Stamattina ho partecipato a una lezione in università. Studenti di architettura del primo anno. Ero andato a parlare di New York e del mio libro: a raccontare in quanti modi diversi, con quali metodi e sentimenti, si può guardare una città. A un certo punto siamo finiti a parlare del fatto che gli americani si spostano come niente, cambiano casa, lasciano il lavoro, vendono tutto e se ne vanno da un’altra parte. Uno dei docenti ha ragionato sulla necessità, o l’abitudine, o la scelta di non radicarsi in un luogo. Poi ha chiesto agli studenti che cosa ne pensavano. Anzi no, ha chiesto: e voi, se immaginate di mettere su famiglia e stabilirvi da qualche parte, dove vi vedete?
“Qui”, hanno risposto tutti.
“Perché qui?”, ha chiesto lui.
“Perché qui ci piace”, hanno risposto.
Trattandosi di un laboratorio di urbanistica, sono stati invitati a rifletterci meglio e argomentare. Dopo un po’, qualcuno ha detto che per andare via servono tanti soldi. E perdi tutto quello che avevi prima. E se fai dei bambini, ha aggiunto un altro, chi te li tiene? Un terzo ha affermato deciso: i bambini devono stare con i nonni.
“E perché?”, gli abbiamo chiesto.
“Perché i nonni trasmettono i valori che contano, la tradizione”.
La discussione poi è proseguita, ma a quel punto con la testa ero già altrove. Stavo facendo due conti: quelli erano ragazzi nati nel 1990. Erano cresciuti vicino ai loro nonni? Probabilmente sì, mi sono detto. In classe c’erano anche due ragazze arabe, e diversi studenti orientali: chissà che cosa ne pensavano loro. Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma erano tutti raggruppati in fondo all’aula, timidi, vagamente perplessi. Sentivo di capirli in qualche modo.
“Qui”, hanno risposto tutti.
“Perché qui?”, ha chiesto lui.
“Perché qui ci piace”, hanno risposto.
Trattandosi di un laboratorio di urbanistica, sono stati invitati a rifletterci meglio e argomentare. Dopo un po’, qualcuno ha detto che per andare via servono tanti soldi. E perdi tutto quello che avevi prima. E se fai dei bambini, ha aggiunto un altro, chi te li tiene? Un terzo ha affermato deciso: i bambini devono stare con i nonni.
“E perché?”, gli abbiamo chiesto.
“Perché i nonni trasmettono i valori che contano, la tradizione”.
La discussione poi è proseguita, ma a quel punto con la testa ero già altrove. Stavo facendo due conti: quelli erano ragazzi nati nel 1990. Erano cresciuti vicino ai loro nonni? Probabilmente sì, mi sono detto. In classe c’erano anche due ragazze arabe, e diversi studenti orientali: chissà che cosa ne pensavano loro. Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma erano tutti raggruppati in fondo all’aula, timidi, vagamente perplessi. Sentivo di capirli in qualche modo.
Così tornando a casa mi sono messo a pensare a quale occasione storica sia stata crescere a Milano tra gli anni Settanta e Ottanta. Cioè dopo trent’anni di massiccia immigrazione interna. Cioè lontano dai propri nonni, per fortuna (sono una di quelle persone che pensano tutto il male possibile della tradizione: per me non è altro che la tirannia delle generazioni passate su quelle future). Tra i miei compagni di classe, alle elementari, nemmeno uno era figlio di milanesi. I nostri nonni abitavano in Puglia, in Sicilia, in Veneto. I nostri genitori parlavano dialetti pittoreschi. I bambini arrivavano in classe con addosso odori strani, non la verza della cassoeula ma aglio, peperoni, melanzane. A giugno c’era un esodo di massa: la maggior parte di noi passava l’estate al paese. I miei compagni tornavano più selvatici, bruciati dal sole, con il Mediterraneo infiltrato perfino nella lingua. Fuori da Milano pensano che abbiamo tutti lo stesso accento, ma noi che ci abitiamo riconosciamo le sfumature: un po’ di Puglia nelle vocali aperte, un po’ di Sicilia nel raddoppio delle consonanti, si sentono lontano un chilometro. Se andavi a casa di un compagno a giocare, scoprivi mondi sconosciuti. I padri degli altri inneggiavano al Milan gridando minchia o maronna ai gol sbagliati. Le madri friggevano per tutto il tempo. D’estate pranzavano in balcone, in ciabatte e canottiera. Le madri appendevano santini in ogni stanza, i padri soffrivano di una malinconia di fondo che si risolveva solo a ferragosto, quando era l’ora di macinarsi mille chilometri in macchina, in un bagno di felicità e sudore, sull’autostrada del sole. Queste sono le persone della mia infanzia. E il bello è che non pensavo di essere cresciuto in un’epoca particolare: ero convinto che i padri degli altri fossero tutti così, che quella fosse la natura di Milano.
Quando negli anni Novanta è saltata fuori la Lega noi abbiamo pensato: ma questi di chi stanno parlando? Di certo non di noi (e infatti poi abbiamo avuto il primo sindaco leghista della storia). Crescendo ho continuato a incrociare la stessa razza meticcia: alle superiori i miei migliori amici erano un mezzo rumeno e un mezzo siciliano, tornavano dalle vacanze parlando di Bucarest e di Palermo (ma sempre con il nostro accento della fabbrichetta). Con la mia prima ragazza scherzavamo, lei mezza lombarda e mezza piemontese, io mezzo veneto e mezzo emiliano, che insieme avremmo coperto tutto il corso del Po. Per incontrare una purosangue della mia età, milanese di padre e di madre, ho dovuto aspettare i venticinque anni, e per ironia della sorte adesso è la mia compagna (però, a proposito di nonni, la sua le diceva sempre: ti te parl milanés come ‘na teruna. Saranno state le cattive compagnie). Quando mi racconta delle sue domeniche di bambina, la pasticceria con la nonna, il bianchino al bar con il nonno, mi sembra un’infanzia degli anni Trenta. Pensavo che tutti noi passassimo le domeniche alla finestra, davanti alla televisione oppure in macchina, con un vetro eternamente davanti alla realtà, a guardare questa città e chiederci di chi fosse davvero.
Ecco, per dire che oggi mi sono ritrovato a scoprire come sono cambiati i tempi. I ragazzi del 1990 sono figli di padri sedentari, hanno avuto compagni di classe cinesi e arabi, e ritengono che la tradizione sia una cosa importante. Vogliono vivere dove sono cresciuti. È evidente che hanno, avranno, idee diverse dalle mie, che saranno cittadini diversi da me. Però diversi come?
E poi volevo dire un’altra cosa, nel cuore la tua città resta sempre quella che hai conosciuto da bambino. La mia Milano è ancora piena di uomini in canottiera sui balconi. Gente che aveva detto addio a suo padre e sua madre, ed era venuta qui a rifarsi una vita. Allora sembravano buffi e chiassosi, adesso li ammiro. Spero tanto che ne arrivino ancora.
(P.S. del giorno dopo. Stamattina leggo Repubblica e trovo questo articolo: "I figli sorpassano a destra i genitori, la spinta da maschi e regioni rosse". Uno studio interessante. Era quello che stavo cercando di dire, non di fare nostalgia a buon mercato)
Quando negli anni Novanta è saltata fuori la Lega noi abbiamo pensato: ma questi di chi stanno parlando? Di certo non di noi (e infatti poi abbiamo avuto il primo sindaco leghista della storia). Crescendo ho continuato a incrociare la stessa razza meticcia: alle superiori i miei migliori amici erano un mezzo rumeno e un mezzo siciliano, tornavano dalle vacanze parlando di Bucarest e di Palermo (ma sempre con il nostro accento della fabbrichetta). Con la mia prima ragazza scherzavamo, lei mezza lombarda e mezza piemontese, io mezzo veneto e mezzo emiliano, che insieme avremmo coperto tutto il corso del Po. Per incontrare una purosangue della mia età, milanese di padre e di madre, ho dovuto aspettare i venticinque anni, e per ironia della sorte adesso è la mia compagna (però, a proposito di nonni, la sua le diceva sempre: ti te parl milanés come ‘na teruna. Saranno state le cattive compagnie). Quando mi racconta delle sue domeniche di bambina, la pasticceria con la nonna, il bianchino al bar con il nonno, mi sembra un’infanzia degli anni Trenta. Pensavo che tutti noi passassimo le domeniche alla finestra, davanti alla televisione oppure in macchina, con un vetro eternamente davanti alla realtà, a guardare questa città e chiederci di chi fosse davvero.
Ecco, per dire che oggi mi sono ritrovato a scoprire come sono cambiati i tempi. I ragazzi del 1990 sono figli di padri sedentari, hanno avuto compagni di classe cinesi e arabi, e ritengono che la tradizione sia una cosa importante. Vogliono vivere dove sono cresciuti. È evidente che hanno, avranno, idee diverse dalle mie, che saranno cittadini diversi da me. Però diversi come?
E poi volevo dire un’altra cosa, nel cuore la tua città resta sempre quella che hai conosciuto da bambino. La mia Milano è ancora piena di uomini in canottiera sui balconi. Gente che aveva detto addio a suo padre e sua madre, ed era venuta qui a rifarsi una vita. Allora sembravano buffi e chiassosi, adesso li ammiro. Spero tanto che ne arrivino ancora.
(P.S. del giorno dopo. Stamattina leggo Repubblica e trovo questo articolo: "I figli sorpassano a destra i genitori, la spinta da maschi e regioni rosse". Uno studio interessante. Era quello che stavo cercando di dire, non di fare nostalgia a buon mercato)
un post scritto di getto?
RispondiEliminacomunque siamo tutti italiani: mio padre, piemontesissimo, urlava come un ossesso (per farlo incazzare ancor di più lo chiamavo cantanapoli, lui che odiava i meridionali), mi sequestrò in casa e avrebbe minacciato con lupara i miei morosi.
poi la madre di un mio amico, piemontesissima, gli metteva sempre nello zaino o nella valigia un'immaginetta di san gaspare del bufalo.
petarda, grazie per le tue memorie.
RispondiEliminanon dubito che esistessero padri piemontesissimi, o abruzzesissimi, o sardissimi, simili ai padri che conoscevo io. però quelli non mi interessano molto. mi interessano gli sradicati, le vittime dell'ostilità locale, quelli che sono stati costretti a ricostruirsi un'identità.
per questo non credo che "siamo tutti italiani", anzi è proprio il contrario di quello che stavo cercando di dire: c'è gente molto diversa da noi, a me interessa viverci insieme. erano i pugliesi ma potrebbero essere i rumeni o i peruviani: allora siamo tutti cosa? (per me gli "italiani" come categoria nemmeno esistono, ma quello è un mio problema)
Bellissimo racconto, tratteggiato con poche righe, quello dei ragazzini che entrano in classe con odori di cipolla e peperoni e poi tornano dall'estate inselvatichiti... però c'è qualcosa di fondo, nel tuo pezzo, che non ho ben capito cosa sia, e che credo abbia urtato la mia sensibilità di meridionale (no, non penso assolutamente ci sia un risvolto razzista nelle tue parole, anzi, con tutta probabilità hai toccato delle cose che appartengono precipuamente al mio passato di figlio di genitori sudisti che emigrarono al nord e poi, dopo due decenni, decisero di tornare al sud perché non riuscirono mai ad integrarsi). Comunque grazie...
RispondiEliminaOMAR DI MONOPOLI
ciao omar, forse ho usato dei cliché e sono quelli che ti hanno urtato. hai ragione. non è piacevole sentirsi descritti da luoghi comuni, spinge a moti di rivolta. però l'ho fatto con grande affetto, te lo giuro.
RispondiEliminaper altro qui chiamano i veneti "terroni del nord", nemmeno i miei genitori hanno mai avuto amici milanesi ma solo altri immigrati come loro, sono anch'io della famiglia.
C'è qualcosa in queste tue parole, e soprattutto nelle parole dei ragazzi che hai incontrato, che mi tocca profondamente, un senso di disagio nell'associazione tagliata con l'accetta nonni=Valori/Tradizione, nel non immaginarsi di poter cercare un posto che "piaccia" più di "qui", e oltre al "qui". Qualcosa che non so spiegarti bene e probabilmente ha a che fare con le scelte personali che portano a spostarsi da dove si è nati, e con il fatto che associare indissolubilmente persone, storie e luoghi porti ad affezionarsi ai luoghi come surrogato delle persone e delle storie. Da architetto, posso dirti che molto spesso le parole di chi le abita o le racconta formano e trasformano le città più di qualsiasi piano urbanistico o operazione immobiliare.
RispondiEliminaGrazie per quello che scrivi
è molto bello, se per "viverci insieme" intendi vivere ogni giorno nello stesso quartiere, nello stesso isolato, nello stesso condominio. io lo faccio da più di vent'anni. l'italiano è lingua franca da chi vende il kebab, al supermercato: questa cosa mi commuove (il mio dire "siamo tutti italiani" era chiaramente riferito, in maniera provocatoria, ai deliri dei leghisti).
RispondiEliminaper diverso tempo ci ho anche lavorato, coi cittadini di qui, di questo quartiere di torino che è di primo arrivo: l'altro ieri di persone di altre regioni italiane, ieri e oggi di persone di altri paesi.
più che sapere che cosa pensano i ragazzi italiani (su cui non ripongo molte aspettative; anche quelli più in gamba mi sembrano gnecchi e inclini al pecorume, però è anche da dire che non ne conosco molti) mi piacerebbe, ad esempio, sapere che cosa fanno adesso i/le ragazzini/e rumeni/e, marocchini/e, filippini/e, cinesi che avevamo visto per una ricerca condotta alle medie e alle elementari, e che adesso saranno adolescenti e giovinetti/e; erano svegli, preparati, aperti e molto buoni e disponibili coi compagni meno in gamba; in generale, sarei curiosa di sapere questa "seconda generazione" come sta venendo su. a scuola imparavano l'italiano, a casa i loro genitori non lo parlavano o lo parlavano malissimo (ricordo il presidente di un'associazione cinese voleva fare un corso di lingua e letteratura per i bambini-banana, gialli fuori e bianchi dentro).
dopo aver intervistato alcune donne musulmane che mi avevano detto di sentirsi osservate e giudicate dalle italiane quando per strada portavano il velo, stavo attenta a sorridere sempre alle mie vicine di casa velate; c'è stato un periodo in cui sopra casa mia abitavano, ammassate nelle mansarde, decine di ragazze nigeriane; lo stesso capitava, e in alcuni palazzi capita ancora, a uomini provenienti dall'africa e dall'est europa. quindi viverci, in questi casi, vuol dire anche sapere che vicino a te, magari sopra la tua testa, ci stanno loro, in condizioni non esattamente umane, per il lucro di qualche tuo connazionale (e qui non c'è distinzione, pare, tra il piemontese doc e l'"oriundo").
e c'è anche l'altra faccia della medaglia: quelli che sono arrivati prima e che vedono le strade "piene" di quelli arrivati dopo; si sentono invasi, anche se quel modo di stare insieme per strada è lo stesso, nelle regioni da cui sono venuti decenni fa. e i luoghi, il tratto di via sotto casa, la piazza, improvvisamente abitati da volti diversi, diventano estranei, diventano invivibili, e questo fa paura e fa rabbia. queste persone, per usare una tua espressione, sono tutte state, in epoche diverse, "vittime dell'ostilità locale".
e comunque le famiglie di stranieri, da qui, spesso se ne vogliono andare in zone più tranquille, in periferia e nella cintura.
tranquillo Paolo, l'affetto si sente tutto, infatti credo sia qualcos'altro e personalmente sono molto colpito da questo post proprio perché ha saputo risvegliare in me sensazioni «di pancia», qualcosa che - come dicevo nel primo intervento - forse hanno a che fare più con il vissuto di chi, come il sottoscritto, risaliva dall'estate bruciato dal sole della terronia piuttosto che con te che stavi dall'altra parte a registrare il nostro ritorno in classe. A dirla tutta forse le tue parole, la tua chiave di lettura, mi hanno reso consapevole di una «differenza» che solo ora, a più di trent'anni dal mio ritorno al sud con la famiglia, riesco davvero a registrare... non male, considerando che si tratta «solo» di un post! (bravo!)
RispondiEliminamaria: mi ha colpito questa frase che hai scritto. "il fatto che associare indissolubilmente persone, storie e luoghi porti ad affezionarsi ai luoghi come surrogato delle persone e delle storie." mi piace, la sento molto vera, credo che ci penserò sopra. grazie.
RispondiEliminapetarda: ecco, ora ti capisco meglio. però guarda, la differenza grossa con tutti questi stranieri con cui anch'io adesso convivo, è che gli "stranieri" di vent'anni fa erano i miei compagni di classe, era diverso crescere insieme da abitarci accanto. essere bambini insieme era un'esperienza fortissima, credo irripetibile. non avrò mai la stessa condivisione con il mio vicino egiziano. per questo credo che il punto di vista dei ragazzi, il lavoro che si può fare con loro, sia molto più importante.
omar: ti penso come uno dei miei compagni delle elementari, che poi è tornato a casa. non so bene se essere contento per te o triste perché non sei riuscito a sentirti a casa qui. grazie per quello che mi dici.
lo è sicuramente; alcuni anni fa, parlando non di italiani ma solo di "stranieri" o di "figli di stranieri", c'erano quelli che non parlavano una parola di italiano e quelli che facevano da interpreti per i genitori, quelli che venivano da "non accompagnati", al seguito di fantomatici zii, in realtà per essere buttati sulle strade a vendere, quelli che stavano coi nonni al loro paese in attesa di ricongiungersi ai genitori, quelli - pochi - che venivano su con la famiglia intera. di quella classe delle elementari (una quarta o una quinta) mi ricordo che un bambino rumeno e una bambina filippina (voleva laurearsi in medicina qui e poi tornare a manila) avevano come adottato un compagno "non accompagnato" che non parlava una parola di italiano.
RispondiEliminami è venuta in mente anche un'aberrazione: i bambini e le bambine dotati di permesso di soggiorno per minore età o per famiglia, se non trovavano la maniera per una sua conversione alla maggiore età, rischiavano il rimpatrio, anche se il resto della famiglia era ormai qui, e anche se tutta la loro vita scolastica si era svolta qui, in italia, e quindi erano preparati alla nostra realtà del lavoro.
chissà quanti, negli ultimi anni, sono stati davvero rimpatriati; spero pochi. e che quei pochi siano poi riusciti a tornare.
quel che si dice un paese senza cuore, che tratta gli esseri umani come se fossero privi di sentimenti.
quanto sei bello paolé...
RispondiEliminasono nata negli anni '80 e ancora non ho piazzato le radici.
mia nonna ogni tanto riusciva ad acchiapparmi e a mettermi un piatto a tavola all'ora giusta. e lo fa anche adesso.
a me "qui" non é mai piaciuto.
grazie.
Francesca de Lena