martedì 28 settembre 2010

DESARPA

L’autunno arriva in piccoli segnali, non solo nella gente che da un giorno all’altro è sparita. Nella brina sul prato di casa, quando esco verso le otto con la mia tazza di caffè. Nel sole incapace di scioglierla fino a mezzogiorno. Nei selvatici che sono tornati a mostrarsi: qualche notte fa una volpe è venuta a cercare cibo, mi ha visto sul balcone, è trotterellata via senza paura. Negli spari dei fucili che rimbombano per la valle, dopo quella mattina limpida e fredda in cui si è aperta la caccia al capriolo. Mario Rigoni Stern diceva che, delle stagioni, quella che gli piaceva meno era l’estate, perché il bosco è come assente, mentre amava l’autunno perché si può di nuovo tendere l’orecchio e ascoltare. Però non parlava di questo senso di morte incombente, della montagna ogni giorno più sterile, degli odori che scompaiono. Qui non ci sono raccolti e vendemmie, qui a settembre si mette via la legna in vista di una lunga stagione buia.

In alto ha cominciato a nevicare. In questi giorni le mandrie scendono dagli alpeggi, non per il freddo ma perché l’erba è finita. La montagna non ha più un goccio d’acqua, i prati sono gialli come distese di fieno. Nei letti dei torrenti il ghiaccio vela le rocce umide, si scioglie in macchie scure. Salendo per il sentiero oggi incrocio una lunga fila di mucche lente, cani e bambini intorno a badare che nessuna si attardi, l’allevatore in testa e sua moglie in coda, alla guida di un fuoristrada carico di cose. È la desarpa. Li ricordo tutti, bambini e cani e mucche, all’inizio di giugno, appena arrivati quassù e pazzi di gioia. Ora che la stagione è finita le mucche tornano in stalla, i cani alla catena, e i pastori stagionali dovranno trovarsi un lavoro nei cantieri.

Così faccio un giro intorno agli alpeggi chiusi, dove fino a ieri risuonavano i campanacci. Porte e finestre sbarrate, i letamai vuoti. Le piccole rogge e i canali, che dai torrenti portavano acqua agli abbeveratoi, ora sono chiuse. Vasche da bagno arrugginite e rovesciate restano a languire nei pascoli. Per terra lo sterco secco, i segni delle ruote dei trattori, il paletto a cui stava legato il cane. È una strana sensazione di fuga, come se fosse scoppiata una guerra o un’epidemia. Solo le ortiche sono ancora rigogliose, ma quelle crescono dove non c’è più nessuno, segnano l’abbandono.

Salendo oltre gli ultimi pascoli ripenso alla scena incredibile che ho visto alla fine di agosto, l’allattamento degli stambecchi. Era un branco di venti esemplari su una morena glaciale, con otto cuccioli non ancora svezzati. Chissà cosa provano in questi giorni, assistendo alla loro prima neve? Supero con un salto il torrente che una volta ho dovuto guadare togliendomi calze e scarpe: ora è ridotto a una serie di pozze in cui le trote sono imprigionate, non provano neanche a nascondersi al mio passaggio, potrei raccoglierle con le mani. Poco più su, scollinando a nord, trovo la conca dei laghi completamente imbiancata. La neve copre le tane delle marmotte, il tracciato dei sentieri. L’acqua è increspata dal vento e diventa scura, tetra, con tutto quel bianco intorno; ora non vedrà un raggio di sole per molto tempo. È un’incursione nell’inverno che lascia anche me di un umore cupo, e mi sento sollevato nel tornare giù a balzi, nel calpestare di nuovo l’erba.

Gli alpeggi bassi, verso i duemila metri, resisteranno ancora qualche giorno, forse un mese se il tempo sarà mite. Rambo non ci pensa alla desarpa, non ha un granché a cui tornare e ha deciso di restare qui fino a quando ce la fa. Per questo davanti alla baita ha una catasta di legna alta due metri, che un po’ alla volta sta spaccando a mano. Ascia, cunei e mazza, ma il vecchio larice a quanto pare era cresciuto ritorto, e non vuole saperne di aprirsi in due. Intorno c’è un silenzio insolito. Lupo, anziché fare la guardia al pascolo, è lì che osserva il suo padrone lavorare. Rambo scrolla le spalle quando gliene chiedo il motivo. Tra una mazzata e l’altra mi racconta che stamattina ha aperto la stalla come sempre, ma le mucche hanno messo fuori il muso, hanno annusato l’aria, hanno visto la neve e sono tornate dentro. Cazzi loro, mi dice. Le lascio un giorno a digiuno e poi domani vediamo se non corrono come vitelli. Siccome ormai è mezzogiorno, le mucche sono in castigo e il ceppo di larice non si spacca nemmeno con tre cunei in corpo, Rambo butta la mazza per terra e mi chiede se mi va di andare giù in paese a mangiare. Perché no, dico io. Andiamo in macchina? Lui si gratta la testa, guarda il rottame della Punto lì di fianco e mi confessa che ha finito la benzina. Questi sono i suoi classici casini quotidiani. Prendiamo il trattore, mi fa: ci mettiamo un po’ di più ma ti immagini l’ingresso in scena?

domenica 12 settembre 2010

MASCHI (due)

Da queste parti esiste un animale mitico, il dahu. È uno strano stambecco adattato dalla selezione naturale a vivere sui dirupi. Per abitare quei luoghi scoscesi, il dahu ha zampe asimmetriche: a volte sono più corte quelle di destra (in questo caso si chiama levogiro), a volte quelle di sinistra (destrogiro). Ma un corpo specializzato è anche una condanna. A causa delle sue zampe, il dahu non può voltarsi mai: per non cadere è costretto a dare lo stesso fianco alla montagna, e a girarle intorno nello stesso verso, per tutta la vita. Questo inconveniente genera situazioni che noi conosciamo bene. Due levogiri, per esempio, camminano in fila indiana o fianco a fianco, ma non si fronteggiano mai. Un levogiro e un destrogiro, se si incontrano e sono entrambi maschi, possono solo prendersi a cornate. Se sono un maschio e una femmina possono corteggiarsi, ma in nessun caso accoppiarsi: si guardano negli occhi, si annusano, magari si innamorano, e poi devono passare oltre. Per finire, se un dahu supera un ciuffo d’erba o un rivolo d’acqua, l’erba o l’acqua fanno già parte del passato: per ritrovarle bisognerebbe fare il giro della montagna. Qui non si torna indietro, e se incontri una donna è un gran casino. È quello che succede a vivere in pendenza.

Tra gli umani, si fa grande attenzione alla forza di gravità. Ogni cosa ha un peso e ogni cosa - che sia foglia, pietra o goccia d’acqua - tende a rotolare a valle. Prima di costruire una casa bisogna vedere se a monte c’è una sorgente, e da che parte cadono le valanghe. Se c’è da fare un lavoro in cui si trasportano carichi, lo si organizza in modo da avere il punto di partenza in alto, e la destinazione in basso. Nella preparazione dello zaino, come nella scrittura, togliere è più importante che aggiungere, e la leggerezza di Calvino è una qualità molto apprezzata per salire in cima a una montagna. Insieme al paesaggio cambiano le parole. Avanti e indietro sono roba da pianura, qui si dice su e giù. Sud e nord diventano dritto e rovescio (e in barba ai mappamondi il sud è il dritto, perché prende più sole). In città se una cosa ti cade la raccogli, che c’è di strano? Qui da noi, rischia di essere persa per sempre.

Rambo lassù ne sa qualcosa. L’invenzione della rotoballa, quell’enorme cilindro di fieno che ha sostituito le vecchie balle quadrate, sarà stata un gran vantaggio in mezzo ai campi di frumento e alle risaie, ma a lui è bastato appoggiare la prima per vederla partire, giù per i pascoli, attraverso la strada, nel bosco e infine per aria, dove il pendio precipita sul torrente, qualche quintale di fieno che è andato a nutrire i cervi cinquecento metri più in basso. Rambo di solito se ne frega. Lui spacca tutto, tira un paio di bestemmie et voilà. Compra solo auto usate molto vecchie e le distrugge correndo su e giù per le sterrate, dal bar del paese all’alpeggio: quando le sospensioni sono andate, il parabrezza incrinato, la marmitta ridotta a uno strascico sferragliante lui le parcheggia dietro la stalla e lì le abbandona. In quel piccolo cimitero, che la forestale più volte gli ha intimato di sgomberare, ci sono già due carcasse che arrugginiscono sotto temporali estivi e nevi invernali: una Ritmo e una Volvo (la sua preferita per il ruggito del motore, tanto che le aveva dipinto dei denti di squalo sul cofano: "Quando accendevo la Volvo", mi ha detto una sera, "tutto il paese sapeva che Rambo portava giù il latte"). A fine stagione le raggiungerà la Punto che ormai sta tirando le cuoia.

Quanto a me, verso ferragosto mi sono svegliato dopo una notte di pioggia, e ho scoperto che aveva nevicato appena cento metri più in alto. Il telone di plastica sotto cui dorme Rambo era coperto da due o tre centimetri di neve ghiacciata, e io ho pensato al mio amico che si scaldava con la sua tazza di caffè, burro d’alpeggio, zucchero e vino, un intruglio infernale che un paio di volte, per questioni di ospitalità e d’orgoglio, ho dovuto assaggiare anch’io. Più tardi è uscito il sole, e all’ora di cena soltanto le cime più alte erano ancora imbiancate. Io avevo passato in casa tutto il giorno, a leggere, scrivere, finire un testo che forse prima o poi mi avrebbero pagato, così ho deciso di concedermi una serata di lusso: scendere in paese, bere un paio di birre scure, leggere un giornale per vedere che cosa succedeva nel mondo. Ma quando ho raggiunto la strada ho avuto una brutta sorpresa. La macchina non partiva più. Girando la chiave d’accensione si illuminavano le spie, ma il motore non dava nessun segnale: in effetti non la muovevo da una settimana, e ultimamente aveva piovuto tutti i giorni. La macchina era parcheggiata in curva con il muso verso il prato, faceva buio e in giro non c’era nessuno, così ho deciso di arrangiarmi da solo. Ho messo il cambio in folle e cominciato a spingerla in retro - ventre a terra, sangue che pompa nei muscoli delle cosce, entrambe le mani sul parafango anteriore - ma mi è stato chiaro in fretta di aver sopravvalutato le mie forze. Anziché obbedirmi e arretrare lungo la strada, la macchina ha cominciato a scendere verso di me. Le scarpe scivolavano sull’erba bagnata e io ho fatto appena in tempo a correre a tirare il freno a mano, per poi contemplare impotente il triste spettacolo. Ora la macchina si trovava in mezzo al pascolo, affondata nel fango di una settimana di piogge. Poco più giù c’era il bosco e poi il dirupo, quello da cui è volata la rotoballa di Rambo. Così mi sono rassegnato a bloccare le ruote con due grosse pietre, tornare su per il sentiero e andare a bussare a una casa amica.

Sempre a proposito di maschi, qui c’è qualcosa che bisogna sapere. Nel mio modello virile di riferimento - diciamo boscaiolo canadese - davanti a un’auto in panne un uomo apre il cofano e ci mette le mani dentro. Allo stesso modo ripara i rubinetti che perdono, e se non si sente bene aspetta che passi, o al limite butta giù una grappa e si mette a letto. La differenza tra questo boscaiolo ideale e il me reale è che lui ci riesce, mentre io produco sempre mensole un po’ storte, rubinetti che dopo un giorno ricominciano a gocciolare, febbri croniche lunghe tutto l’inverno. So usare il trapano, la smerigliatrice e il seghetto alternativo, e se c’è un luogo che mi rilassa anche più della libreria è il negozio di ferramenta, ma faccio tutto con un’ansia di fondo, mostrando sicurezza da fuori e tormentandomi da dentro sulla tenuta di un tassello a espansione, o l’esatta sequenza dei gesti necessari a smontare una presa di corrente. Ho un’ammirazione sconfinata per i veri tuttofare, e questa categoria, nella lista degli uomini che vorrei diventare, viene forse al terzo posto (al primo c’è un bravo scrittore, al secondo una brava persona, anche se temo che queste due si escludano a vicenda). Per il momento almeno ne conosco uno. “Oh bè”, mi ha detto Remigio, sulla porta di casa sua, mentre da dentro uscivano il tepore della stufa e la musica dei Pink Floyd. “Se è solo per partire la facciamo partire”. Siamo tornati insieme giù al parcheggio. Lui ha preso il suo fuoristrada, ha agganciato la macchina con il cavo di traino e l’ha tirata fuori dal pascolo. Poi l’ha portata in cima alla salita, in modo da avere a disposizione una bella rincorsa. Da lì è stato un gioco da ragazzi: giù in folle per qualche decina di metri, dentro la seconda e via. Prima di salutarmi mi ha dato un consiglio che non dimenticherò molto in fretta: “Quando parcheggi lasciala sempre in discesa. Così, male che vada, sei sicuro che in qualche modo riparti”.

E io ho passato la serata al bar, birre scure, vani giornali d’agosto, la cameriera russa di cui tutti parlavano tre mesi fa, i cenni fiacchi di saluto dei bevitori abituali, a pensare alle volte in cui ho parcheggiato in salita. E a quanto ho dovuto spingere per ripartire.