Dunque la storia è questa: ci sono quattro amici, sedici o diciassette anni, cattolici militanti. Suonano in chiesa durante la messa, fanno volontariato coi malati terminali. Non è che loro esistenze siano granitiche come sembrano - il padre di uno è depresso, e la famiglia non può che subire la sua depressione; un altro vuole farsi prete e la madre si dispera; un altro ancora ha una fidanzata con cui pratica un’astinenza disseminata di tentazioni - eppure sono vite di adolescenti come tutti gli altri, solo cresciuti nell’ortodossia religiosa, per cui la tensione che li agita riguarda il sesso, la battaglia tra la propria natura e l’educazione a considerarla peccaminosa, lo smarrimento morale di quando la religione smette di essere una cosa da bambini, e diventa cosa da adulti. Poi nella loro vita irrompe Andre: ragazza ricca, bellissima, androgina e amorale. Ne usciranno tutti con le ossa rotte. Uno morto, uno tossico, uno in galera, e l’ultimo a cantare da solo nel coro della chiesa, perché per avere la storia di un naufragio serve sempre il reduce testimone, quello che si aggrappa a un pezzo di legno marcio e riesce a sopravvivere per raccontarla.
Non ho citato Melville a caso. Il luogo comune su Baricco vuole che sia uno scrittore bravissimo, ma non abbia una mazza da dire. Virtuoso, a volte pirotecnico, ma sterile come un divino esecutore, come quel Novecento che al pianoforte sembrava avere quattro mani, però non aveva mai scritto una riga sua. Io non sono del tutto d’accordo. Baricco mi pare uno scrittore dai due volti. Ho apprezzato molto Castelli di rabbia e Oceano mare, e ho detestato molto Seta e Senza sangue, proprio perché la stessa maestria nell’uso della parola mi conquista quando è al servizio di una storia, di personaggi e vite che spingono per essere raccontati, e mi irrita quando sotto non c’è nulla, solo uno schema narrativo su cui fare esercizi di stile. Ora mi sento di dire che Emmaus appartiene al primo gruppo. È un libro pieno, di cui ha senso discutere. Non è un saggio di violino. Anzi di arpeggi ce ne sono pochi, e Melville c’entra per questo: a chi si domanda quali siano i temi della narrativa di Baricco, a chi lo accusa di girare attorno a un buco, a me viene da dire che il centro dei suoi libri è grande come una casa, ed è l’ossessione. Che sia la pratica della pittura, l’invenzione del telefono, le corse in automobile, il commercio dei bachi da seta, la musica suonata in mezzo all’oceano, in nome di un’ossessione i suoi personaggi rifiutano le regole della loro comunità, rinunciano all’affetto degli altri, scelgono la solitudine e a volte la follia. Qui la balena bianca è Andre, ovvero l’assenza di morale religiosa. Ma a un uomo che si libera dell’unica morale che aveva, che cosa resta? Come i quattro amici scoprono ben presto, quella strada porta alla rovina. E in effetti è così che finiscono tutte le storie di ossessione.
Questa cosa in Emmaus mi piace. È raccontata in modo onesto e mi ha catturato. Poi ci sono alcune pagine sulla religione che mi convincono meno. Lo dico da ex cattolico militante. Il titolo del libro viene dall’episodio evangelico preferito dai ragazzi, quello in cui due viandanti passano una serata in compagnia di Gesù risorto e non se ne accorgono, e alla fine, quando lui si rivela e poi scompare, si chiedono: come abbiamo fatto a non essercene accorti prima? Il senso, da quanto mi pare di capire, sta nell’idea che la fede non sia la risposta luminosa a tutti i dubbi (come tende a pensare l’ateo del credente, scambiandolo sempre per un bigotto), ma che anzi la verità sia ambigua, difficile da comprendere, e la ricerca possa essere alimentata dal dubbio, perché un credente che non dubita è appunto un fanatico, che non mettendo in gioco la sua intelligenza non vale nulla. È un bel concetto, però il mio episodio preferito a sedici anni era quello di Gesù con la frusta che caccia i mercanti dal tempio, o di Gesù che dice al ricco regala tutto ai poveri e seguimi, o di Gesù che difende l’adultera dalla folla inferocita. Allo stesso modo, io da cattolico militante a sedici anni non mi sentivo molto normale, come se per me non fosse previsto altro che essere normale, anzi il contrario: essere religioso significava essere diverso, andare controcorrente rispetto ai miei amici, litigare sui principi. La religione non era una lima con cui piallare le asperità ma anzi era l’asperità più aspra di tutte, quella che mi allontanava dal gruppo. Dunque in Emmaus di chi si parla? Di ragazzi cattolici militanti, nei nostri anni e in una grande città italiana - come sembrerebbe leggendo il romanzo - o di bigotti di provincia negli anni Cinquanta, dove la pratica religiosa era una pialla di normalità? Qui ci sono ragazzi di sedici anni che vanno in ospedale a cambiare il sacchetto a vecchi moribondi. Com’è possibile che si sentano normali? Io quando facevo cose simili - distribuire il pasto ai barboni, spalare fango in città alluvionate - mi sentivo piuttosto un rivoluzionario. La religiosità di Emmaus mi sembra del tutto sbagliata in un libro sull’adolescenza, forse imposta dall’occhio cinquantenne dello scrittore, e secondo me è il difetto più grande del romanzo.
L’altro problema con Baricco è che spesso sembra copiare da qualcun altro. Non è poi una colpa tanto grave: io per esempio ho appena scoperto che uno dei miei racconti preferiti, Boys di Rick Moody, è molto simile a un racconto di Ingeborg Bachmann scritto quarant’anni prima, Adolescenza in una città austriaca. A volte penso che tutta la letteratura proceda per plagi successivi, come la macchina umana che si evolve a piccoli passi, prendendo il meglio dalle generazioni precedenti e aggiungendo qualcosa di suo. In questo caso, c’è un gruppo di ragazzi innamorati di una ragazza, che vive in mezzo a loro ma sembra di un altro pianeta. La ragazza una volta ha tentato il suicidio, e ora, quasi come antidoto a quel desiderio di morte, ha rapporti sessuali con chiunque, famelica di vite altrui. I ragazzi la osservano nell’ombra, così invisibili e simili tra loro che spesso l’io narrante diventa un noi: non importa più chi sono io, siamo noi che osserviamo, ci innamoriamo, subiamo il morso del desiderio, cediamo all’ossessione. Vi ricorda un’altra storia? A me sì: Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, 1993. Poi magari scoprirò che pure Eugenides ha plagiato qualcun altro. Pazienza. Però ho cominciato citando Baricco, e per un mio senso di giustizia letteraria voglio finire con il libro che l’ha ispirato. Se non li avete letti entrambi e siete in dubbio, ecco il mio parere: Emmaus è un buon libro, Le vergini suicide invece è un capolavoro. Viva le sorelle Lisbon e l’ossessione.
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Non riuscivamo ad immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma. E abbiamo dovuto imbrattarci il muso nelle loro ultime tracce, orme fangose sul pavimento, bauli calciati via, respirare per sempre l'aria delle stanze dove si sono uccise. In fondo non contava quanti anni avessero, o che fossero ragazze, ma solo il fatto che le avevamo amate e che loro non avevano udito il nostro richiamo; non ci odono neanche adesso che siamo quassù, nella casa sull'albero, con i capelli radi e un pò di pancia, e le chiamiamo perché escano dalle stanze in cui sono entrate per trovare la solitudine eterna, la solitudine del suicidio, che è più profondo della morte, le stanze dove non troveremo mai i pezzi per rimetterle insieme.
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