giovedì 24 dicembre 2020

PELLI DI FOCA

La neve è una scoperta recente per me. Non dico la neve di un giorno, di quella anch'io ho i miei ricordi d'infanzia, ma la neve quotidiana, la neve fuori dalla finestra ogni mattina, la neve che quassù copre ogni cosa in dicembre e non si scioglie fino ad aprile, e per quei quattro mesi è l'elemento principale che abbiamo intorno. Questa neve l'ho scoperta verso i quarant'anni: più che l'incanto dei fiocchi dal cielo è una storia di scarpe bagnate, pala fuori dalla porta, la macchina che fa fatica e prima o poi toccherà decidersi a cambiarla con un fuoristrada, il semplice problema di andare da qui a lì. Per andare da qui a lì, o fare un giro intorno a casa nella neve, per qualche tempo ho usato le ciaspole, ma non mi hanno mai convinto molto. È un camminare goffo, a piedi larghi, in cui si avverte tutto il proprio peso di esseri umani, e per me invece l'andare in montagna è una ricerca di leggerezza, mi piacerebbe un giorno riuscire a passare come un soffio di vento.

Succederà magari quando di me non resterà che l'anima, ma per ora, intanto che ho ancora un corpo, ho preso un paio di sci con le pelli di foca, e sto imparando a usarli. Gli sci – è bene ricordarlo e farsene ispirare – sono stati inventati dai montanari di un tempo semplicemente per questo, per spostarsi sulla neve (poi subito si scoprì quant'era divertente). Ci sono tanti racconti di sci di Mario Rigoni Stern, lui amava molto girare per boschi d'inverno e le forme dolci del suo Altipiano invitavano a farlo, uno in particolare si intitola “L'altra mattina sugli sci con Primo Levi”: è un incontro immaginario, Primo era morto da anni e un grande rimpianto di Mario era quello di non essere mai andati in montagna insieme, benché se lo fossero promessi tante volte.

Dunque è una passeggiata sugli sci tra due vecchi amici, uno in carne e ossa, l'altro in spirito, e io mi sogno di seguirli da lontano, che sulla neve è un riconoscere la traccia e andarle dietro, quando esco una di queste mattine per fare pratica con le mie pelli di foca. La giornata è luminosa: la neve cambia in tanti sensi il paesaggio, ne ammorbidisce gli spigoli, nasconde i segni dell'uomo, rende tutto nuovo e come appena creato, ma soprattutto illumina, riempie la montagna di luce, e di questo sì, provo ancora l'incanto. È un paio d'anni ormai che ho cominciato a sciare e salire non è più un problema, è questione di ritmo, fiato, scegliere una pendenza giusta e partire, con l'entusiasmo che serve a rompere la fatica finché le gambe non si scaldano e il cuore pompa a regime. Salgo per il bosco, per la strada poderale che d'estate serve gli alpeggi sopra a casa, ma dopo un po' la taglio e la abbandono, tanto d'inverno non c'è più strada né sentiero. Lucky mi corre davanti, nella neve alta. Lui è nato qui, figlio di generazioni di cani nati e vissuti qui, e di tutti gli elementi di questa montagna la neve è di gran lunga il suo preferito (poi vengono l'aria, l'erba, il legno, la roccia, e solo ultima a distanza l'acqua). Ci salta dentro mangiandola, rotolandosi, può continuare per giornate intere, sembra non abbia mai freddo e non sia mai stanco di neve, la scorsa estate il regalo più gradito che gli ho fatto è stato portarlo in cima al Castore, a 4200 metri: cordate di alpinisti imbragati, imbottiti, ramponati, e questo cane che si rotolava tra i crepacci come fosse nel prato davanti a casa. A proposito di leggerezza...

Alla fine del bosco raggiungiamo la pista da sci, o meglio quella che dovrebbe essere la pista ma che adesso, con gli impianti fermi per pandemia, è solo un pendio innevato. Niente pali, reti, cartelli, niente pisteur, operatori di rinvio, maestri di sci. I cannoni che spuntano dalla neve sono pennoni senza bandiera, e la seggiovia ferma è triste come un rudere industriale. Non che mi piaccia tanto quell'industria, ma è una fabbrica i cui impiegati e operai sono i miei amici, quassù tutti lavorano per lei: e adesso stanno a casa a far niente. Non c'è nessuno intorno a me e le impronte di una lepre attraversano la pista chiusa. È davvero bizzarro, da qui, pensare che la città sia il luogo dove abbiamo deciso di contenere il virus, pensare ai viali e agli uffici e ai negozi e alle case come a una forma di sicurezza, e a questi spazi aperti e sconfinati come a un rischio di contagio.

Dalla stazione d'arrivo della seggiovia, dove di solito lavorerebbe Gabriele – è lui l'omone che dà la mano ai bambini per farli scendere, lui quello con la faccia bruciata dal sole e le mani come due padelle – mi viene voglia di andare a vedere se è tutto in ordine a casa sua, dato che sta proprio qui sotto. È la sua casa dell'estate, la baita di Gabriele, l'alpeggio dove una volta saliva con il bestiame e adesso ci sale da solo, perché è proprio impossibile per lui passare l'estate giù in paese. Ecco la cantinetta che tante volte ci ha dissetati, ecco la stufa all'aperto dove giravamo la polenta, ecco la vasca da bagno per lavare le pentole e i ruderi dell'antico villaggio intorno a casa sua, che è tra le poche ancora in piedi. Mi ha sempre un po' disturbato, come una stonatura o un intervento di cattivo gusto, che proprio davanti al villaggio fossero piantati i cannoni da neve, ma oggi comincio a vedere la faccenda in un modo diverso, oggi l'acciaio dei cannoni comunica meglio con queste pietre. In fondo sono entrambi segni di una storia. O di una guerra, chissà: sembrano raccontare che un tempo i cannoni hanno bombardato le baite e l'esito dell'attacco si vede bene dai tetti crollati, dai muri smangiati e sbilenchi. Però poi sono stati lasciati lì anche i cannoni, come quei residuati bellici che si trovano sul fronte della Grande Guerra, che ancora oggi spuntano dai ghiacciai in ritiro.

Adesso in montagna non c'è più nessuno, né vincitori né vinti, né mucche al pascolo né sciatori, solo io e questo cane che si rotola nella neve. Che ne dici, Mario? Che ne dici, Primo? Il montanaro e il chimico, uno che aveva rifiutato un bell'ufficio a Milano e l'altro che per tutta la vita era stato in fabbrica a Torino, il vecchio e il nuovo mondo, eppure amici: come sarebbe bello, adesso, poter avere una parola da voi due. Poi è ora di strappare via le pelli, infilarmele sotto la giacca per tenerle al caldo, stringere gli scarponi alla caviglia. Rimettere gli sci e bloccare il tallone per la discesa. Scendo per la pista che non è una pista, e per uno che sta imparando a sciare, da autodidatta, a quarant'anni, potete credermi che la discesa è ben più difficile della salita. Non serve fiato, casomai un po' di coraggio. L'incoscienza dei ragazzini nella neve. Via!

sabato 28 novembre 2020

FUORIPISTA

È avvilente, per chi ama e vive la montagna, assistere in questi giorni al dibattito sull'apertura natalizia delle piste da sci. Gli impiantisti dicono: Noi teniamo in piedi l'economia di montagna, se a Natale non ci lasciate lavorare la montagna è morta! – come se in montagna non ci fosse altro da fare che sciare sulle piste. E il governo risponde: Rassegnatevi, non ripeteremo l'errore di Ferragosto, quest'anno niente Natale sulla neve. Come se la neve fosse solo quella (in buona parte artificiale) delle piste da sci.

Per cui è bene ripeterlo ancora una volta: le piste da sci stanno alla montagna come le spiagge a pagamento stanno al mare. Al mare si può nuotare, passeggiare, andare in barca, sedersi su uno scoglio a leggere un libro, trovarsi una spiaggia libera e fare tante altre cose che non siano affittare un ombrellone e una sdraio fino all'ora di andare al bar, e così in montagna. Si può camminare sulla neve o sui sentieri, vagabondare per i boschi o sedersi al sole, si può ciaspolare e perfino sciare dove non serve il biglietto e non c'è la funivia: strano a dirsi, ma lo sci non è nato sulle piste. Ed è molto più bello praticarlo dove la montagna non è stata ridotta a un'autostrada. Bisogna ripetere anche questo, che una pista da sci è montagna disboscata, spianata e cementificata, è percorsa da mezzi a motore per tutto l'anno, e consuma tante risorse per produrre neve artificiale e far girare gli impianti.

C'è parecchia arroganza nella convinzione, da parte di imprenditori e amministratori, che l'economia invernale della montagna dipenda dallo sci su pista, perché oggi non esiste la controprova. È vero che lo sci dà lavoro a tante persone, ma non è detto che quel lavoro non possa trasformarsi (in meglio). Quest'anno qualcosa è cambiato, non per nostra volontà: la pandemia ha dato un taglio ai viaggi all'estero e forse anche ai lussi superflui; il lungo confinamento ha messo in molti di noi la voglia di vita all'aria aperta, di tempo e spazio per sé, di andarsene in giro liberi e senza troppa gente intorno; l'obbligo o la facoltà di lavorare da casa hanno aperto una possibilità inaspettata, quella di trasferirsi con la propria famiglia da un appartamento di città verso luoghi più piacevoli e spaziosi. In montagna si è lavorato bene, la scorsa estate. Per la qualità oltre che la quantità di presenze. Alcuni sono perfino rimasti. A noi che la montagna la osserviamo, la studiamo, cerchiamo di immaginarla nel futuro, tutto questo ha dato molto da pensare.

Insomma, perché ridurre il discorso intorno all'economia di montagna a un “lasciateci aprire le piste a Natale”? Forse invece è l'occasione buona per scoprire se un'altra montagna è possibile – con un turismo che consumi meno, invada meno, passi meno di fretta, e si trasformi almeno in parte in un ripopolamento, portando alla montagna non solo clienti e denaro, ma umanità e cultura. Quella montagna fuoripista per favore non chiudetela.




martedì 21 luglio 2020

PER PAOLO FINZI

Paolo Finzi ci ha lasciati, l'altro ieri. Con lui Milano perde un testimone storico, un figlio appassionato e gentile, un vulcanico agitatore di periferia, e il movimento anarchico italiano perde uno dei suoi pilastri, di cui in qualche modo dovremo raccogliere l'eredità. Io Paolo l'ho conosciuto una decina d'anni fa alla Scighera, il circolo libertario in cui veniva spesso per parlare d'anarchia, per salutare gli amici e per tornare alla Bovisa a cui si era affezionato fin dai tempi in cui frequentava un altro circolo, il Ponte della Ghisolfa di piazzale Lugano. Sì, proprio quel leggendario buco di rivoluzionari.
Paolo veniva preceduto dalla sua fama, era stato il più giovane tra i fermati per Piazza Fontana (nato nel '51, nel '69 era appena maggiorenne), amico e compagno di Pinelli e per noi che con questi miti c'eravamo cresciuti era come incontrare un pezzo di storia. La storia veniva da ancora più lontano perché Paolo era figlio di due ebrei antifascisti e partigiani, Ulisse Finzi e Matilde Bassani, lui mantovano e lei ferrarese, una madre insegnante e pedagogista che si era fatta valere durante la resistenza romana. Si erano trasferiti a Milano dopo la guerra e in quegli anni di boom economico e lotte operaie Paolo aveva trovato la sua via, anzi la sua Idea nel pensiero anarchico, entrando nel gruppo Bandiera Nera di Giuseppe Pinelli. Una scelta minoritaria e anticonformista, in anni in cui la lotta politica era rigidamente inquadrata. Dopo Piazza Fontana c'era da riorganizzare da zero il piccolo movimento anarchico milanese, e nel '71 Paolo fondò con alcuni compagni “A rivista anarchica”, in cui poi lavorò per quarantanove anni, proprio fino all'altro ieri. In mezzo secolo di storia, “A” è diventata senz'altro la voce più importante dell'anarchismo italiano. Pedagogia, antiautoritarismo e antimilitarismo, diritti delle minoranze (donne, bambini, detenuti, stranieri), da sempre sono i suoi cavalli di battaglia e sono anche i temi di cui Paolo ha scritto per tanti anni, come nei suoi studi sulla resistenza anarchica e lo sterminio nazista di rom e sinti. Fondò o sostenne la fondazione di tante altre realtà come il Centro Studi Libertari/Archivio Giuseppe Pinelli, la casa editrice Eleuthera.
La vicinanza con il popolo rom fu all'origine di un'amicizia fondamentale nella sua vita, quella con Fabrizio De André. Paolo raccontava che una volta, chiudendo i concerti, De André domandava se tra il pubblico ci fossero anarchici del posto, perché gli sarebbe piaciuto salutarli. Fu così che una sera Paolo stesso bussò alla porta del camerino, non mancando di portare la rivista di cui De André sarebbe diventato un fedele sostenitore. Furono Paolo e la compagna Aurora, anni dopo, ad aiutare Fabrizio nelle ricerche che l'avrebbero portato a scrivere Khorakhané – A forza di essere vento. Paolo trovò in Fabrizio una grande fonte d'ispirazione, forse il modello dell'anarchico che aveva in mente: colto, libero, duro e gentile, ironico e romantico al tempo stesso. Puro.
Era così anche lui. Me lo ricordo ridere spesso, parlare a voce troppo alta, raccontare mille storie e perdersi a metà: era un uomo rumoroso e ingombrante, riempiva i posti dove entrava, eppure si intuivano bene i suoi momenti bui, forse anche le sue grandi delusioni. Era molto affettuoso, anche con me. Mi dava carezze, mi abbracciava. Ho avuto l'onore di scrivere per “A” mentre Paolo c'era ancora, perché lui me l'aveva chiesto e sono stato io a ringraziarlo quella volta. Me lo ricordo ai pranzi del Primo Maggio alla Fai di viale Monza, Aurora che serviva ai tavoli e Paolo che faceva da anfitrione in quell'altro buco di sovversivi. Lui non avrebbe mai detto “padrone di casa”. Padrone era una di quelle due o tre parole che non avrebbe mai usato. È stato un nostro maestro di libertà e così sempre ce lo ricorderemo.

mercoledì 15 aprile 2020

CHINATOWN

In montagna mi ero sempre lamentato di avere un cane che non serve a niente – non sa fare il pastore, non trova i tartufi, si rifiuta di trainare una slitta sulla neve – non immaginavo che un giorno in città sarebbe stato la mia fortuna. Quando la quarantena è iniziata, l'8 marzo, ho avuto anch'io qualche ora per decidere dove stare, e confesso di aver accarezzato l'idea di andarmene in baita, pensando che lì avrei vissuto più libero e mi sarei goduto la mia casetta in mezzo ai boschi (allora non sapevo che la montagna stava per essere militarizzata, ma questo è un altro discorso). Invece poi ho scelto Milano, e senza molte esitazioni: perché qui vive la persona a cui volevo restare vicino, ma anche per un motivo più ideologico, per così dire. Benché io abbia con questa città un rapporto difficile, ci sono nato e cresciuto. Non mi andava di fare lo sfollato. Erano i giorni in cui la gente prendeva d'assalto i treni e a me sembrava uno di quei momenti in cui restare in un luogo assume un valore, diventa una specie di atto di resistenza. Qualcosa che poi ricorderemo, insieme agli altri che sono rimasti, e che fa l'anima di una città, specie ora che le città sono sempre più luoghi senz'anima, almeno quelle come Milano. Città-occasione, città di passaggio, città per studiare, lavorare, arricchirsi, città-catapulta per il mondo: usala, prendi il meglio che ti può offrire, ma non restare a Milano durante il coronavirus. E io ci resto, ho pensato (Michele Mari ti voglio bene).

Dicevo del cane: è grazie a lui, a questo cane che non tira slitte e non scava tartufi, che per due mesi ho potuto uscire la mattina e la sera, camminare, fare anche qualche incontro. Un'auto della polizia rallentava sospettosa, lui prontamente alzava la zampa contro il primo paracarro, e l'auto tranquillizzata ripartiva. Lucky è stato per due mesi il mio lasciapassare, il mio socio, il mio cane da rapina. Ne abbiamo approfittato per esplorare il quartiere: da un po' di tempo abbiamo cambiato casa, a Milano, e siamo venuti a vivere a Chinatown, e mai come in questi due mesi l'abbiamo percorsa con passione, mai più con altrettanta credo che la percorreremo. In via Paolo Sarpi i cinesi hanno chiuso molto prima di noi, ricordate? Sulle serrande dei negozi ci sono ancora i cartelli lasciati il 22 o 23 febbraio, quando i cinesi di Milano sono entrati in quarantena tutti insieme, di loro iniziativa, due settimane prima che fosse imposta dal governo. In un angolo c'è un manifesto che mi piace particolarmente, uno di quei vecchissimi manifesti di due mesi fa, in cui un braccio fasciato dalla bandiera cinese stringe la mano a un braccio fasciato dalla bandiera italiana, e lo slogan dice “Il nemico è il virus, non le persone. Forza Cina”. È la preistoria dell'epidemia, oggi a nessuno verrebbe in mente né di fare gli auguri alla Cina, né di disegnare mani che si stringono senza alcuna protezione.

Mi pare un manifesto molto più efficace, poco più avanti, la macelleria del signor Walter, una bottega milanese storica nella via principale dei cinesi, con cui convive felicemente. Lì ancora le persone si chiamano il Walter, la Silvia. Io sono vegetariano, il Walter non lo sa e se non legge questo articolo non lo saprà mai: vado da lui per il piacere di entrare in un negozio che è rimasto aperto per tutta la quarantena, un posto dove sono tranquilli, sorridono, non si lamentano di nulla, hanno chiaramente deciso di fare come se niente fosse. Anche il Walter avrà pensato: e io ci resto. E io penso che me lo ricorderò. Prendo due porzioni di ravioli di magro e un chilo di misto-cane per il mio socio, è un trito di frattaglie di cui va pazzo.

In cerca d'erba, siccome ci hanno chiuso il Parco Sempione qui dietro, andiamo davanti al Cimitero Monumentale. Prima i prati dalla parte degli acattolici, poi quelli dalla parte degli israeliti, attraversando il grande piazzale dominato dal Famedio, la cripta dei milanesi illustri dove giace il più citato scrittore della quarantena. Passiamo tre fontanelle, tre draghi-verdi presidiati da un matto per ciascuno, nel senso che vicino a ogni drago c'è qualcuno che parla da solo, che sbraita non si sa con chi, che fa strani calcoli chino su un quadernetto. Ci sono loro, i fattorini africani con gli zaini gialli e le bici, la ragazza rom a cui più di una volta ho lanciato una moneta, perché non riesco a resistere a quelli che mi chiamano amico. E poi ci sono i carri funebri che arrivano, uno via l'altro. Quando la lunga automobile si presenta, un cancello si apre e la fa entrare nel cimitero, senza corteo né parenti né niente. Il Monumentale non è per tutti: questi sono i morti delle famiglie milanesi storiche, gli industriali, gli editori, una borghesia che arriva dritta dal Diciannovesimo secolo, e forse chissà, nel Ventunesimo muore anche lei alla Baggina. Guardando il Famedio io non penso tanto al Manzoni ma ad altri che sono lì, a Gaber, a Jannacci, a Dario Fo.

Torno verso casa facendo il giro delle mura. Mi piace passare accanto alla sede della SEM, la gloriosa Società Escursionisti Milanesi, per salutarla e ricordarmi un po' della montagna. Lì accanto, una mattina, ho sentito cantare il gallo e nell'aria un odore di fuoco di legna. Chi accende la stufa e alleva galline in centro a Milano? Era un signore un po' malandato che poi è uscito a salutarmi, ed è finita che abbiamo fatto amicizia. Occupa un locale scalcinato, ha galline, un cane, “topi grossi così”, mi ha detto tutto contento, e si scalda coi rami degli alberi che raccoglie nei giardinetti. Il tetto della catapecchia è mezzo crollato: “è stata la nevicata dell'85”, mi fa, “te la ricordi?” E come no, ero un bambino, andavo in giro con mio padre e mia sorella a godermi tutta quella neve a Milano. Ecco, forse questi giorni mi ricordano un po' la nevicata dell'85. Non per la neve, ma perché è una Milano a cui voglio di nuovo bene. “Passa a salutarmi, quando vieni col cane. E se vuoi farti una fumata davanti al fuoco, in amicizia eh...” Te la ricordi la quarantena del '20?, diremo magari nel '55. Eh sì che me la ricordo. Ci andrei volentieri, a trovarlo, quando sarà finita, ma mi sa che quel giorno io e Lucky ce ne torniamo in montagna.

martedì 30 luglio 2019

TIZIANO

(Questo pezzo è uscito sulla Repubblica, per i 15 anni dalla morte di Terzani)

Ho un maestro che non ho mai incontrato, si chiamava Tiziano Terzani. Amavo in lui l'irrequietezza, la testardaggine, la fragilità, il conflitto tra il bisogno di famiglia e quello di nomadismo, i dubbi e i ripensamenti della sua mente libera, il modo in cui l'umanità lo incuriosiva, lo meravigliava e a volte lo deludeva, l'allegria contagiosa, la depressione altrettanto contagiosa, gli slanci e le crisi. Se lo immagino vivo, in carne e ossa, dentro di me non vedo il vecchio con la barba bianca e la veste indiana ma il ragazzo alto, bello, sorridente, ancora prima che si faccia crescere i baffi, già abbracciato alla sua Angela davanti all'obiettivo. È il 1961 e Tiziano ha ventitré anni. Negli occhi vedo la giovinezza e l'ambizione, l'ironia e la seduttività, è uno sguardo che dice “sto arrivando, mondo!”. Vedo la forza di un figlio della periferia e del dopoguerra che per emanciparsi studia, studia, si fa strada a forza di libri, avrebbe dovuto finire sì e no le medie e invece viene ammesso nel miglior liceo di Firenze, e poi alla Normale di Pisa. Lo vedo qualche anno dopo a Ivrea, a Milano: fuma la pipa, fa carriera all'Olivetti, lavora nell'eccellenza illuminata dell'industria italiana ma ha in testa altro, il giornalismo, l'Asia, una vita tutta diversa da quella in cui si è cacciato. Lo mandano in missione in Giappone e in Sud Africa e lui usa ogni momento libero per scrivere. Durante una conferenza interviene da par suo contro l'America che ha invaso il Vietnam e un funzionario britannico, un cacciatore di talenti, per convertirlo gli offre una borsa di studio nella tana del nemico, in qualsiasi disciplina a sua scelta. Tiziano non ci pensa due volte: lascia il posto da manager e sulla soglia dei trent'anni torna a fare lo studente, attraversa con Angela l'oceano ma non per diventare americano, con una splendida beffarda trovata ha chiesto di studiare il cinese in America. Lo vedo in un appartamento di New York in quegli anni di fuoco, tra il '67 e il '69: ora ha i capelli un po' più lunghi, fa esperimenti con la barba e i baffi, si traveste da hippie durante un viaggio in California, incontra le Black Panther e gli anarchici, va nel sud a capire come stanno gli afroamericani. Ha un figlio ma nessuna tentazione di mettere radici qui, non ora che ha visto con i suoi occhi l'America che spara a Robert Kennedy e Martin Luther King, l'America della ricchezza sfrenata, della miseria nera, delle disparità e della violenza sociale: nelle aule della Columbia e di Stanford legge tutto quello che trova sulla Cina di Mao, il paese che sogna per il suo futuro, il più grande esperimento di giustizia e di progresso della storia. Eccolo, Tiziano, eccolo a inseguire il suo sogno con un'altra capriola di coraggio e fantasia, nessun giornale italiano gli dava fiducia e allora lui è andato fino ad Amburgo, ha convinto la redazione di Der Spiegel e ora scrive in tedesco dall'Asia. Ha trentacinque, trentasette, trentanove anni, due figli piccoli, una moglie che a volte lo segue e altre lo aspetta nelle case di Singapore o di Hong Kong, case coloniali, case con pappagalli e tartarughe, case piene di libri che viaggiano da una casa all'altra, intanto che Tiziano gira il continente per raccontare le sue rivoluzioni. Fa un mestiere che non esiste più, quello di Hemingway, il corrispondente di guerra, e come Hemingway comincia a sembrare più vecchio della sua età. Sarà il sibilo dei proiettili a imbiancargli i capelli, saranno le facce dei morti a incidergli quelle due rughe tra gli occhi? È alto, lo immagino sempre alto Tiziano, una spanna più alto dei piccoli vietnamiti e cambogiani e laotiani che lo circondano, ha cominciato a indossare camicie bianche, a portare la Leica al collo, ha la sigaretta tra le dita. Sorride e anche i piccoli vietnamiti intorno a lui sorridono perché sanno che è loro amico, Monsieur Moustache, è il '75 e gli americani se ne sono appena andati da Saigon, lui è lì a festeggiare la liberazione. Lo vedo quel giorno, forse è l'ultima volta che ci crede davvero, è una specie di fine della giovinezza, Tiziano seduto sul carro armato tra le bandiere che sventolano e i guerriglieri esultanti. Comincia a smettere di crederci quando vede arrivare le dittature e i massacri nei paesi che credeva liberati, perde del tutto la fede quando la Cina apre le frontiere ai giornalisti e lui entra tra i primissimi, andando a vivere con la famiglia a Pechino. La realizzazione del sogno e insieme la sua fine. Eppure è vero amore: lo vedo, Tiziano, a quarantacinque anni, viaggiare per le province più remote, sfuggire ai funzionari di partito, se loro dicono di andare a destra lui va a sinistra, lo vedo girare in bicicletta su strade polverose, lo vedo mischiarsi alla gente nei mercati. È incantato dai contadini, dagli artigiani. I mercati sono la sua grande passione, colleziona le cose più astruse, le gabbiette di legno per i grilli, i fischietti per piccioni. Si dà un nome cinese, parla e mangia e veste cinese tra i cinesi, manda i figli alla scuola pubblica con i bambini cinesi, ma intanto in Manciuria, in Tibet, nella stessa Pechino la realtà è davanti ai suoi occhi: e gli occhi di Tiziano sono troppo acuti per non vedere, la sua penna troppo onesta per non raccontare. Non ho fotografie della paura, non lo so immaginare mentre viene avvertito e minacciato, mentre decide di mettere Angela e i bambini al sicuro, li rispedisce a Hong Kong e resta solo a Pechino, mentre viene arrestato, interrogato, tenuto in carcere e infine espulso a vita dal paese che amava, nel 1984. Lo vedo cupo e silenzioso negli anni del Giappone. Alla fine dei sogni, dei libri che ha letto, delle idee politiche che si è pazientemente costruito, deluso e tradito mentre prende la metropolitana, si mischia alla folla di impiegati di Tokyo, osserva le ruspe che perennemente demoliscono la città, gira per i locali notturni, si sente di nuovo in America. Anzi peggio che in America in quest'Asia che rinuncia alla sua cultura e alla sua storia, quest'Asia che inseguendo l'Occidente si arrende e muore. Nel '90 riesce a farsi trasferire a Bangkok, ma non è che in Thailandia trovi una storia poi tanto diversa; nel '91 attraversa ciò che resta dell'Unione Sovietica per dare la buonanotte al comunismo e vede i musulmani delle provincie asiatiche abbattere le statue di Lenin invocando Allah. È stanco, Tiziano, a poco più di cinquant'anni è perfino stanco del mestiere che era la sua passione, stanco di partire per le guerre, le rivolte e i colpi di stato, stanco di vedere morti, di ascoltare le bugie dei dittatori, di incontrare affaristi che si arricchiscono con finte rivoluzioni, di raccontare sempre la stessa storia. Il fuoco è spento e per uscirne, da questa crisi che è cominciata in Cina ed è la più grande della sua vita, ci vuole un altro numero di coraggio e fantasia, probabilmente il suo capolavoro, quando dice al giornale che per un anno non potrà prendere aerei, a causa di un vecchio indovino e di una profezia funesta. Se non sono dimissioni ci manca poco. Lo vedo, Tiziano, in quel 1993, salire su treni e navi, viaggiare per giorni e notti su vagoni lentissimi e sovraffollati, percorrere su mezzi di fortuna la Malesia, la Birmania, la Thailandia, la Cambogia, ritrovare i mercati e le fumerie d'oppio e i retrobottega dei chiromanti, riscoprire la sua Asia amatissima, cercarla dove sopravvive. Comincia a guardare all'India come a un nuovo sogno. Tradito da Mao, vede una possibilità in Gandhi; deluso dalla politica sente che è l'ora di una ricerca personale. Nel '94 si trasferisce a Delhi e due anni dopo abbandona davvero i giornali, decide di proseguire per conto suo, di provare a vivere scrivendo libri. Lo vedo di nuovo felice e curioso in quell'immensa città brulicante, ora si veste tutto di bianco, anche i capelli sono già completamente bianchi, sente un dolore che ignora per un po', sente di cominciare una seconda o terza vita e non sa cosa lo aspetta. Poi lo vedo a New York dove non avrebbe mai pensato di tornare, gira intorno alla casa dove abitava con Angela trent'anni prima, cammina per Central Park e fino all'ospedale della chemioterapia. New York gli piace anche se fatica ad ammetterlo, gli ricorda tante cose. I figli ormai sono andati per la loro strada e lui è più libero e solo che mai, si è tagliato barba e capelli prima che cadano, così è il volto di un Tiziano vecchio e giovane, un Tiziano del presente e del passato che vaga pensieroso per Manhattan. Questa crisi non se l'è cercata lui, però ci sta trovando un senso. Anche Angela non c'è, la rivede a Firenze, in India; insieme cercano un posto dove, tra un ciclo e l'altro di terapia, lui possa stare tranquillo e praticare la meditazione buddista, con cui curarsi a modo suo. È un altro giro di giostra fino a Binsar, nell'Himalaya indiana, in una casetta davanti al Nanda Devi, ospite di un vecchio maestro. Vedo Tiziano lassù con i suoi due corvi, la coperta sulle spalle, la candela davanti a cui medita la notte; fa freddo e lui sta scrivendo sulla malattia e sul male. A Tiziano della montagna non è mai importato granché, ha sempre voluto essere un uomo della città, della politica, del vivere con gli altri, ma quest'Himalaya lo riporta all'Appennino della sua infanzia. Certi giorni è incantato dalle albe, dalla luce riflessa dai ghiacciai, dagli sbuffi di nebbia tra i rami dei rododendri giganti, vorrebbe essere un pittore per dipingere tutto quello che vede, certi altri gli manca terribilmente Angela e ha nostalgia della loro vita. Tutti quei viaggi, le case, le guerre, quell'avventura di quarant'anni che è stata il loro matrimonio, tutte quelle parole su parole su parole. È così che deve finire? In silenzio davanti all'Himalaya? Sì, forse finirebbe così se l'11 settembre 2001 due aerei dirottati non piombassero su New York e se l'America non reagisse nell'unico modo che conosce da sempre, con la guerra. Un'altra guerra. Vedo Tiziano raggiunto lassù dal fragore della guerra. Si sente richiamato dal mondo, lui che aveva perfino rinunciato a un nome, ma adesso Anam è di nuovo Tiziano Terzani, se lo riprende e fa arrabbiare il suo maestro che lo vorrebbe definitivamente distaccato, pacificato, indifferente alla tragedia umana, ma Tiziano non potrà mai essere così, e adesso scende dalla montagna a fare per l'ultima volta il suo vecchio mestiere, l'inviato di guerra. Ha poco più di sessant'anni ma ne dimostra ottanta, cammina curvo e con un bastone, ha barba e capelli lunghi e bianchissimi, è ammalato eppure vivo già ben oltre le previsioni dei medici di New York, si scopre amatissimo dai suoi lettori. Non sapeva di averne conquistati tanti. Va in Afghanistan, scrive da sotto le bombe, scrive lettere contro la guerra, scrive come scrive da una vita intera. L'ultima estate lo vedo all'Orsigna perché ha capito che quello è il posto, non Binsar, non l'Himalaya. C'è Angela. C'è Folco. C'è Saskia. Passa il tempo a chiacchierare con loro, non vuole incontrare nessun altro. Lo vedo bianco, tranquillo, in pace, su un poggio da cui guardare le montagne o nella capanna che si è fatto costruire, dove dorme da solo. Ha tempo di ripensare a tutto. Poi vedo tutto finire e ricominciare. Ciao Tiziano. La fine è il tuo inizio.