venerdì 16 dicembre 2016

IL MODO DI NIVES

(Ecco qui la versione lunga della conversazione con Nives Meroi, uscita su Robinson della Repubblica l'11 dicembre)

Da tempo avevo smesso di leggere i libri degli alpinisti. "Conquistatori dell'inutile", così li chiamava Lionel Terray, ma se è inutile lo scopo, cioè salire in cima alle montagne, l'utilità andrebbe cercata nel gesto, in quel che si scopre e si realizza compiendolo. Nel come si va in montagna, invece gli alpinisti fanno sempre a gara sul quanto: quante cime e in quanto tempo, e chi ci è andato per primo o da solo o d'inverno o per la via più difficile. Ci voleva una donna a riempire di nuovi significati questa lotta tra superuomini. Il libro è Non ti farò aspettare di Nives Meroi, e comincia come gli altri: nel 2009 Nives era in corsa per diventare la prima donna al mondo ad aver salito tutti i quattordici Ottomila. Stava scalando il dodicesimo quando il suo compagno di vita e di montagna, Romano Benet, si sentì male, mostrando i sintomi di una grave anemia. Romano disse a Nives di andar su senza di lui, lei invece decise subito di scendere insieme, salvandogli la vita. Cominciò poi in Italia, nei mesi e negli anni successivi, la lunga prova della malattia - il "quindicesimo Ottomila", la chiama Nives nel libro. Così come era scesa dal Kangchendzonga la prima volta, decise di ritirarsi dalla gara. La vinse un'altra donna, o forse la perse perché proprio con quel ritiro Nives cominciò a dare senso al proprio alpinismo, a riempirlo di significato. Una ricerca di pulizia, rispetto, onestà, non violenza, relazioni tra le persone e con la terra. Non tanto, non più un modo di scalare le montagne ma un modo di stare in montagna, e lo stare in montagna come modo di stare al mondo.
Ho voglia di parlarne con lei, così telefono a Nives un pomeriggio di dicembre. "Viviamo al margine della foresta, in mezzo a prati dove la mattina i caprioli scendono a pascolare": la immagino lì, mentre guardo dalla finestra un paesaggio simile su cui in questi giorni è caduta la prima neve. Ma io sto in Valle d'Aosta, lei in Friuli, io a due passi dalla Francia e lei dalla Slovenia: le nostre voci percorrono tutte le Alpi per parlarsi. Quella di Nives è un po' roca, da fumatrice. Ha una risata aperta, a cui si lascia andare spesso e mette allegria. Mi piace che non dica mai alpinismo, lei dice andare in montagna. Ti fa venir voglia di essere con questa donna in un'osteria delle sue parti, a chiacchierare davanti a un litro di vino.

C’è una frase bella che hai scritto: "In questi posti lontani dal mondo, dopo la tenda il libro è il più bel rifugio dalla neve che cade". Non avevo mai trovato un alpinista che cita Conrad, Camus, Saramago.

Un libro è un dono. A casa leggo pochissimo, ho sempre troppe cose da fare. È completamente diversa l'esperienza di lettura al campo base dove caschi dentro alle pagine senza riuscire a saltarne più fuori. A volte c'è brutto tempo e devi stare chiuso nella tenda per giorni interi. Il gusto, la qualità e il piacere della lettura sono diversi in quelle tendine a cinquemila metri.

Ma ti porti i libri di carta?

Sì, quando siamo in spedizione ognuno porta un po' di libri e facciamo la biblioteca nella tenda mensa. Così poi dopo uno legge anche i libri degli altri e succedono degli incontri strani, com'è stato per me con La linea d'ombra di Conrad o Cecità di Saramago. Ci sono libri che arrivano quando devono arrivare. Nel momento giusto arriva il libro che segna un punto di svolta nella tua vita.

La linea d'ombra parla di un ragazzo che diventa uomo prendendo per la prima volta il comando di una nave. Cecità di un mondo in cui, per un'epidemia, diventano tutti ciechi tranne una donna. Ci sono un bel po' di somiglianze con la tua storia, parlano di te questi libri?

Oddio, detta così fa spavento! Non ho ancora ben capito perché quel ruolo tocchi a una donna. O forse sì: una favola sul Kangchendzonga parla di una grande madre che ha generato il mondo e la montagna, e poi dalle nevi della montagna ha creato il primo uomo e la prima donna, e li ha fatti scendere nelle valli a vivere e prosperare. C’è un principio femminile nelle religioni antiche. La montagna madre l'abbiamo conosciuta anche noi: il Kangchendzonga ci ha accolti tra le sue braccia per farci rinascere a nuova vita.

Prima però vi ha respinti, non vi voleva.

Sì, è vero, non eravamo ancora pronti. Io non mi ero ancora liberata di quel senso di sporcizia, quella puzza che mi sentivo addosso per avere preso parte allo spettacolo. Noi abbiamo recitato una parte, siamo stati al gioco della corsa femminile agli Ottomila perché era l’unico modo per trovare degli sponsor e riuscire a ripartire ogni anno. La montagna però mi aveva mandato dei messaggi, già un paio d'anni prima mi ero rotta una caviglia tentando di salire il Makalu d’inverno. Ho continuato a non capire finché la montagna non mi ha messa di fronte a una scelta.

Senti, ma non c'è una specie di violenza verso la montagna che è connaturata all'alpinismo? Alpinismo è arrivare in cima, non per niente si è sempre parlato di conquista.

No, non per me! Un percorso bellissimo che abbiamo fatto io e Romano è la Cengia degli Dei, un sistema di cenge di sette chilometri che gira intorno a un gruppo di montagne della nostra zona. Si tiene sui 2200 metri, non tocca la cima e infatti è chiamata la via eterna.

Mi ricorda il pellegrinaggio che i buddisti tibetani fanno intorno al monte Kailash. Per loro arrivare in cima alla montagna è un gesto sacrilego, la cosa giusta da fare è girarle intorno. Non sarà che il modo orientale di andare in montagna è più rispettoso di quello occidentale?

Sì, anche se i climbing sherpa in vetta ci arrivano trascinandosi dietro i clienti. Gli abbiamo insegnato noi che tutto ruota intorno ai dollari. Questa primavera siamo tornati per la terza volta al Makalu, l’esperienza è stata veramente brutta dal punto di vista umano, uno sbattere il muso sempre più violentemente contro l’arroganza dell’alpinismo fatto coi soldi.

Hai scritto che la cosa più avvilente della corsa agli Ottomila è che in quella situazione le donne si erano messe a fare a gara come gli uomini. Si erano piegate al modo maschile di andare in montagna, invece di inventarne uno femminile. Hai capito qual è l'alternativa?

Posso dirti qual è il mio modo di andare in montagna. Non mi interessa la competizione ma tirare fuori da me stessa le mie massime capacità. Non contro gli altri ma attraverso gli altri, attraverso la collaborazione con gli altri, all’interno di una cordata o di una spedizione. Lavorare insieme per raggiungere un obiettivo, ciascuno con le sue qualità. Come tra me e Romano: lui fisicamente e tecnicamente è più forte di me, ma io ho altre caratteristiche.

Quali?

Intanto mi puoi caricare come un mulo! E poi una grande resistenza mentale, che in alta quota è importante quanto la prestanza fisica.

È per questo Romano non è mai andato senza di te? Scrivi che durante la salita al K2, il vostro "K in due", a un certo punto hai avuto la certezza che lui ce l'avrebbe fatta anche da solo.

Sì, lui è un alpinista molto forte, se si fosse trovato un compagno uomo avrebbe fatto anche cose più importanti di quelle che ha fatto con me. Ma gli interessa di più vivere certe esperienze insieme.

Questo mi ricorda una frase di Tolstoj che viene da La felicità domestica. Io la conosco perché il libro fu trovato nello zaino di Chris McCandless, il ragazzo morto in Alaska dopo tre mesi di vita solitaria nei boschi. Chris aveva segnato la frase: "La felicità è vera solo se condivisa". È questo il punto tra voi, la felicità di un Ottomila è più vera se ci arrivate insieme?

Non solo di un Ottomila. Le spedizioni sono viaggi lunghi che durano due mesi. Fin dalla prima volta ti rendi conto che la parte alpinistica è solo una parte del viaggio, e che esperienze così sono molto più ricche e più ampie se fatte a piedi. C'è chi si fa portare al campo base in elicottero, va e torna in quindici giorni, ma io non so proprio che cosa vedano in quel modo. Poter fare il cammino in due, arrivare in cima in due e guardarsi intorno e poi mettere insieme le prospettive, io penso ti dia la possibilità di fare un dipinto ancora più ricco e più ampio.

La qualità del vostro rapporto cambia quando siete a casa? Com'è la vita di tutti i giorni dopo che che siete stati insieme in una situazione così estrema?

È il contrario, in una tendina sul ghiacciaio è lo stesso che a casa, potremmo essere studiati per le dinamiche di coppia a diversi gradi di mancanza d'ossigeno. A parte gli scherzi, in montagna è necessario essere autosufficienti: ognuno deve sapere se è in grado di fare quello che sta facendo. Sono più di trent'anni che io e Romano andiamo in montagna insieme, e sappiamo che in quegli ambienti sei comunque solo. Siamo due solitudini che vanno su ognuna al suo passo, e ci ritroviamo alla fine. Romano sul Lhotse è arrivato in cima due ore prima di me, poi è stato lì al freddo ad aspettarmi.

Allora l'hai fatto aspettare una volta...

È vero! Ma sapeva che stavo arrivando, che sarei arrivata.

Si sente leggendoti quanto vuoi bene a quelle montagne e quei posti. Io ci sono stato una volta sola, l'anno scorso a fare il giro dell'Annapurna, me ne sono innamorato subito e credo che ci tornerò presto. Mi racconti del tuo rapporto con il Nepal?

È proprio di affetto ormai. Sono tanti anni che torniamo, ed è bello anche ripercorrere le stesse strade. Vedere le cose che sono cambiate, quelle che sono rimaste uguali, ritrovare le persone, sentirsi a casa. Visto che anche tu vivi in alto lo puoi capire: c’è un filo che unisce tutti i popoli di montagna, se cammini lungo i sentieri in Nepal ritrovi gli attrezzi che la gente usava sulle Alpi fino a poco tempo fa. La gestione del territorio, le strategie per sopravvivere. Io non mi sento tanto diversa quando sono là.

Però noi abitiamo nella parte ricca del mondo. Come possiamo avvicinarci a quei posti nel modo giusto?

L’errore che noi occidentali facciamo è pensare che loro sono più poveri, e quindi più stupidi. Se non cadiamo in quest’errore riusciamo ad aprire gli occhi e vedere le capacità delle persone, la loro dignità, la loro fierezza. Loro hanno un sapere che noi non abbiamo, quello di vivere all’interno di un ambiente. L'ho pensato più volte, se a noi ci mettono in quei posti non sopravviviamo a lungo, sul versante nord del Karakorum siamo rimasti del tutto isolati per due mesi e ho visto la differenza tra il nostro modo di stare lì e il loro. Noi non sappiamo più vivere se non in una dimensione urbana e domestica, non ci sappiamo più adattare all'ambiente selvatico. Questa è la ricchezza che loro hanno e che noi abbiamo perduto.

C'è qualcosa che possiamo recuperare o almeno proteggere? Che cosa possiamo fare di buono per le Alpi?

Salvaguardare la specificità della montagna, non solo come paesaggio ma come modo di vivere. La montagna oggi viene sfruttata e proposta - da noi montanari per primi - come luogo di svago e basta, mentre è fondamentale far sapere che esiste un altro modo di vivere. Un'altra cultura, un altro stile di vita, un'alternativa rispetto al modo di vivere della città, una diversità che va protetta perché è bello che esista.

Vuoi consigliare una montagna da scoprire sulle Alpi?

Ho un legame particolare con le montagne di casa, le Alpi Giulie. Sono montagne basse, non si sale sopra i 2800 metri, ma severe e selvagge. Il monte che ho davanti a casa è il Mangart: io lo vedo dalla finestra della cucina e mi sono scelta il posto al tavolo in modo da averlo di fronte, così ogni giorno quando mi alzo lo guardo e vedo che umore ha.

Chiacchieriamo ancora un po': di Nepal (le chiedo consiglio su un giro che voglio fare), di libri (le consiglio io un grande poeta delle sue parti, Pierluigi Cappello), poi la ringrazio e la saluto. La mattina dopo mi alzo presto, sono le sette di mattina e qui all'ovest è ancora buio. Voglio vedere se lì a est Nives è già in piedi, così le mando un messaggio chiedendole com'è il Mangart stamattina. Mi risponde in un minuto: "Si sta svegliando anche lui. I primi raggi colorano di rosa la neve sulla cima".