sabato 21 novembre 2015

NEW YORK STORIES

Esce in questi giorni per Einaudi un libro a cui lavoro da più di un anno. Ma ho cominciato a immaginarlo molto prima, forse in qualche libreria di Brooklyn: un'antologia che raccogliesse, da Fitzgerald in poi, i più bei racconti su New York del Novecento. O almeno i miei preferiti. Non brani di romanzi famosi, né un elenco di grandi nomi: bei racconti scritti da scrittori di racconti, conosciuti oppure no, già tradotti in italiano o no, che ho incontrato nella mia vita di lettore. Ora che il libro esiste penso soprattutto a quelli che mancano, perché non ce li hanno lasciati pubblicare. Joseph Mitchell. Jay McInerney. E in particolare Hubert Selby Jr. Ma ci sono anche i venti e oltre che invece mi fanno luccicare gli occhi, da Cheever a Yates, da Malamud a Capote, da Dorothy Parker a Grace Paley, e giù fino a quelli che ho conosciuto di persona, come Nathan Englander e Colson Whitehead. Ci sono tre italiani (tre sorprese, credo, per diversi motivi). Ci sono portoricani, afroamericani, hippy, femministe, eterosessuali (e altre minoranze newyorkesi). Ci sono scrittrici alcolizzate e scrittori così ridotti in miseria che abbiamo provato a chiamarli a casa, nel Bronx, per chiedere i diritti di un racconto, ma il telefono suonava a vuoto o chi rispondeva non sapeva più chi fossero, e li abbiamo ugualmente pubblicati sperando che prima o poi si facciano sentire. Per me è una gioia da lettore, questo libro. E in tanti sensi una forma di restituzione. È anche una terza guida a New York dopo le due che ho scritto, un'altra mappa possibile: spero tanto che queste mie esplorazioni non finiranno mai. Ora copio qui un pezzo dell'introduzione e vado a cercarmi una Brooklyn Lager per festeggiare.

Se le città fossero opere d'arte, e i secoli gli artisti che le hanno create, New York sarebbe il capolavoro del Novecento. In nessun'altra quel vecchio matto ha messo così tanto di sé. In nessuna possiamo rileggere altrettanto bene che cosa il Novecento è stato: in quali idee credeva, di quali mali soffriva, che sogno di felicità inseguiva, quali incubi lo tormentavano, che cosa ha lasciato di prezioso al mondo e in cosa si è sbagliato, lasciando solo macerie. New York racconta questa storia a chi la attraversa con occhi attenti. Camminare tra il Lower East Side e il Greenwich Village, o pedalare su per Broadway fino a Times Square, o costeggiare l'isola in traghetto da Harlem alla Battery, è come assistere a un'epopea che nasce nell'età del transatlantico e delle grandi migrazioni, supera anni ruggenti, anni ribelli, anni di opulenza e anni di crisi nera, e finisce la mattina d'inizio millennio in cui qualcuno immaginò di distruggere New York. Nove-undici-zerouno: comunque la si pensi su quel giorno, da allora la città che era stata una terra promessa diventò una roccaforte, un simbolo di tutt'altro tipo. Non è una coincidenza che il suo secolo fosse appena tramontato.
Ma i grattacieli sorgono e crollano da sempre a New York, per lei non sono che un cambio d'abito. Di cosa è fatta allora quell'opera d'arte che chiamiamo città? Solo in superficie di case, strade, ponti, fabbriche, parchi, stazioni ferroviarie, porti industriali. Nella sostanza, è fatta di chi la abita. Sono le persone, con i loro sentimenti, le loro relazioni, i loro desideri, a dare alla città la sua anima. E l'anima misteriosamente sopravvive, passa in eredità da una generazione all'altra, mantiene una città se stessa anche se fuori cambia pelle. Perciò per indagare l'anima di New York dovremmo interrogare i newyorkesi. Come stanno? Che cosa vogliono? Le storie di questo libro costituiscono altrettante voci. Insieme offrono il racconto corale di una città e del suo secolo, ora che siamo già abbastanza lontani da ripensarlo come a un tempo che è stato, il passato prossimo da cui veniamo.

Intanto: chi sono i newyorkesi? Nel racconto d'apertura, evocando l'immagine di una nave, Francis Scott Fitzgerald dà una prima risposta fondamentale: New York non è la città di chi ci è nato, ma quella di chi l'ha molto desiderata, e ha dovuto combattere per farne parte. Milioni di persone da ogni angolo del mondo, nel corso del Novecento. Altro che mille luci, vetrine della Quinta Avenue, altezze vertiginose dell'Empire: chi la immagina come una capitale dell'arte, o del lusso, o della moda, dimentica che New York è stata soprattutto la capitale dell'emigrazione, un gigantesco esperimento di convivenza umana. Una città di poveri e di case popolari, di mercati all'aperto, lavoratori a giornata, bande giovanili, mendicanti, folle che ogni mattina si riversavano fuori dai tenement e dai projects. Vita da marciapiede e cultura di strada: è questa la sua natura più autentica. La sua musica è un frastuono di grida, litigi, proteste, suppliche, litanie, in decine di dialetti diversi. Con Fitzgerald lo ripetono tanti altri scrittori: tutti noi siamo arrivati a New York da altrove. Che fossimo i profughi scaricati dai piroscafi all'inizio del secolo, o gli aspiranti qualsiasi cosa sbarcati nei cent'anni successivi. Abbiamo lasciato la nostra casa e siamo venuti qui a cercar fortuna, a rifarci una vita, a liberarci del vecchio mondo e del nostro vecchio io; prima di posare piede a New York l'abbiamo a lungo sognata, invocata nelle nostre preghiere; tutti siamo qui per diventare chi volevamo, e conquistare la nostra parte di felicità.
Non tutti, in questo libro, vengono ricompensati. Anzi: si può dire che a nessuno New York risparmi l'amarezza del tradimento. Dorothy Parker ha scritto il suo racconto più celebre su una bionda finita male, ma ce ne sono parecchie altre, di belle bionde, nelle storie che seguono. È alto il prezzo da pagare quando un sogno così grande ti frega: la solitudine, l'alienazione, la pazzia, e certe volte la morte. Nessuno al mondo è così solo come chi è solo a New York. Nessuna città è altrettanto piena di pazzi. Un uomo che se ne va nella notte, a testa bassa e mani in tasca, in un deserto di insegne al neon e sacchi dell'immondizia: è anche questo, o forse soprattutto questo, la città del Novecento.
A chi non diventa pazzo e non muore a volte succede un miracolo. Perché l'incontro è un miracolo, in una città così. Qualcuno di cui prendersi cura o che si prenda cura di te: una moglie, un'amica, un'amante, una bambina, una gatta. Qualcuno da salvare per salvarsi, perché New York non regali un altro paio d'anime ai suoi cimiteri. Le poche storie di successo in questo libro non parlano di fama o di ricchezza, ma di amicizia e d'amore; e le più tragiche sono quelle in cui l'amicizia e l'amore falliscono, l'incontro non avviene, la cura non funziona, e i dannati precipitano sempre più giù: in un appartamento vuoto o su un letto d'ospedale, dentro la cella di un convento o nel sedile posteriore di una macchina, in qualsiasi altro girone dell'inferno metropolitano.
Infine, qualcuno fa in tempo a salvarsi partendo. E per il resto della vita ripenserà a New York con nostalgia e risentimento. Goodbye to all that: questa città appartiene ai giovani ed è rischioso restarci quando la linea d'ombra è superata, meglio badare alla salute e trovarsi un posto più tranquillo per la vecchiaia. I newyorkesi, conclude Colson Whitehead,  nell'ultimo testo che fa da controcanto al primo, sono anche quelli che se ne sono andati, quelli che se la ricordano com'era prima, quelli che tornano e non la ritrovano più, perchè basta assentarsi o rallentare per essere lasciati indietro. New York va più veloce, New York dimentica. A New York non interessa di cos'è stato, né di chi eravamo noi quand'eravamo lì.

Ogni antologia su New York è solo una delle tante possibili. Non c'è scrittore, americano o no, che passando di lì non abbia lasciato un racconto, un romanzo, una poesia, una pagina di diario. Più che un libro, se ne farebbe una biblioteca. New York Stories non vuole essere la sintesi di tanta letteratura, né una raccolta di nomi e brani celebri, ma piuttosto un filo tirato tra testi che compongono, insieme, un'idea di New York: che è poi necessariamente l'idea mia, quella che mi sono fatto esplorando le sue strade e le sue storie. Per un motivo o per l'altro, mancano autori importanti e di alcune mancanze mi dispiace. È per scelta invece che mancano brani di romanzo, per cui niente capitoli del Grande Gatsby o Colazione da Tiffany, Il giovane Holden o Città di vetro: volevo che il libro fosse, tra le altre cose, una raccolta di storie, così ho limitato il campo ai racconti, alternandoli ogni tanto a testi autobiografici. Nella polifonia di voci newyorkesi ho cercato di render conto almeno delle principali: quella ebraica, quella italoamericana, quella afroamericana, quella portoricana. Accanto ad autori famosi ce ne sono altri, poco conosciuti e in qualche caso mai tradotti, e ci sono anche alcuni testi di scrittori italiani, persone che hanno trascorso a New York periodi importanti della loro vita. Ci sono tante scrittrici per il semplice fatto che mi piacciono le scrittrici e ne ho messe più che potevo. L'ordine cronologico mi è sembrato il più naturale e ho scritto brevi introduzioni a ogni sezione anche perché avevo in testa un modello alto, un'antologia curata tanti anni fa da Elio Vittorini, che si intitolava Americana e ha presentato per la prima volta quei grandi scrittori al pubblico italiano. La storia della letteratura americana ne contiene in Italia una minore, appassionata, a volte clandestina, che è la storia dei suoi divulgatori. Questo libro è il mio grazie ai maestri e il mio modo di raccogliere il testimone, per quello che posso.