venerdì 27 aprile 2018

CAMMINATORE DI PERIFERIA

Nessuno come chi ha un cane conosce i nostri quartieri di periferia. Li attraversiamo senza una meta per giorni e notti, sotto la pioggerella o il sole pallido o la foschia che avvolge i lampioni, e conosciamo ogni aiuola spartitraffico, ogni pezzetto di terra ai piedi di alberi malati, ogni prato spelacchiato al limitare dei parcheggi, perché è lì che i nostri cani ci portano, come profeti. Ci conducono alle piante infestanti cresciute nelle crepe dell'asfalto e alle pozzanghere chissà come fangose. Noi li seguiamo: siamo quelli che vagano all'alba tra le rotaie del tram, quelli che fumano sui marciapiedi di notte mentre un cane che non sembra di nessuno se ne va in giro. Il cane non è davvero nostro, noi non siamo i suoi padroni. Siamo amici silenziosi e nella solitudine ci facciamo compagnia.
Io sono un camminatore di città per pochi mesi all'anno ormai. Sono nato e cresciuto a Milano, ho fatto in tempo a vederla nel Novecento e a venticinque anni, in cerca di un posto in cui abitare, ho scelto la Bovisa perché le case costavano poco, ma anche perché credevo davvero nella periferia. Nelle sue possibilità e nella mia presenza lì, nel calore che ci saremmo scambiati a vicenda. Ricordo la meraviglia di girare per le strade ai primi tempi e scoprire cascine, orti, ferrovie, fabbri, falegnami, bocciofile, tutto quello che chi odia Milano non sa, perché non l'ha mai visto. Imparavo la storia del quartiere dalle sue fabbriche abbandonate, dai vecchi che fanno i girasoli nella piazza dove il tram arriva e torna indietro, dalle lapidi sui muri delle case. Le lapidi sono sempre lì, anche adesso che quasi tutto il resto è sparito. Durante i miei inverni in città torno a osservarle ogni sera, traccio il percorso con Lucky per salutarle tutte: le lapidi dei partigiani e dei deportati nei campi di concentramento, su ogni lapide una corona di fiori che ogni primavera viene messa nuova, e poi per un anno appassisce fino alla successiva Liberazione. Le lapidi dei morti in quartiere: Luca, studente, raggiunto da un proiettile mentre correva a prendere l'autobus; Nicolò, vigile urbano, trascinato sull'asfalto da un furgone a cui aveva chiesto i documenti; Maria Luisa, ragazza, violentata e uccisa nel parcheggio della stazione. Loro sono i santi della periferia, in quelle lapidi è custodita l'anima del quartiere.

Ma questa non è una storia d'amore, è piuttosto la storia di quel che succede molto tempo dopo che l'amore è finito. Se il nostro abitare assomiglia al crescere delle piante, negli ultimi quindici anni a Milano ho visto sradicare metodicamente ogni germoglio, ogni rampicante, ogni arbusto che avevamo curato – le associazioni, gli spazi autogestiti, le fabbriche occupate, tutti i modi spontanei e infestanti in cui le persone mettono radici nelle città, e le rendono rigogliose e vive – e calare al loro posto monoliti dalle superfici lisce e luccicanti, un'ondata di gelo. Così a un certo punto me ne sono andato per disamore. Sono andato in montagna e ogni volta che torno trovo un pezzo di questa nuova città in più, un pezzo di quella vecchia in meno. Ecco, è la storia di uno di questi pezzi che volevo raccontare.
So che è difficile da credere, ma alla Bovisa c'è un bosco. Lo chiamano la Goccia e si trova oltre la ferrovia, dentro quella che fu la Fabbrica del Gas, su quaranta ettari di terreno abbandonato dai primi anni Novanta. Siccome a Lucky d'inverno mancano i pascoli, i torrenti, le rocce della montagna in cui è nato, qualche volta andiamo di là a farci passare la nostalgia. Di sera intorno non c'è un'anima e possiamo entrare da uno dei tanti varchi nelle recinzioni, poi lui va a caccia di animali selvatici mentre io mi aggiro tra alberi di ogni specie. Platani, frassini, pioppi, tigli: ce ne sono migliaia, tra gli edifici industriali d'inizio Novecento e gli scheletri maestosi dei gasometri, insieme a tutto il sottobosco cresciuto in venticinque anni di abbandono. È incredibile come alla terra basti che l'uomo volti lo sguardo, lei non aspetta che una distrazione del suo grande nemico per tornare a germogliare e riprodursi: il bosco è popolato da volpi, lepri, ricci, serpenti, falchi, gufi. Siamo a cinque chilometri dal Duomo di Milano e Lucky insegue le lepri, e mentre lui corre finalmente libero io vado a vedere a che punto sono le ruspe. Vado a vedere quanto manca da vivere a questo nostro bosco segreto.
È davanti a uno scavo profondo un metro, interrotto, ripreso, già di nuovo invaso dalle erbe, che ripenso alla mia storia alla Bovisa e a come io la ritrovi tutta quanta in ciò che sta succedendo qui. Di chi è davvero la città, di chi è il quartiere che abitiamo, chi ne decide il destino? In teoria noi: buona parte di questo bosco è comunale, ovvero è proprietà degli abitanti di Milano, e in molti chiedono da tempo al Comune, in tutti i modi possibili, di farne un parco. Ma il Comune ha altri progetti che non ha mai sottoposto alla nostra approvazione: costruire dei palazzi che nessuno ha chiesto, di cui nessuno ha bisogno, perché il quartiere è già pieno di case vuote. Insomma è come se questo nostro bosco non fosse davvero nostro, o come se chi governa la città non fosse lì per noi, per realizzare quello che desideriamo.
Per non compierlo, questo dovere dei governanti, ci vuole una scusa: qui la scusa è che il terreno è avvelenato da un secolo di industria chimica e va bonificato, ecco perché le ruspe hanno già cominciato ad abbattere gli alberi e tirare su la terra per portarla via. Un metro di profondità per quaranta ettari di estensione fa quattrocentomila metri cubi: chi si prenderà, mi chiedo, tutta questa terra avvelenata di Milano? Come la ripuliranno dal veleno? E lasciarci crescere sopra un bosco, che già da un quarto di secolo ci affonda le radici, ne cava nutrimento, la ricopre di foglie e legno e vita animale, non era un modo più saggio, ecologico ed economico che distruggere tutto, rivoltare la terra, far partire migliaia di camion e lasciare una spianata? Ecco che cosa succederà dopo la bonifica: il nostro terreno sarà venduto a un costruttore ed edificato, mettendo un giardinetto tra un palazzo e l'altro per farci stare buoni. Questa è la storia della Bovisa nel nuovo secolo, si ripete ogni volta uguale, e non rende onore alla sua storia del secolo vecchio, né a quelli che qui hanno provato a coltivare pianticelle.

Ma ormai, come dicevo, io sono un suo abitante per metà. Questo è soltanto un ultimo bacio al mio quartiere spelacchiato. Sono contento che sia primavera e che tra un po' ce ne torniamo in montagna. Ciao, Milano.


16 commenti:

  1. Caro Paolo,
    sto leggendo "Le otto montagne" e sono già in fondo. Mi viene quasi voglia di rallentare la lettura tanto è il dispiacere nel pensare che il libro sta per finire. Di certo non finiranno le emozioni che mi hai regalato. Mi è parso di esserci, di vivere anche io quei luoghi e quei momenti, di sentire gli odori, i sapori. Mi è parso di guardarmi allo specchio, da amante della montagna e di rivivere la mia amicizia con Valerio, da bambini, alla scoperta dei boschi, dei prati, del ruderi, dei fiumiciattoli...che potere ha la scrittura...grazie Paolo, grazie di cuore. Riccardo

    RispondiElimina
  2. Caro Paolo,
    ho letto le tue parole. Ho trovato un fondo (?) di amarezza, o no?
    A Milano vengo a trovare ogni tanto i miei e lì c'è un mio Amico con cui la notte camminiamo per strade silenziose e ci ritroviamo. Senza cane, però. L'odore notturno della città e dei suoi parchi ha la sua caratteristica, diversa. E le nostre orme nel "buio" sono passi d'amicizia, di parole, di storie e intrecci.
    Non passiamo da Bovisa, lontanissimo.
    ...e mi hai portato alla memoria Maria Luisa, grazie...non conoscevo ma quasi coetanea, di poco più grande, e allora mi aveva fatto impressione perchè giravo parecchio laggiù, da sola o con un'amica...avevo fatto passi simili ai suoi...mi ricordo la rabbia e il senso di ingiustizia, di non-senso...

    Nella città in cui vivo, quando è giorno, camminando per andare dove sono chiamata guardo nelle pieghe dell'asfalto, dei marciapiedi, dell'aiuoletta accanto al semaforo, alla fermata del tram e ritrovo piantaggine, tarassaco, silene, ortiche, bardana...e penso che queste erbe si sono fatte strada, sono sopravvissute e hanno lottato per essere lì...e se ne avessi bisogno per medicamento o nutrimento ci sarebbero...non si arrendono.
    Così il tuo scenario di allora è cambiato...mi piace pensare in qualcos'altro, magari a breve non si vede il senso ma più in là ci sarà...l'Amministrazione è miope ma confido che ci siano comunque erbe pioniere in realtà e metaforicamente in persone che portano avanti, ognuna nei suoi talenti e declinazione, oltre una visuale ristretta....e magari non si vedono subito...

    Questo concetto dell'erba pioniera non è male, me l'ha trasmesso Holmgren -vocabolo chiave 'Permacultura'-.
    Leggendo il tuo post ho pensato che potrebbe piacerti un articolo/capitolo suo...per come l'ho interiorizzato.
    Lo riguarderò e poi, magari, ti do un rimando...

    RispondiElimina
  3. Ciao Paolo,
    ho ripreso in mano il libro e il capitolo...in realtà è la mia sintesi (per come ho letto e interiorizzato) al capitolo/principio 12 'Reagisci ai cambiamenti e usali in modo creativo'del libro "Permacultura- Dallo sfruttamento all'integrazione. Progettare modelli di vita etici, stabili e sostenibili" di David Holmgren. Casomai.
    E' un libro 'tecnico' ma anche no...perlomeno io l'ho letto anche in modo 'tangente'.
    Buon rientro a casa in sù.
    Serena

    RispondiElimina
  4. questa storia si ripete altrove, a Bologna il bosco dela Bovisa si chiama Prati di Caprara, un'area ex militare di 47 ettari a 500 metri dalle mura rinascimentali della città, un boscro rinaturalizzato negli ultimi decenni grazie all'abbandono, oggi destinato ad opsitare 1000 alloggi, un centro commerciale e tanto altro. Le ruspe che hanno iniziato a sradicare gli alberi con il pretesto della bonifica bellica (le bombe cadute dal cielo oltre 70 anni), mentre i cittadini inascoltati chiedono all'amminstrazioe di conservare un bosco urbano, regalato dal tempo. Grazie del racconto, rabbia e commozione.

    RispondiElimina
  5. Bello ma alla tua eta' mi sembra un po' troppo pieno di "rimpianti". Te lo dice uno che a 66 anni comincia ad averne una certa esperienza. Ciao verro' a sentirti ad Acceglio Valle Maira il 23 giugno.

    RispondiElimina
  6. Ciao Sergio, ti ringrazio per avermi letto ma sono un po' stufo di questo genere di commenti da parte di persone della tua generazione. Saremo sempre troppo giovani per voi, pure adesso che ci viene la barba bianca. Io credo che a quarant'anni la giovinezza sia finita e uno possa anche fare un sunto delle idee e dei progetti per cui l'ha spesa. Per poi andare avanti, certo: è il senso di quello che ho scritto, a Milano è andata male ma ora proseguo il mio lavoro in montagna. Senza rimpianti, ma con un po' di rabbia in più. Ci si vede in Val Maira.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Molto, molto volentieri; non manchero'. Evidentemente non mi sono espresso bene e sono stato frainteso perché sui quarantenni eternamente giovani la penso esattamente come te. Buon lavoro!

      Elimina
  7. Salve. Mi chiamo Alberto, sono un studente spagnolo che fa Italiano come seconda lingua all'Università de Murcia e sto scrivendo un paper su "Le Otto Montagne". Sarebbe per me un onore ricevere qualche riga da parte dell'autore da includerci. Aspetti che sto considerando: simbolismo numerico, l'eroe solitario del romanzo americano del secolo XX, il riferimento a la "Ballata del vecchio marinaio", la similitudine fra Walden e la barma in montagna, il romanzo di formazione.... Rimarrei molto grato se avesse il tempo per un piccolo commento.Saluti

    RispondiElimina
  8. Ciao Alberto, sono molti argomenti per essere discussi qui. Se mi lasci un indirizzo email ti scrivo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sembra che non e arrivato il mio mail. Lo facio un'altra volta:

      all.lozax@gmail.com

      Elimina
  9. Grazie davvero per questo racconto, mi riallaccio a commento di Roberta qui da Bologna, dove la scusa della bonifica si prepara l'ennesima speculazione edilizia. Ma centinaia di cittadini stanno lottando per salvare dall'abnattimento il bellissimo bosco urbano dei Prati di Caprara, dove la vegetazione pioniera, senza chiederci in cambio niente, ha riforestato una ex area militare abbandonata. Siamo in tanti a difenderlo, ogni giorno di più. Abbiamo coscienza del valore di un bosco selvatico di 47 ettari e non vogliamo un giardino addomesticato pensato per aumentare il valore commerciale di nuovi palazzi e centri commerciali. Leggere queste sue parole rafforza il sentimento che condividiamo e che ci motiva in questa battaglia.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Cara Giovanna.
      Ciao Sono Edi Sanna e faccio parte del Comitato La Goccia, che sta difendendo davero con le unghie il Bosco della Goccia. Avete creato un Comitato? Vi va di incontrarci? edisanna@yahoo.it

      Elimina
  10. Grazie Paolo, ti ho mancato a Trento spero di riuscire a venire al festival.
    Leggerti rallenta il mio stato interiore e mi porta nel mio spazio interno. Oggi leggendo le otto montagne ho pianto, prima volta che mi accade con un libro.
    Grazie!

    RispondiElimina
  11. Ciao PAolo, capisco benissimo il tuo pensiero in quanto ex milanese che ora vive ad Iseo ed ha visto cambiare la sua città negli anni, tuo coetaneo, proprietario di cane (da montagna) e come te in attesa di poter tornare alla mia baita.
    Tutto è pronto, i voli di elicottero prenotati, i materiali da costruzione già imballati, alimenti per lo stomaco e la mente impacchettati ma manca solo una cosa: la volontà della montagna di riavermi. Il meteo è avverso, l'inverno ha picchiato duro creando parecchi danni e limitando le visite alla casa, molti animali sono morti ma io resto in attesa. Appena si apre uno spiraglio torno su e darò una rilettura a quel libro (il tuo) che mi aspetta in quota da Marzo dell'anno scorso.
    Buon ritorno alla tua montagna,

    RispondiElimina
  12. Ciao Paolo, di Maria Luisa, la cui storia mi aveva colpito, ho tratto spunto per il mio libro balfolk killer, che ti ho consegnato in scighera giorni fa. Ho abitato in Prealpi e Certosa per molti anni,e ho visto anche delle buone riqualificazioni negli ultimi anni, speriamo succeda anche per la Goccia.

    RispondiElimina
  13. Ciao Paolo,
    leggendo questa pagina, alle parole "il cane non è davvero nostro, noi non siamo i suoi padroni. Siamo amici silenziosi .." mi è balenata un'idea che vorrei approfondire con te, qualora tu fossi interessato a fare un piccolo gesto per altri cani, meno fortunati di Lucky. Se ti interessa parlarne, il mio contatto è c.squadroni@gmail.com.
    Buona montagna,
    Claudia

    RispondiElimina