pochi mesi; e un caprone così vecchio e stanco da diventare subito il mio preferito. Aveva il manto spelacchiato e il collo completamente bianco, e due corna di cui non riusciva più a reggere il peso. Arrancava con la testa china in fondo al gruppo. Appena sono stato avvistato il capo stambecco si è messo tra me e gli altri, fissandomi dritto negli occhi. Faceva un verso di battaglia, come una F prolungata e soffiata a pieni polmoni. Aveva corna lunghe un metro e almeno mezzo quintale di muscoli a sostenerle, e gli sarebbe bastato poco per cacciarmi da casa sua, se non dal mondo. Ma io cercavo di fargli capire che ero venuto in pace. Femmine e cuccioli sono saltati su un sasso mettendosi al sicuro dietro di lui, mentre il vecchio per raggiungerli ha dovuto compiere un lungo giro.

Io mi sono seduto per terra e non ho più fatto una mossa, finché il capo stambecco ha deciso che ero un nemico noioso, ha sbuffato un’ultima volta e si è messo a rosicchiare il muschio tra le rocce. I due cuccioli hanno cominciato a prendersi a cornate, mentre le madri li tenevano d’occhio. Ora il vecchio era l’unico che badava a me: mi si è seduto di fronte, a quattro o cinque metri di distanza, e mi ha fissato masticando, e grattandosi ogni tanto la schiena con le corna. Chissà quanti anni aveva. Chissà se questa è la sua ultima estate o riuscirà a superare gli acciacchi ancora per un altro inverno. Erano le otto di mattina e il mondo tremila metri più in basso sembrava un pianeta alieno: e io ho pensato al mio amico Jose, morto quassù mentre andava a caccia di questi animali, caduto perché nessuno è agile quanto loro. Jose, eri una brava persona e un magnifico alpinista, ma come facevi a sparare agli dei e pensare di farla franca? Ho guardato giù in fondo la casa in cui sono stato bambino, che adesso è stata ristrutturata e dipinta di giallo. Quella dei miei ricordi è perduta per sempre, per fortuna. Prima di andarmene ho promesso al vecchio che, se il prossimo quindici luglio non avrà ancora reso l’anima al diavolo, io sarò qui all’appuntamento, lo giuro.