Per quanto mi svegliassi presto, in rifugio, c’era sempre qualcuno che si svegliava prima di me. Avevo una finestra affacciata a est, su una catena di montagne nere da cui l’alba arrivava di taglio alle sei di mattina, abbagliando il muro della stanza d’arancione e d’oro. Aprivo gli occhi in quella luce improvvisa e sentivo l’odore del fuoco salire dalla cucina. Legno di faggio, portato su dai boschi che coprono la valle duemila metri più in basso. La stufa andava avanti a bruciarlo per tutto il giorno eppure riusciva a malapena a scaldare la cucina, perciò ci trovavamo sempre lì. Sulla stufa facevamo il caffè, cucinavamo, stendevamo i vestiti fradici di pioggia, tostavamo i pistacchi che un giorno abbiamo trovato, umidi e molli e vecchi di chissà quanto, in fondo a un armadio in dispensa.
Dei due ragazzi Andrea era quello pigro, o era la sua calma nel prendere il lavoro che ti ingannava. In realtà quando io mi alzavo lui aveva già acceso il fuoco, messo su la colazione, lavato i piatti della sera prima, e ora stava fumando e guardando vecchi film, o profili di ragazze in giro per la rete. Sedeva sempre dalla stessa parte del tavolo, accanto alla finestra. A una cert’ora della mattina passava dal caffè al vino allungato con acqua, oppure acqua e Pernod oppure bianco e Campari, arrotolando sigarette di Golden Virginia e mostrandomi le ragazze a cui d’inverno aveva insegnato a sciare. Adesso erano in spiaggia, pubblicavano foto in costume. Sembravano di un altro mondo. Su di noi pioveva ogni giorno e certe volte la pioggia diventava grandine, e quando non pioveva o grandinava tirava un vento gelido, appena sopra lo zero. L’unica ragazza che vedevamo spesso praticava la corsa in montagna: la avvistavamo con il binocolo mentre saliva per il sentiero, ma poi raggiungeva il colle, toccava il muro del rifugio, si voltava e tornava giù, fugace come ogni apparizione di bellezza.
Davide sedeva nel posto di fronte, scendeva tardi in cucina ma da quel momento era in moto perpetuo. Ogni due o tre giorni faceva il pane che poi metteva a cuocere nel forno della stufa. Teneva i conti, rispondeva al telefono ed era lui ad avere a che fare con i clienti in sala da pranzo, dato che Andrea per sua natura preferiva parlare poco, e muoversi ancora meno. Davide aveva sempre più idee di quelle che riusciva a realizzare. Progetti per migliorare il rifugio. Una turbina eolica da montare sul tetto, una rosa dei venti in pietra sul selciato, spille e magliette, muri da imbiancare. Se si ritrovava con le mani in mano, afferrava una sgorbia dal davanzale e si metteva a intagliare un portacenere di legno, o il manico di un coltello. Diceva di non riuscire a disegnare forme simmetriche, e che ci doveva essere qualcosa, in lui, che faceva a pugni con la simmetria, forse per via dello zigomo che si era spaccato anni prima e che gli aveva segnato i lineamenti. Lavorando al suo intaglio raccontava, rifletteva e a volte se ne usciva con una nuova idea, che Andrea approvava con un borbottio distratto. Tanto sapeva bene come sarebbe finita.
A parte la cronica mancanza di ragazze, il problema principale in rifugio era l’energia elettrica. Non c’era abbastanza sole per alimentare i pannelli, la turbina eolica ordinata da un mese non arrivava mai, e la benzina per il generatore andava centellinata. Così, se arrivavano clienti, la prima raccomandazione era quella di spegnere la luce ogni volta che uscivano da una stanza. Se eravamo noi da soli evitavamo del tutto di accenderle, e il pomeriggio diventava un lento abituarsi al buio. Seduto a capotavola leggevo i racconti di Conrad. Verso le sei, solo spostandomi vicino alla finestra riuscivo a catturare sulle pagine un po’ di quel chiarore lattiginoso, appena sufficiente a distinguere le parole. Più tardi accendevamo un paio di candele, e quando finivano anche quelle era ora di andare a dormire. A letto mettevo quattro coperte una sopra l’altra. Dormivo dentro vestiti che sapevano di zuppa di cipolla, stufato lasciato per ore a sobbollire, fumo di legna e di tabacco. Solo quando un cliente chiedeva di farsi la doccia e toccava accendere lo scaldabagno, era la volta che potevamo lavarci tutt’e tre. Io che passavo per ultimo sperimentavo puntualmente, appena dopo essermi insaponato dalla testa ai piedi, la fine dell’acqua calda.
Dalle due valli salivano nebbie che parevano eterne, e guardare fuori dalla finestra era un lungo esercizio di contemplazione delle nuvole. La mattina presto si trovavano più in basso di noi, ma poi il primo calore le spingeva verso l’alto, ad avvolgerci per il resto del giorno. La bandiera sul colle, più che risvegliare in noi l’amor di patria, ci segnalava la direzione del vento: l’est dava qualche speranza per il pomeriggio, l’ovest annunciava tormenta. Perfino chiusi in cucina riuscivamo a sentire il cavo metallico della bandiera sbattere contro il pennone, e quel tintinnio era la musica del colle insieme a qualche rado fischio di marmotte, al frusciare violento dell’erba, al motore a scoppio del generatore e alla chitarra che ogni tanto Davide o Andrea imbracciavano, benché nessuno dei due la sapesse davvero suonare.
A volte non ne potevo più di aspettare, e allora uscivo e partivo. Puntavo la cima di una montagna attraverso la pietraia e cercavo di arrivare fin lì. Nel tragitto stanavo camosci e stambecchi, scoprivo laghi nascosti in conche imprevedibili, mi lasciavo tentare da cambi di rotta e giochi solitari. Per via di questa estate fredda e piovosa, molti piccoli nevai resistono dove normalmente ad agosto trovi soltanto pietre, e lungo certi canaloni potevo buttarmi giù scivolando sulle valanghe ghiacciate, cadendo, rialzandomi, ridendo da solo e obbedendo all’istinto di ululare. Una volta su una cima ho avuto una visione: avevo le nuvole in basso da un lato della cresta, e uno scorcio di sole è comparso all’improvviso sopra di me. Il sole ha proiettato sulle nuvole un arcobaleno circolare, in mezzo al cerchio c’era l’ombra di un uomo e ho impiegato qualche istante a capire che ero io. Ero alto e sottile, con gambe e braccia lunghissime se le agitavo per salutare quell’altro me stesso, un alieno circonfuso di luce. Non ho potuto godermi a lungo lo spettacolo, perché subito dopo il sole è svanito di nuovo, l’aria si è fatta buia ed elettrica e mi sono ritrovato in mezzo al temporale. Mi sono detto ecco, ora mi lavo. Tornando lungo la cresta immaginavo il fuoco, il profumo della stufa e il silenzio dei due amici che mi aspettavano in rifugio.
Molto efficace l'immagine del muro della stanza del rifugio che si illumina di arancione e oro...
RispondiEliminaScrivere ancora che questo tuo diario di montagna è estremamente godibile mi sembra banale, ma non trovo altre parole.
RispondiEliminaUn caro saluto,
Marco
4.
RispondiEliminaCASEINA.
PALPEBRE.
LA PUGLIA.
S