The Paris Review è il nome di una rivista letteraria fondata da un gruppo di scrittori e intellettuali nel 1953. In quegli anni a Parigi esisteva una giovane comunità americana: sulle rive della Senna si incrociavano soldati, musicisti jazz, artisti e poeti che avevano attraversato l’Atlantico in cerca della loro bohème. A New York fioriva la beat generation, a Roma la dolce vita. Anche nella Ville Lumière scorreva la corrente del dopoguerra: era di nuovo possibile incontrarsi, tirare tardi nei bar, cantare per strada, scrivere tutte le parole proibite, rifiutare la morale dei padri e inventarsene una nuova. In questo clima, sette ragazzi sui venticinque anni fondarono una rivista che, secondo il primo editoriale-manifesto, intendeva ridare la parola a narratori e poeti, togliendola ai critici. Non avrebbe dovuto parlare di letteratura contemporanea ma farla, diventando essa stessa letteratura: un’idea che oggi è comune in America e che non si è mai affermata qui da noi. In Italia le riviste di questo tipo esistono, e in qualche caso sono fatte molto bene, ma non superano le dimensioni delle fanzine. Non so perché. Forse dovrei chiederlo ai miei amici che fanno le riviste letterarie. Se passate di qua provate a spiegarmelo?
In ogni caso, da 57 anni la Paris Review pubblica racconti e poesie dei più grandi narratori e poeti in lingua inglese. Quelli che lo sono già e quelli che lo diventeranno. Perché accanto alle collaborazioni di autori già affermati c’è un continuo lavoro di ricerca, con un intero ufficio di lettori e la garanzia che tutti i testi giunti in redazione verranno letti e valutati. (Rick Moody raccontava la trafila epistolare che un aspirante scrittore come lui aveva dovuto superare alla Paris Review: prima le lettere di rifiuto prestampate, poi le lettere prestampate con un nota scritta a mano, poi una vera lettera in cui un caporedattore diceva “non riteniamo pubblicabile il racconto in questione, ma siamo interessati a ricevere altro suo materiale”.) E poi le interviste agli scrittori, la lunga serie The art of fiction da cui sono passati tutti, da Ernest Hemingway a Paul Auster e da Dorothy Parker ad Alice Munro.
Ora l’editore Fandango sta portando avanti un’opera da medaglia al valore, con la pubblicazione in italiano di alcune antologie che raccolgono il meglio della rivista. Il primo volume, l’anno scorso, era dedicato alle interviste. Questa settimana invece è uscito The Paris Review - Il libro. Una bibbia di 1092 pagine che ha per sottotitolo Guerra, Sgomento, Morte, Pazzia, Sesso, Amore, Tradimento, Intossicazione, Capriccio, Orrore, Dio, Cena, Baseball, Viaggio, Scrittura, e qualsiasi altra cosa esista al mondo dal 1953. Per noi amanti della narrativa americana, oltre che un oggetto di culto, è l’unico modo per conoscere autori che in Italia non sono mai arrivati, o testi inediti dei nostri scrittori preferiti. L’ho cominciato ieri, vorrei che non finisse più. Ogni testo mi provoca la reazione che Bernard Cooper descrive ottimamente a pagina 68, nel suo racconto L’arte del sospiro.
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Ascoltate da vicino: i polmoni dei miei antenati pompano come soffietti, gli uomini trascinano barche sulle banchine del Volga, le donne trasportano ceste di pane di segale e luccio. E alla fine di ogni giorno, allungano le mani esauste su un panetto abbrustolito; e i loro a-ah fanno condensa nel freddo dell’aria russa, come dei grazie per il tepore e per la vodka pungente.
In ogni singolo attimo devono esserci migliaia di sospiri. Un uomo a Milwaukee palpita e trema, e benedice la seconda moglie, che non è troppo timida per leccargli le dita dei piedi. Un giudice a Monaco geme di piacere assaggiando di nuovo il lucente bratwurst che mangiava da piccolo. Ogni giorno, sospiri senza senso escono dal petto di bambini dell’asilo, istruttori di guida, esperti di anatomia forense, contabili statali qualificati, igienisti dentali, tanto per dirne alcuni. I sospiri dei vedovi e delle vedove sono probabilmente i responsabili di una porzione significativa del diossido di carbonio rilasciato nell’atmosfera. Ogni volta che una cintura viene tolta, un piede immerso in una vasca, un bagno pubblico occupato su una strada solitaria... Pensereste che la mera velocità di tutto questo possa creare maestrali, scirocchi, uragani; far pullulare di frecce le mappe satellitari, far parlare i meteorologi a tremila all’ora, con le cravatte che gli sbattono al collo come bandiere.
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The Paris Review - Il libro. Traduzione di Arianna Giorgia Bonazzi, Martino Gozzi, Alessandra Osti. Fandango 2010 (euro 29,50)
Caro Paolo,
RispondiEliminasarà una coincidenza ma stamattina mi era venuta un'idea, per caso ho aperto il tuo blog e ho trovato questo post che è in qualche modo attinente a quello che volevo proporre. Così lo faccio qui anche se magari non è la sede adatta.
Sono rimasto molto colpito dalla bravura dei compagni del laboratorio di scrittura e ho pensato che non sarebbe stato male indirizzare tutta questo talento in un progetto collettivo.
Perchè non fare una rivista, magari non solo letteraria ma che possa aprirsi ad altre risorse: la scighera ha un corso di fumetto, uno di editoria e un buon numero di persone con competenze interessanti: dalla musica, alla fotografia alla cucina. Insomma credo che le risorse ci siano e anche qualcosa da dire.
Cosa ne pensi?
ciao e a presto
ugo
ciao ugo,
RispondiEliminapenso che fare una rivista richieda un gran lavoro e un impegno a lungo termine. l'entusiasmo per i primi tre numeri è facile da trovare, ma poi riusciamo ad andare avanti?
in realtà, il sito del laboratorio nella mia testa dovrebbe diventare qualcosa del genere. una specie di rivista letteraria in continuo aggiornamento. sta a noi farlo vivere.