lunedì 2 novembre 2009

ADDIO A UNA BEAT

Ho letto diversi articoli dopo la morte di Fernanda Pivano. Erano pieni di affetto e ammirazione, ma anche terribilmente simili tra loro. Da quando ero un ragazzino conosco a memoria le sue gesta: nacque a Genova nel 1917 da un famiglia dell’alta borghesia; si trasferì a Torino dove studiò al liceo con Cesare Pavese, che fu il primo responsabile della sua passione per la letteratura americana; si laureò in Lettere con una tesi su Moby Dick, e tradusse Addio le armi quando in Italia era un libro vietato dal regime (perché descriveva in modo realistico la disfatta di Caporetto, e perché il suo autore aveva pubblicato un’intervista a Mussolini ritraendolo come un pagliaccio); fu arrestata dai nazisti e per questo più tardi divenne amica di Hemingway, oltre che sua traduttrice, assistente e forse pure amante; andò a vivere a Milano dove cominciò a lavorare nell’industria editoriale; scoprì i beat e li portò in Italia (sulla carta e in carne e ossa: memorabile è la sua intervista, in diretta Rai, a un Kerouac completamente ubriaco). Da allora divenne un mostro sacro. Se un giovane scrittore americano incontrava l’approvazione della Nanda, qui da noi aveva il tappeto rosso srotolato sotto i piedi. È accaduto a McInerney e alla sua generazione, i ragazzi prodigio degli anni Ottanta che da nessun’altra parte hanno ottenuto successo come in Italia. Questo, più o meno, oltre all’amicizia con De André, è tutto quello che si impara dalle sue agiografie. Libri famosi, nomi famosi, incontri memorabili, date e luoghi. Però Fernanda Pivano chi era, e perché diavolo si è messa a fare quello che ha fatto?

Intanto, bisognerebbe chiedersi che cosa rappresentasse la letteratura americana alla fine degli anni Trenta. Oggi per noi è la cultura dominante, allora era la voce dei nuovi barbari. All’epoca si leggevano i tedeschi, i russi, i francesi. Del Nuovo Mondo non si seppe quasi niente fino all’uscita dell’antologia curata da Vittorini, Americana, del 1942: lì dentro c’erano Hawthorne, Poe, Melville, London, la triade Hemingway-Faulkner-Fitzgerald, e poi Steinbeck, Anderson, Dos Passos, tutti i grandi scrittori emersi dall’altra parte dell’oceano dall’inizio dell’Ottocento. Questa scoperta dell’America avveniva in un ambiente culturale fortemente retorico (avete presente l’idealismo tedesco?), e in un clima politico di controllo e di censura. Erano i tempi dei libri vietati, che bisognava farsi portare da qualche corriere clandestino, e passarseli nelle zone franche delle università. Erano anche i tempi d’oro della nascita dell’Einaudi, in cui tra Torino e le Langhe si stava scrivendo l’epopea editoriale più appassionante del Novecento italiano. Mentre Vittorini curava la sua antologia, Pavese traduceva Moby Dick e un giovane Fenoglio si formava sui poeti inglesi. Di quegli anni la Nanda racconta: Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti.

Che cosa c’era a quei tempi nella letteratura americana che non si trovava qui? Io posso solo provare a immaginarlo, con la prospettiva di settant’anni dopo: la letteratura europea, all’epoca, era irrimediabilmente borghese. Era piena di giovani intellettuali, di innamorati depressi o di combattenti esaltati, ma non si parlava molto di emigranti, marinai, disoccupati, reduci di guerra, contadini travolti dalla Grande Depressione, vagabondi che saltavano sui treni, ubriaconi. Chissà che effetto faceva scoprire quel mondo durante la fase più delirante dell’ottimismo fascista, mentre qui si sbraitava sul progresso, la razza, l’impero. Era, credo, la scoperta della libertà di parola.

Non solo. Gli scrittori americani avevano la strana caratteristica di non essere intellettuali. Avevano fatto loro stessi i contadini, i marinai, i soldati, i cercatori d’oro. Erano scrittori immersi nella realtà, e osservavano il mondo che avevano intorno. Ecco, una cosa che si racconta poco di Fernanda Pivano è la sua passione per questa categoria di persone: i disadattati, i marginali, gli autolesionisti, i tossici, gli aspiranti suicidi, l’umanità alla deriva. Forse è lì che affonda le radici il suo legame con De André. La prima volta lui era andato da lei per suonarle le canzoni di Non al denaro né all’amore né al cielo, il disco tratto dall’Antologia di Spoon River, ma aveva lasciato la chitarra fuori dalla porta, perché si vergognava a entrare in casa sua così, facendo l’artista. Erano due genovesi ricchi, anarchici, irresistibilmente attratti dagli sbandati. Dal letame nascono i fiori: bisognerebbe guardare quell’intervista a Kerouac - con la Nanda tutta composta, affabile come una brava padrona di casa, e Jack stravolto dal whisky annacquato, la faccia gonfia e sudata, le risposte biascicate in una pena infinita - ripensando a quel verso. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

Credo sia questo che mi manca adesso. Questo amore libertario, del tutto estraneo ai giudizi morali, che la Nanda provava. È sopravvissuta agli scrittori che ha amato perché loro si sono ammazzati a fucilate, o bevendo, o fumando. Adesso tendiamo ad amare quelli sani. Quelli produttivi e lucidi nella loro visione del mondo. Lei preferiva i sofferenti, quelli che stanno male e quasi sempre muoiono prima del tempo.

Ieri ho rivisto A Farewell to Beat, il documentario del 2001di Luca Facchini. Verso la fine, in una strada piena di sole del Greenwich Village, il regista chiede alla Nanda che cosa vuole fare nella vita, e lei risponde: La puttana! Vi prego, fatemi fare la puttana! Ride come faceva lei, con tutto il corpo, con gli occhi che brillano e quel tintinnare di anelli e collane, e poi torna seria e dice: No, vorrei avere scritto tre righe che la gente si ricorda. Invece non le ho scritte, e forse non le scriverò mai.

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