sabato 30 aprile 2011

CASE A PRIMAVERA

C’è una specie di commozione nel riaprire una casa a primavera. Spalanco stanze rimaste chiuse per sei mesi, con il gelo come unico padrone e gli abbaini oscurati dalla neve. Passo un dito sul tavolo, la sedia, la mensola, su cui si è posato uno strato di polvere, come la cenere vecchia che ho dimenticato nel camino. Avranno un modo, le case, per sentire il tempo che passa? O un inverno per loro vale come un istante? Ripenso al mattino grigio d’inizio novembre in cui ho sollevato lo zaino e chiuso le imposte per l’ultima volta, dando una lunga occhiata a tutto. Oggi il senso del ritorno non è la vista ma l’olfatto, è questo profumo di legno e resina che mi rassicura di essere di nuovo a casa. Le ho chiesto: è stato molto duro l’inverno? L’ho immaginata gemere e scricchiolare nelle notti di gennaio, quando la temperatura è scesa oltre i venti sotto zero, e poi godere del pallido sole di marzo, i muri tiepidi, la neve che gocciolava nelle grondaie. Se il fine di una casa è quello di essere abitata, forse prova una sua forma di felicità nel sentire di nuovo un uomo che va avanti e indietro con la legna, accende il camino e la stufa, si lava le mani in cucina e così quest’acqua fatta di neve e roccia ricomincia a circolare nei muri come linfa in un albero, il fuoco come sangue in un corpo.

In un racconto che amo molto, intitolato Le mie quattro case, Mario Rigoni Stern ripercorreva le età della sua vita attraverso le case abitate. Non tutte erano case reali: si abita una casa anche nell’atto di immaginarla, descriverla, disegnarla. La prima era una casa perduta: la dimora storica degli Stern, vecchia di quattrocento anni e andata distrutta durante la Grande Guerra. Lui la conosceva grazie ai racconti degli anziani, ma non l'aveva mai vista con i suoi occhi. Era il luogo in cui rimpiangeva di non essere nato. La seconda era una casa reale, quella della giovinezza, piena di angoli segreti come sono le case in cui siamo stati bambini: con le storie ascoltate in cucina, la soffitta eletta a rifugio e terra di avventure. La terza era una casa immaginaria: prigioniero nel campo di concentramento, nel ’45, il Sergente aveva trovato un foglio e una matita e trascorso lunghi giorni di fame e gelo a progettare una baita. La immaginò in una radura di montagna dove avrebbe vissuto di caccia, libri e solitudine, a curarsi dalla guerra, come il Nick Adams di Hemingway nel Grande fiume dai due cuori. Quel disegno lo protesse a lungo dalla disperazione. La quarta era la casa che costruì davvero, e in cui visse per cinquant’anni, con il bosco davanti alla finestra, le arnie delle api, i prati su cui pascolavano i caprioli, l’orto e la legnaia, con mia moglie, i miei libri, i miei quadri, il mio vino, i miei ricordi. Immagino che dia una grande pace, vivere in una casa fatta con le tue mani. Quella in cui vivo io è stata costruita dai pastori, un paio di secoli fa, per ospitare bestie e uomini durante la stagione dell’alpeggio, e ricostruita dal mio amico Remigio all’inizio del secolo nuovo, per onorare una sua promessa privata. È una casa infestata dai fantasmi ma non fa paura: è un po’ come abitare insieme a tutti quei montanari, conoscerli attraverso il paesaggio e la forma delle cose.

La casa dove, da bambino, ho messo le radici in queste montagne, era nata come albergo nel 1855, ma quando ci ho abitato io era ormai in rovina. Ho trovato alcune cartoline in cui è ritratta la sua età dell’oro. Sorgeva fuori dal paese, a 1400 metri di quota. Per arrivarci si risaliva un viale costeggiato da due file di faggi, che nelle foto erano poco più che arbusti ma nei miei ricordi sono alberi secolari. Sui prati in cui correvo, cent’anni prima i gentiluomini giocavano a croquet, mentre le dame passeggiavano reggendo ombrellini da sole. Sull’intonaco scrostato della facciata, una targa di marmo ricordava l’estate in cui all’albergo aveva soggiornato la regina. L’officina del meccanico era stata la sala da ballo, e il suo tetto invaso dalle erbacce la terrazza coperta, in cui si serviva il tè nel pomeriggio. La messa del mattino veniva celebrata in una piccola cappella che spiavo attraverso le fessure del portone. Tutto, intorno a me, portava i segni di una nobiltà decaduta, una lunga storia le cui tracce si sovrapponevano confuse. L’albergo aveva funzionato fino agli anni Trenta, ma era stato saccheggiato dai tedeschi durante la guerra e venduto subito dopo. Ai miei tempi aveva ormai l’aspetto di un glorioso maniero diroccato: apparteneva a due sorelle ricche e anziane, che non avevano alcun interesse né a cederlo, né a rimetterlo a posto, ma l’avevano suddiviso in alloggi e ci guadagnavano qualcosa con gli affitti dell’estate. Per gli altri dieci mesi restava chiuso. Mancando la manutenzione, ogni inverno subiva nuovi danni. Le nevicate del 1986 gli diedero il colpo di grazia: una valanga travolse una parte dell’edificio distruggendola, e un’intera ala fu dichiarata pericolante. Sui muri rimasti in piedi, l’estate successiva erano comparse grosse crepe, e negli anni le ortiche prosperarono sulle macerie che nessuno aveva rimosso. Ma io, più che la rovina, ricordo lo stupore di trovare la neve all’inizio di luglio, così alta, ghiacciata e dura da diventare uno scivolo per gli slittini. Restò per sempre l’anno della valanga.
Arrivare dalla città era come entrare in un’altra epoca. Un tempo in cui le case avevano scale e pavimenti di legno, grandi sale da bagno con vasche in ferro smaltato, stufe a legna per preparare la cena. Sul soffitto, nella mansarda in cui dormivo, c’erano incisi due nomi femminili. Angela e Maddalena. Sapevo che, ai tempi dell’albergo, in quelle stanze alloggiava la servitù: così mi chiedevo se Angela e Maddalena fossero due cameriere d’inizio secolo, al servizio di qualche dama di corte, oppure due ragazze non molto più grandi di me, passate di lì pochi anni prima.
Non so se le case abbiano un’anima ma io in quella ho lasciato un bel pezzo della mia: ci ho abitato per una ventina di estati, due mesi all’anno, dal 1979 in poi. Con la fine del Novecento è arrivata anche quella del vecchio albergo: venduto, demolito e ricostruito per farne un edificio identico, ma nuovo. Così di quel luogo, come scriveva Mario Rigoni Stern, sono rimaste ora solamente queste mie parole.

Nel pascolo qui di fronte la neve resta a languire in grandi chiazze ghiacciate, protette dall’ombra del bosco. Ogni giorno si riducono un po’: rivoli d’acqua corrono giù per il prato scoprendo una terra nera e umida, un’erba come bruciata. Uccellini dal ventre bianco e il dorso scuro stanno lì a becchettare il terreno ai margini della neve. Ho preso un libro per riconoscerli e sono quasi sicuro che siano fringuelli alpini: cercano larve d’insetto, c’è scritto, in quella terra intrisa d’acqua di fusione, e “nidificano nelle cavità delle rocce o sui muri delle baite”. Infatti uno di loro ha fatto il nido proprio sopra la trave di colmo della mia, in quel cantuccio riparato e buio tra la trave e il tetto. Vola avanti e indietro tra il prato e il nido e mi tiene compagnia mentre scrivo, seduto al tavolo davanti alla finestra.
Nel pomeriggio si alza una nebbia densa: la vedo arrivare dal fondo della valle, risalire il torrente e i prati e infine avvolgere tutto. Resto immerso in questa coltre bianca finché si fa buio. Niente luna né stelle stasera, ma una pioggia con dentro un po’ di neve che comincia a cadere quando vado a letto.
È difficile dormire, le prime notti, in una casa riaperta a primavera. I rumori non sono come gli odori, c’è bisogno di tempo per riabituarsi a loro. Con gli occhi spalancati fisso il soffitto e penso: questa è la brace che si consuma nel camino. Questo è il motore del vecchio frigorifero che parte. Questa è la pioggia sul tetto di pietra. E questi passi fuori, ai primi bagliori dell’alba, sono di un animale selvatico che viene in cerca di cibo. Se restano sul prato, potrebbe essere un capriolo. Se salgono le scale forse è la volpe. Più tardi controllerò le orme, ora mi volto dall’altra parte e provo a dormire.

martedì 12 aprile 2011

I SALICI CIECHI E LA DONNA ADDORMENTATA

Ho trovato un’altra bella raccolta di racconti: Haruki Murakami, I salici ciechi e la donna addormentata. Sono una ventina di storie scritte tra il 1983 e il 2005, cioè dai tempi dei suoi esordi fino a quelli della consacrazione. Di solito, nelle antologie di questo tipo, i racconti vengono presentati in ordine cronologico, e uno può leggerli anche per vedere come passa il tempo: in una vita di scrittura cambiano i personaggi, i luoghi, i temi delle storie; le pagine aumentano, la trama svanisce, la lingua si fa più complessa e l’autobiografia ingombrante, e ti accorgi che scrivere, per quella persona lì, anziché semplice è diventato sempre più complicato. Con Murakami non succede. Nel libro ha deciso di mischiare le carte, così capita di leggere un racconto del 1983 dopo averne letto uno del 2002, e di non accorgersi del tempo che li separa. La prima caratteristica della raccolta a me sembra questa: la fortissima coerenza che la tiene insieme. Come se lui avesse sempre saputo che cosa voleva scrivere, e abbia continuato a farlo per vent’anni.
Che tipo di racconti sono? Murakami una volta ha detto: Fino a quando non ho incontrato Raymond Carver, non c'era mai stata una persona che, come scrittore, potessi considerare il mio mentore. È stato senza dubbio l'insegnante più prezioso che abbia mai avuto, oltre che il mio migliore amico letterario. La letteratura produce amori imprevedibili. Lo sapevate che, per molti anni, l’Italia e il Giappone sono stati i paesi in cui i libri di Carver hanno avuto più successo? Anche i racconti di Murakami parlano di persone comuni e della loro segreta disperazione, dei piccoli miracoli con cui la vita quotidiana li sorprende. Il mio preferito si intitola “Tony Takitani”: è la storia del figlio di un jazzista giapponese innamorato dell’America, di sua moglie ammalata di shopping compulsivo, dell’enorme cabina armadio in cui naufraga il loro matrimonio. Poi, a volte, il soprannaturale fa irruzione in queste esistenze ordinarie: un uomo sparisce misteriosamente, inghiottito dal proprio condominio; una cameriera consegna la cena in camera a un vecchietto eccentrico, che la ricambia offrendosi di realizzare un suo desiderio; un custode notturno incrocia la propria immagine allo specchio, e si accorge che quella persona non è lui. La presenza minacciosa del destino, l’ossessione per le coincidenze, mi hanno fatto pensare spesso a Paul Auster. È strano leggere uno scrittore giapponese come se fosse americano? Nel caso di Murakami penso di no. Ha gestito per anni un locale jazz a Tokyo, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, è il traduttore di Carver, Capote, Fitzgerald e Salinger, e quella tradizione risuona nelle sue storie. È la prova vivente di una mia convinzione: ogni scrittore ha il diritto di scegliersi i suoi maestri, ed è un legame senza patria e senza tempo. Ecco un piccolo brano illuminante dal racconto “Birthday Girl”.

“Posso farti una domanda?”, dissi. “Anzi, a dir la verità le domande sarebbero due”.
“Prego”, mi incoraggiò lei. “Me lo immagino cosa vuoi sapere. Prima di tutto, che desiderio ho espresso quel giorno”.
“Però mi è parso che tu non avessi voglia di dirlo”.
“Ti ho dato quest’impressione?”
Annuii.
Lei posò la barchetta di carta e strinse gli occhi, come se volesse guardare lontano.
“Quando si esprime un desiderio, non bisogna rivelarlo a nessuno”.
“Non ho intenzione di obbligarti a farlo. Quello che vorrei sapere, innanzi tutto, è se sia stato esaudito o meno. E poi se ti sei mai pentita di aver scelto, quella volta, quel desiderio lì. Qualunque cosa fosse. Non hai mai pensato che avresti fatto meglio a trovarne un altro?”
“Alla prima domanda rispondo di sì, ma anche no. Ho ancora un bel po’ di anni da vivere davanti a me, e non posso sapere come andranno a finire le cose”.
“Era un desiderio che richiedeva del tempo?”
“Già”, disse la mia amica. “Era una cosa in cui il tempo aveva un ruolo essenziale”.
“E riguardo alla seconda domanda?”, chiesi.
“Qual era la seconda domanda?”
“Se ti sei mai pentita di aver scelto quel desiderio”.
Un breve silenzio. Lei mi rivolse uno sguardo distratto. Sulla bocca le affiorò l’ombra di un sorriso spento. Che mi fece capire che a un certo punto c’era stata una rinuncia.
“Adesso io sono sposata con un commercialista che ha tre anni più di me”, disse. “Ho due bambini, un maschio e una femmina. Un setter irlandese. Possiedo un’Audi e due volte alla settimana vado a giocare a tennis con le amiche. Questa è attualmente la mia vita”.
“Niente male, mi sembra”, risposi.
“Ciò che voglio dire”, proseguì in tono pacato, strofinandosi il lobo dell’orecchio, un lobo molto ben fatto, “ciò che voglio dire è questo: che una persona, qualunque cosa desideri, per quanto faccia, non  potrà mai diventare altro che se stessa. Tutto qui”.
Scoppiò in una risata. E quell’ombrà stentata di un sorriso che aveva sulle labbra di colpo si dileguò.

Haruki Murakami, I salici ciechi e la donna addormentata
Traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi 2010