martedì 30 luglio 2019

TIZIANO

(Questo pezzo è uscito sulla Repubblica, per i 15 anni dalla morte di Terzani)

Ho un maestro che non ho mai incontrato, si chiamava Tiziano Terzani. Amavo in lui l'irrequietezza, la testardaggine, la fragilità, il conflitto tra il bisogno di famiglia e quello di nomadismo, i dubbi e i ripensamenti della sua mente libera, il modo in cui l'umanità lo incuriosiva, lo meravigliava e a volte lo deludeva, l'allegria contagiosa, la depressione altrettanto contagiosa, gli slanci e le crisi. Se lo immagino vivo, in carne e ossa, dentro di me non vedo il vecchio con la barba bianca e la veste indiana ma il ragazzo alto, bello, sorridente, ancora prima che si faccia crescere i baffi, già abbracciato alla sua Angela davanti all'obiettivo. È il 1961 e Tiziano ha ventitré anni. Negli occhi vedo la giovinezza e l'ambizione, l'ironia e la seduttività, è uno sguardo che dice “sto arrivando, mondo!”. Vedo la forza di un figlio della periferia e del dopoguerra che per emanciparsi studia, studia, si fa strada a forza di libri, avrebbe dovuto finire sì e no le medie e invece viene ammesso nel miglior liceo di Firenze, e poi alla Normale di Pisa. Lo vedo qualche anno dopo a Ivrea, a Milano: fuma la pipa, fa carriera all'Olivetti, lavora nell'eccellenza illuminata dell'industria italiana ma ha in testa altro, il giornalismo, l'Asia, una vita tutta diversa da quella in cui si è cacciato. Lo mandano in missione in Giappone e in Sud Africa e lui usa ogni momento libero per scrivere. Durante una conferenza interviene da par suo contro l'America che ha invaso il Vietnam e un funzionario britannico, un cacciatore di talenti, per convertirlo gli offre una borsa di studio nella tana del nemico, in qualsiasi disciplina a sua scelta. Tiziano non ci pensa due volte: lascia il posto da manager e sulla soglia dei trent'anni torna a fare lo studente, attraversa con Angela l'oceano ma non per diventare americano, con una splendida beffarda trovata ha chiesto di studiare il cinese in America. Lo vedo in un appartamento di New York in quegli anni di fuoco, tra il '67 e il '69: ora ha i capelli un po' più lunghi, fa esperimenti con la barba e i baffi, si traveste da hippie durante un viaggio in California, incontra le Black Panther e gli anarchici, va nel sud a capire come stanno gli afroamericani. Ha un figlio ma nessuna tentazione di mettere radici qui, non ora che ha visto con i suoi occhi l'America che spara a Robert Kennedy e Martin Luther King, l'America della ricchezza sfrenata, della miseria nera, delle disparità e della violenza sociale: nelle aule della Columbia e di Stanford legge tutto quello che trova sulla Cina di Mao, il paese che sogna per il suo futuro, il più grande esperimento di giustizia e di progresso della storia. Eccolo, Tiziano, eccolo a inseguire il suo sogno con un'altra capriola di coraggio e fantasia, nessun giornale italiano gli dava fiducia e allora lui è andato fino ad Amburgo, ha convinto la redazione di Der Spiegel e ora scrive in tedesco dall'Asia. Ha trentacinque, trentasette, trentanove anni, due figli piccoli, una moglie che a volte lo segue e altre lo aspetta nelle case di Singapore o di Hong Kong, case coloniali, case con pappagalli e tartarughe, case piene di libri che viaggiano da una casa all'altra, intanto che Tiziano gira il continente per raccontare le sue rivoluzioni. Fa un mestiere che non esiste più, quello di Hemingway, il corrispondente di guerra, e come Hemingway comincia a sembrare più vecchio della sua età. Sarà il sibilo dei proiettili a imbiancargli i capelli, saranno le facce dei morti a incidergli quelle due rughe tra gli occhi? È alto, lo immagino sempre alto Tiziano, una spanna più alto dei piccoli vietnamiti e cambogiani e laotiani che lo circondano, ha cominciato a indossare camicie bianche, a portare la Leica al collo, ha la sigaretta tra le dita. Sorride e anche i piccoli vietnamiti intorno a lui sorridono perché sanno che è loro amico, Monsieur Moustache, è il '75 e gli americani se ne sono appena andati da Saigon, lui è lì a festeggiare la liberazione. Lo vedo quel giorno, forse è l'ultima volta che ci crede davvero, è una specie di fine della giovinezza, Tiziano seduto sul carro armato tra le bandiere che sventolano e i guerriglieri esultanti. Comincia a smettere di crederci quando vede arrivare le dittature e i massacri nei paesi che credeva liberati, perde del tutto la fede quando la Cina apre le frontiere ai giornalisti e lui entra tra i primissimi, andando a vivere con la famiglia a Pechino. La realizzazione del sogno e insieme la sua fine. Eppure è vero amore: lo vedo, Tiziano, a quarantacinque anni, viaggiare per le province più remote, sfuggire ai funzionari di partito, se loro dicono di andare a destra lui va a sinistra, lo vedo girare in bicicletta su strade polverose, lo vedo mischiarsi alla gente nei mercati. È incantato dai contadini, dagli artigiani. I mercati sono la sua grande passione, colleziona le cose più astruse, le gabbiette di legno per i grilli, i fischietti per piccioni. Si dà un nome cinese, parla e mangia e veste cinese tra i cinesi, manda i figli alla scuola pubblica con i bambini cinesi, ma intanto in Manciuria, in Tibet, nella stessa Pechino la realtà è davanti ai suoi occhi: e gli occhi di Tiziano sono troppo acuti per non vedere, la sua penna troppo onesta per non raccontare. Non ho fotografie della paura, non lo so immaginare mentre viene avvertito e minacciato, mentre decide di mettere Angela e i bambini al sicuro, li rispedisce a Hong Kong e resta solo a Pechino, mentre viene arrestato, interrogato, tenuto in carcere e infine espulso a vita dal paese che amava, nel 1984. Lo vedo cupo e silenzioso negli anni del Giappone. Alla fine dei sogni, dei libri che ha letto, delle idee politiche che si è pazientemente costruito, deluso e tradito mentre prende la metropolitana, si mischia alla folla di impiegati di Tokyo, osserva le ruspe che perennemente demoliscono la città, gira per i locali notturni, si sente di nuovo in America. Anzi peggio che in America in quest'Asia che rinuncia alla sua cultura e alla sua storia, quest'Asia che inseguendo l'Occidente si arrende e muore. Nel '90 riesce a farsi trasferire a Bangkok, ma non è che in Thailandia trovi una storia poi tanto diversa; nel '91 attraversa ciò che resta dell'Unione Sovietica per dare la buonanotte al comunismo e vede i musulmani delle provincie asiatiche abbattere le statue di Lenin invocando Allah. È stanco, Tiziano, a poco più di cinquant'anni è perfino stanco del mestiere che era la sua passione, stanco di partire per le guerre, le rivolte e i colpi di stato, stanco di vedere morti, di ascoltare le bugie dei dittatori, di incontrare affaristi che si arricchiscono con finte rivoluzioni, di raccontare sempre la stessa storia. Il fuoco è spento e per uscirne, da questa crisi che è cominciata in Cina ed è la più grande della sua vita, ci vuole un altro numero di coraggio e fantasia, probabilmente il suo capolavoro, quando dice al giornale che per un anno non potrà prendere aerei, a causa di un vecchio indovino e di una profezia funesta. Se non sono dimissioni ci manca poco. Lo vedo, Tiziano, in quel 1993, salire su treni e navi, viaggiare per giorni e notti su vagoni lentissimi e sovraffollati, percorrere su mezzi di fortuna la Malesia, la Birmania, la Thailandia, la Cambogia, ritrovare i mercati e le fumerie d'oppio e i retrobottega dei chiromanti, riscoprire la sua Asia amatissima, cercarla dove sopravvive. Comincia a guardare all'India come a un nuovo sogno. Tradito da Mao, vede una possibilità in Gandhi; deluso dalla politica sente che è l'ora di una ricerca personale. Nel '94 si trasferisce a Delhi e due anni dopo abbandona davvero i giornali, decide di proseguire per conto suo, di provare a vivere scrivendo libri. Lo vedo di nuovo felice e curioso in quell'immensa città brulicante, ora si veste tutto di bianco, anche i capelli sono già completamente bianchi, sente un dolore che ignora per un po', sente di cominciare una seconda o terza vita e non sa cosa lo aspetta. Poi lo vedo a New York dove non avrebbe mai pensato di tornare, gira intorno alla casa dove abitava con Angela trent'anni prima, cammina per Central Park e fino all'ospedale della chemioterapia. New York gli piace anche se fatica ad ammetterlo, gli ricorda tante cose. I figli ormai sono andati per la loro strada e lui è più libero e solo che mai, si è tagliato barba e capelli prima che cadano, così è il volto di un Tiziano vecchio e giovane, un Tiziano del presente e del passato che vaga pensieroso per Manhattan. Questa crisi non se l'è cercata lui, però ci sta trovando un senso. Anche Angela non c'è, la rivede a Firenze, in India; insieme cercano un posto dove, tra un ciclo e l'altro di terapia, lui possa stare tranquillo e praticare la meditazione buddista, con cui curarsi a modo suo. È un altro giro di giostra fino a Binsar, nell'Himalaya indiana, in una casetta davanti al Nanda Devi, ospite di un vecchio maestro. Vedo Tiziano lassù con i suoi due corvi, la coperta sulle spalle, la candela davanti a cui medita la notte; fa freddo e lui sta scrivendo sulla malattia e sul male. A Tiziano della montagna non è mai importato granché, ha sempre voluto essere un uomo della città, della politica, del vivere con gli altri, ma quest'Himalaya lo riporta all'Appennino della sua infanzia. Certi giorni è incantato dalle albe, dalla luce riflessa dai ghiacciai, dagli sbuffi di nebbia tra i rami dei rododendri giganti, vorrebbe essere un pittore per dipingere tutto quello che vede, certi altri gli manca terribilmente Angela e ha nostalgia della loro vita. Tutti quei viaggi, le case, le guerre, quell'avventura di quarant'anni che è stata il loro matrimonio, tutte quelle parole su parole su parole. È così che deve finire? In silenzio davanti all'Himalaya? Sì, forse finirebbe così se l'11 settembre 2001 due aerei dirottati non piombassero su New York e se l'America non reagisse nell'unico modo che conosce da sempre, con la guerra. Un'altra guerra. Vedo Tiziano raggiunto lassù dal fragore della guerra. Si sente richiamato dal mondo, lui che aveva perfino rinunciato a un nome, ma adesso Anam è di nuovo Tiziano Terzani, se lo riprende e fa arrabbiare il suo maestro che lo vorrebbe definitivamente distaccato, pacificato, indifferente alla tragedia umana, ma Tiziano non potrà mai essere così, e adesso scende dalla montagna a fare per l'ultima volta il suo vecchio mestiere, l'inviato di guerra. Ha poco più di sessant'anni ma ne dimostra ottanta, cammina curvo e con un bastone, ha barba e capelli lunghi e bianchissimi, è ammalato eppure vivo già ben oltre le previsioni dei medici di New York, si scopre amatissimo dai suoi lettori. Non sapeva di averne conquistati tanti. Va in Afghanistan, scrive da sotto le bombe, scrive lettere contro la guerra, scrive come scrive da una vita intera. L'ultima estate lo vedo all'Orsigna perché ha capito che quello è il posto, non Binsar, non l'Himalaya. C'è Angela. C'è Folco. C'è Saskia. Passa il tempo a chiacchierare con loro, non vuole incontrare nessun altro. Lo vedo bianco, tranquillo, in pace, su un poggio da cui guardare le montagne o nella capanna che si è fatto costruire, dove dorme da solo. Ha tempo di ripensare a tutto. Poi vedo tutto finire e ricominciare. Ciao Tiziano. La fine è il tuo inizio.

Nessun commento:

Posta un commento