mercoledì 21 settembre 2011

SULL’INGENUITÀ

     Il 18 settembre sono stato invitato dal Festival Arca Puccini di Pistoia a un convegno dal titolo: “Est/Ovest: stati dell’arte”. Ero lì a rappresentare l’occidente insieme a Simon Reynolds, critico musicale inglese, che nel suo ultimo libro, Retromania (Isbn 2011), lamenta l’invadenza del revival nostalgico nel pop-rock contemporaneo. Secondo Reynolds la mania del retrò - la rivisitazione di mode musicali del passato recente - ha prodotto un decennio, gli Anni Zero, in cui si fatica a riconoscere segni originali, uno “spirito dell’epoca” da lasciare alla storia. A meno che lo spirito dei nostri tempi non sia proprio la nostalgia. Io ne so poco di musica, ma leggendo il libro durante il viaggio mi chiedevo: e nella narrativa come siamo messi? E soprattutto: e io come sono messo? Pubblico qui il mio intervento, ringraziando Nevrosi per l’invito e i ragazzi di Pistoia per l’ospitalità.

     Quali possibilità ho, come scrittore, di raccontare qualcosa di autentico, originale, tipico dei miei tempi? Se scrivere fosse come scalare una montagna, dove potrei trovare una cima vergine, o almeno una via mai percorsa prima? E se non esistesse più nessun territorio inesplorato? Queste domande mi fanno tornare in mente il famoso finale del Grande Gatsby. Nick Carraday, il narratore, osserva il panorama di Long Island dopo che l’estate è finita, Gatsby è morto e la sua villa sulla spiaggia è ormai buia e deserta.
     La maggior parte delle grandi case della costa erano chiuse adesso e non si vedevano che rade luci, a parte il bagliore, mobile e indistinto, di un battello che attraversava lo stretto. E mentre la luna si stagliava più in alto, quelle costruzioni effimere cominciavano a dissolversi, finché a poco a poco mi resi conto di come appariva l’isola che in tempi andati era sbocciata agli occhi dei marinai olandesi: un seno fresco e verde del nuovo mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano fatto spazio alla casa di Gatsby, col loro bisbiglio avevano un tempo assecondato il più grande ed estremo dei sogni umani. Per un fuggevole e incantato istante l’uomo doveva aver trattenuto il respiro al cospetto di questo continente, costretto a una contemplazione estetica che non capiva e non desiderava, faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con uno spettacolo all’altezza della sua capacità di meravigliarsi.
     La meraviglia è uno dei sentimenti su cui Il Grande Gatsby è costruito. Jay Gatsby suscita meraviglia nelle persone, tutte tranne l'unica che gli interessi affascinare. La sua è la storia di un uomo dalle umili origini che lotta contro il destino: si arricchisce facendo il gangster, si innamora della moglie di un miliardario, cerca di conquistarla meravigliandola, infine paga la propria audacia con la vita. Tuttavia da lettore mi è chiaro che il desiderio di Gatsby non riguarda Daisy, né i soldi, né un posto in quel mondo dorato. Ma allora che cosa vuole? E perché Fitzgerald chiude la sua storia con un’immagine che non c’entra nulla, i marinai olandesi al cospetto del nuovo continente? Io penso che  Gatsby sia soprattutto un uomo deluso. È deluso dalle cose che possiede e da se stesso. La ricchezza non è come lui sperava. Forse è quel sentimento che desidera più di ogni altro, la meraviglia che si prova di fronte a una nuova frontiera? È la capacità di meravigliarsi il lusso che non può comprare?

     Nello stesso periodo, la metà degli anni Venti, Hemingway scrive uno dei suoi racconti migliori: Il grande fiume dai due cuori. La trama è tanto semplice che si potrebbe riassumere così: Nick Adams va a pescare. Nella prima parte del racconto Nick scende da un treno, si addentra nel bosco, trova una radura in cui campeggiare, accende un fuoco, si prepara la cena e va a dormire. Nella seconda si sveglia, cattura alcune cavallette da usare come esche, fa colazione, scende al fiume a pescare, prende due belle trote e se ne torna felice alla tenda. La storia sembrerebbe oscura se non fosse preceduta dagli altri episodi di In Our Time: giunti alla fine della raccolta sappiamo che quei boschi del Michigan sono i posti in cui Nick è cresciuto; che ha imparato dal padre a pescare, cacciare e godere della vita all’aria aperta; che a diciott’anni è partito per la prima guerra mondiale, e sul fronte italiano è rimasto ferito nel corpo e nello spirito. Dunque, questa battuta di pesca è un ritorno. Anzi di più: una cura. Dopo la guerra Nick si sente un uomo debilitato, e nei boschi della sua infanzia cerca la guarigione. Non è il fiume ad avere due cuori, è lui stesso: il cuore torbido del reduce di guerra, il cuore limpido del ragazzo che era stato. Rileggendo il racconto mi colpisce ogni volta la sua sensualità. Nick ha letteralmente i sensi all’erta, ogni gesto gli provoca un piacere acuto: sdraiarsi sull’erba, portare alla bocca il primo boccone di carne in scatola, perfino infilzare una cavalletta con l’amo. È come se facesse queste cose per la prima volta. O usando le parole di Fitzgerald, come se stesse recuperando la propria capacità di meravigliarsi.
     Se cerco un nome per questa qualità, quello più adatto mi sembra ingenuità. Sono andato a controllare l’etimologia, e ho scoperto che in latino un in-genuus era un figlio di genitori liberi, contrapposto a chi nasceva da schiavi. Legalmente, un ingenuo era un uomo con pieni diritti di cittadinanza. Ma idealmente (in un’ideologia classista) era molto di più: un onesto, un puro, un cittadino dall’animo nobile e non corrotto. Ai nostri tempi l’ingenuo è diventato uno che crede a tutto, incapace di vedere la verità nascosta sotto le apparenze, facile da raggirare. I più ingenui tra gli esseri umani sono i bambini: fiduciosi e vulnerabili perché non conoscono il male.
     Jay Gatsby e Nick Adams il male lo conoscono eccome. Le loro sembrano storie molto diverse, ma secondo me non lo sono: parlano di uomini che hanno perso l'ingenuità, e cercano di riconquistarla. Perché la capacità di meravigliarsi è necessaria per continuare a vivere.

     A volte in montagna ho una fantasia: quella di trovare una cresta, un picco nascosto, o almeno una fessura o una cengia, in cui prima di me non abbia messo piede alcun essere umano. So che è una fantasia ingenua. Sulle Alpi non c’è nemmeno un sasso che non sia stato toccato dall’uomo: nessuna Alaska, nessuna frontiera, nessun’isola boscosa e incontaminata. Ma io ho bisogno di non pensarci troppo. Così mi capita di individuare una cima e una via di salita - una cima senza nome e una via che non compare in nessuna mappa - e arrampicarmi fino a lassù solo per trovare, alla fine, un ometto di sassi o un bastone conficcato in un buco, segno inequivocabile di chi è stato lì prima di me. E scopro di non essere un esploratore né un pioniere, ma solo uno che passa. Il fatto è che per arrivare in cima, per affrontare la salita e godere delle sensazioni che mi dava, avevo bisogno di farlo come se fossi il primo, di salvare la mia preziosa ingenuità dagli attacchi della consapevolezza.
     Anche quando scrivo è così. Sto parlando della soggezione che provo al cospetto della letteratura, e dell’incoscienza che mi serve per raccontare una storia. Dello sconforto e della fiducia. Qualunque scrittore è soltanto uno che passa: non fa altro che prendere il lavoro dei suoi predecessori e aggiungerci un pezzettino. Non solo quel pezzo è minuscolo, ma c’è la seria possibilità che sia un pezzo inutile: in quel caso verrà dimenticato dalla storia, eliminato senza rimpianti. Eppure, se ti siedi davanti al foglio con questo spirito, non puoi ottenere altro che una pagina bianca. Per cominciare a mettere  una parola dopo l'altra, seguirle e vedere dove ti portano, devi essere capace di fartene meravigliare: e raccontare una storia come se fossi il primo in questo mondo a farlo.

7 commenti:

  1. Bel pezzo Capitano! Anzi, meraviglioso.
    Wil

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  2. Negli ultimi tempi ho perso la bussola, ho passato periodi meravigliandomi troppo e adesso penso di non riuscire più a farlo. Sono rimasta delusa da non so cosa di preciso, forse ho scoperto tante di quelle meraviglie in tutti questi viaggi che ho fatto, da arrivare al punto di non sapere più cosa cercare. Il tuo pezzo mi ha risollevato. Ora so cosa cercare. Anzi, ritrovare. Grazie, Regis

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  3. C'è una frase, scritta nel Vangelo, che mi ha sempre affascinato. E' quella che Gesù dice dopo aver rimproverato duramente chi non ha avuto occhi per vedere. "E' venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e dicono: ecco, é un mangione e un beone, un amico di pubblicani e peccatori", dice un attimo prima Gesù. Ma, poco dopo, aggiunge: "ti ringrazio, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli".
    Ecco l'ingenuità, ecco la meraviglia, ecco la capacità d'incontrare la bellezza, che é il nome di ciò che il nostro cuore desidera. E che esiste.
    Grazie per avermelo ricordato.
    E per continuare a riempire quelle pagine bianche con ciò che abita il tuo cuore.

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  4. Caro Paolo,

    mi chiamo Valentina ed ero una delle persone che hanno assistito all'incontro di Arca Puccini a Pistoia. Ero dispiaciuta di non aver avuto modo di ringraziarti e complimentarmi con te dopo il tuo bell'intervento, così mi sono messa a spulciare in rete per vedere se trovavo... esattamente questo che hai scritto! Quindi ne approfitto perché è stato davvero bello, emozionante e interessante sentir parlare di ingenuità con questo tuo sguardo ampio e appassionato. A me ha dato quella specia di soddisfazione catartica che si ha quando qualcuno ti aiuta a dare forma e chiarezza a un pensiero confuso ma presente: per me ingenuità non ha un'accezione negativa, anzi. Il tuo collegamento con la meraviglia mi chiarisce un po' le idee e oltretutto il pensiero cresciuto mi rimane in testa e continua felicemente a precipitare altri pensieri.

    Grazie quindi,

    Valentina

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  5. ciao paolo,
    Leggendo questo pezzo ho provato la stessa soddisfazione che c'é in qualcosa di dolce e croccante.
    Complimenti
    Un abbraccio
    Nunzio

    P.S
    Quando ti vedremo a bologna?
    Magari per un bel corso di scrittura
    !

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  6. Come Valentina, ero lì a sentire tutti voi.
    E: grazie.

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  7. che belle riflessioni, che piacere leggerle.
    Un saluto
    C.

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