Avrei voluto un giorno di pioggia per andarmene dalla montagna, non questa luminosa estate d’ottobre. Da domani i tetti del mondo per me saranno di nuovo le terrazze, le cisterne corrose dalla ruggine e le nuvole veloci di Brooklyn. Sono fortunato, passo da un posto all’altro del mio cuore. Ma l’ultimo giorno è lo stesso denso di nostalgia, in una mattina che sembra d’agosto: se non fosse per i sentieri deserti, l’erba secca, il filo d’acqua che scorre nei torrenti, i larici in giallo. Solo le marmotte vagano stordite sotto il sole. Dei camosci, ora che la stagione della caccia è cominciata, resta l’ombra che si dilegua, lampi neri percepiti dalla coda dell’occhio, fantasmi di capre. Per una legge fisica che i montanari conoscono bene, in autunno i suoni arrivano più lontano. Così capita di sentire un trattore e vederlo passare qualche chilometro a valle, o il guaito di un bracco che sta inseguendo una lepre nel bosco. Ma in un giorno così non c'è tempo per l'ascolto. Prima di fare le valigie ho tirato su tutto quello che rimaneva nell’orto: l’ultima insalata, un solitario cavolo coraggioso, i porri. Poi ho strappato le radici, rastrellato la terra, sparso la cenere del camino. Non so se sia granché come concime, ma mi è sembrato giusto farlo: è stato come prendere il larice che era caduto in giugno sotto la neve, quello che mi ha dato legna per tutta l’estate, e rimetterlo a posto. Ho coperto la pianta di salvia con della paglia secca. Ho riportato in casa la ciotola dei cani.
Dei due amici che ho quassù, uno è arrivato e mi ha detto: non sono molto pratico con gli addii. Nemmeno io, gli ho risposto. Allora ciao. Si è allontanato seduto sulla pala del trattore, con suo figlio che guidava e il cane che gli mordeva le ruote anteriori, come fa sempre, abbaiando e mettendosi di traverso sulla strada, come a dire fermati, dove vai? L’altro amico mi ha cacciato di casa, quando sono passato a salutarlo, e poi mi ha scritto per scusarsi, perché era triste e non è stato capace di abbracciarmi. Capisco bene anche lui. Alla fine mi sono lavato per l’ultima volta alla fontana: le mani, la faccia, il collo. Ho lasciato i bastoni sul balcone, perché è lì che devono stare, e poi ho chiuso la porta e me ne sono andato.
Ho letto tanti libri di montagna in questa lunga stagione. Per motivi che non sto qui a spiegare, il racconto che me la ricorderà sempre è Ferro di Primo Levi.
La facile cresta doveva essere facile, anzi elementare, d’estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l’altro c’erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l’ala da far pena, Sandro in preda a un’ilarità sinistra che io trovavo irritante.
“E per scendere?”
“Per scendere vedremo”, rispose; e aggiunse misteriosamente: “Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso”. Bene, la gustammo, la carne dell'orso, nel corso di quella notte che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora; il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale.
Alla prima luce funerea ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio. Ma tornammo a valle con i nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: e ora che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.
Forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. Me ne vado con quel sapore in bocca. Spero di conservarlo a lungo. E ora Brooklyn.
Ciao, scusa l'intrusione.
RispondiEliminaIo l'ho assaggiata la carne dell'orso. Da solo, un'intera notte.
E' vero: dopo - soltanto dopo nel mio caso - ci si sente forti e liberi.
Cerco di mantenere quella sensazione nella vita di tutti i giorni, ma senza la presenza vera e costante del pericolo, mi è difficile.
Paolo buon viaggio e salutami Brooklyn, la porto nel cuore grazie ad un viaggio ed al tuo libro.
RispondiEliminaA presto
Sole
bastardo! goditela.
RispondiEliminaun abbraccio
gio
buon viaggio paolo, spero di rivederti presto in scighera.
RispondiEliminamatteo