mercoledì 29 marzo 2017

DUE VALLI

(questo pezzo è uscito su Robinson il 26 marzo)

I fiumi del Monte Rosa sono come figli dello stesso padre. Le valli sono le strade che i figli prendono: in Val d'Ayas e in Valtournenche corrono due fiumi paralleli, nati dagli stessi ghiacciai, separati da una cresta di cime sui tremila metri. Una volta per andare di là si partiva di buon passo, si raggiungeva uno dei valichi tra una cima e l'altra e si scendeva dall'altra parte. Oggi invece, con l'automobile, devo scendere fin quasi in pianura, passare tra le fabbriche e gli svincoli autostradali, imboccare l'altra valle e risalirla, facendo cinquanta o sessanta chilometri in macchina invece che una decina a piedi. Che assurdità, penso. Quando sarà andata via la neve ci torno con lo zaino in spalla. Poi ad Antey-Saint-André nel parabrezza spunta il Cervino, il più nobile scoglio d'Europa, la sua parete sud contro il cielo in una giornata di sole. In giro non c'è nessuno. Cervinia è quassù ma sembra lontanissima.
“D'inverno il Cervino è più bello. La montagna è più montagna, più selvaggia e isolata. È stato d'inverno che ho preso la malattia che ho adesso”. Anche la mia vita e quella di Hervé Barmasse sembrano due valli parallele. Siamo nati a un mese di distanza uno dall'altro, verso la fine degli anni Settanta: lui montanaro e io cittadino, ma nelle estati in cui io imparavo la roccia e il ghiaccio da una guida alpina lui, che di guide è figlio e nipote, veniva mandato in pianura, nella cascina dei nonni. Io d'inverno tornavo a Milano e lui diventava uno sciatore. Sarebbe stato un campione, se un incidente a sedici anni non gli avesse distrutto le ginocchia. Fu costretto a rinunciare alle gare e per un po' fece il maestro di sci nella Cervinia dei ricchi, un ambiente che nei suoi racconti descrive di sfuggita: i soldi, i bar, le donne, le notti bianche. Poi nel '97 suo padre Marco, forse vedendo che qualcosa non andava, lo prese e lo portò in cima al Cervino, una mattina d'inverno. Lo stesso anno in cui ho smesso di andare in montagna io. “Mi ricordo uno spazio infinito d'azzurro. I colori sono diversi d'inverno, mi sentivo un esploratore polare. Ho pensato che salire poteva essere altrettanto bello che scendere. Con mio padre non sono andato tante altre volte in montagna: sai, da una parte una guida alpina preferirebbe che il figlio facesse un altro mestiere. Però non può evitare di trasmettere una passione.”
Nei successivi vent'anni Hervé è diventato uno dei più forti alpinisti italiani. Ci sono tanti modi di andare in montagna, lui ci va come i pionieri, come gli esploratori: su vie nuove, dure, portandosi il materiale in spalla, su cime famose o sconosciute, qualche volta da solo. A incontrarlo, esprime una qualità evidente che è l'equilibrio. Mi ricorda la guida alpina con cui andavo in montagna da piccolo: gli alpinisti stanno in piedi e camminano con una consapevolezza diversa dalla nostra, che sembra derivare da una profonda fiducia interiore. Non esitano, non scivolano, non inciampano. Abita con la sua compagna Grazia in una frazione appartata e in una piccola casa che riconosco subito come la casa di un coetaneo, metà uomo e metà ragazzo: poco arredamento, una cucina moderna, un soppalco con un materasso, una scala ricavata da una tavola di larice tagliata con la motosega, le corde colorate da alpinismo. La casa di uno che non accumula e non colleziona, preferisce avere spazio che oggetti intorno. Grazia ci guarda e dice che dei due io sembro il montanaro, lui il cittadino. Per me che mi porto dietro il peccato originale di Milano è il più gran complimento.
E allora Hervé, quante volte sarai salito in questi vent'anni sul Cervino? “Non le ho contate. Le guide svizzere tengono il conto, per me sono più importanti altre cose. Forse un centinaio”. E che senso ha salire sulla stessa montagna per cento volte? Salire e scendere e poi di nuovo salire, all'infinito? “Il Cervino non è solo roccia e ghiaccio, è un fratello maggiore per me. Mi sembra ogni volta di andare a trovarlo. Ne ho bisogno, ci sono momenti in cui sento il bisogno di stargli vicino. È un mistero la confidenza che riesco ad avere con lui”. Hervé sul Cervino è riuscito anche ad aprire delle vie nuove, per dimostrare che non sono vecchie le montagne ma solo gli occhi di chi le guarda. Una la aprì da solo in giorni di gran vento, tanto che il padre si spaventò e andò su per la via normale ad aspettarlo. Così lui, dopo un bivacco in parete e una prima solitaria da leggenda (dai tempi di Bonatti nessuno faceva niente di simile), arrivò in vetta per trovarci suo padre, a sessant'anni suonati, preoccupato e pronto a sgridarlo e riportarlo a casa. Non smettiamo mai di essere figli, vero Hervé?
Intanto facciamo una cosa da adulti che è andare a comprare il pane. Prendiamo una mulattiera che raggiunge il paese attraverso il bosco. Il sentiero è in ombra, coperto da una crosta ghiacciata di neve primaverile, e io rischio di volare a ogni passo e mi aggrappo a ogni pianta per tenermi mentre Hervé cammina leggero, con quella sua agilità da funambolo, come se qualsiasi superficie gli fosse amica. Parliamo delle montagne che ha scalato in giro per il mondo. La Patagonia, il Pakistan, il Nepal. Però a lui non viene da raccontarmi di pareti e cime, ma di uomini. Lo incuriosisce veder nascere in Nepal un alpinismo locale, guide e portatori che cominciano ad andare in montagna per conto loro, “la stessa storia del mio Cervino, del mio paese”. In Pakistan, in un villaggio a 3500 metri, ha trovato ragazzi che giocavano a bocce con dei dischi di ferro, come in Val d'Aosta (le bocce sferiche hanno il problema di rotolare giù). Lui lo chiama il “popolo di montagna”: cambia solo l'aspetto, dice, i tratti del volto, ma quel popolo lo trovi in ogni montagna del mondo. Anche per questo vorrebbe fare qualcosa per l'Appennino straziato dal terremoto. Un grande incontro intorno al Gran Sasso, la prossima estate, in cui chiamare a raccolta gli amici della montagna, e dare sostegno ai montanari di laggiù. Ne parliamo passando per la piazzetta delle guide di Valtournenche, costellata di targhe e lapidi in memoria di alpinisti del passato. Qui si sente il peso della storia, e forse anche la responsabilità di prendersi la storia sulle spalle. “La mia parabola da alpinista a un certo punto scenderà, si invecchia, io ho avuto tanti infortuni. Continuerò lo stesso ad andare in montagna, ma quello che rimane è come insegnarla, raccontarla, condividerla”.
Eh già: abbiamo quarant'anni tra poco, Hervé, che ne dici, tu sei pronto? “A me invecchiando sembra di ringiovanire. Ho molta più cultura adesso che da ragazzo. Ho avuto tante possibilità di confrontarmi con gente diversa, questa è stata una gran fortuna. Mi sembra che la vita debba essere ancora tutta scoperta, che tutto debba ancora succedere”. Sarà così. Lui entra in un negozietto e io resto solo nel paese deserto. Alzo gli occhi verso il crinale che dà sulla mia valle. Lo spartiacque si chiama così perché è la linea che divide le piogge: una goccia d'acqua cade un po' più in qua, e va a finire in un fiume, un'altra un po' più in là e va nell'altro. Guardo Hervé che esce dal negozio con il sacchetto del pane in mano. Chissà chi dei due, mi chiedo, diventerà padre per primo.


venerdì 3 marzo 2017

IN ALTIPIANO

(Questo pezzo è uscito su Robinson il 26 febbraio)

Provo un senso di meraviglia, e insieme di ritorno, entrando per la prima volta nella terra di Mario Rigoni Stern. Ritorno perché lo scrittore, della sua piccola patria, ha tracciato la mappa in moltissimi racconti a cui voglio bene, e meraviglia perché l'Altipiano è come un paese straniero dentro il Veneto della mia infanzia: la strada parte tra i capannoni industriali e i campi spogli, si lascia alle spalle la nebbia, la brina e il cemento della pianura d'inverno, e in pochi chilometri sale a mille metri d'altezza, in mezzo ai boschi e alla neve. Lassù supera un ultimo dosso e allora, davanti agli occhi, si apre un paesaggio del tutto nuovo. Non è la montagna a cui sono abituato: niente valli, cime, dirupi, gole tagliate dai torrenti, ma crinali dai profili dolci, colline scure di abeti e ai loro piedi, nelle conche, campi e paesi nella neve. Sembra un paesaggio boreale più che alpino, un Grande Nord che vigila severo sopra le nostre città di pianura. È lo stesso modo in cui ho sempre immaginato Mario Rigoni Stern.
Qualche tempo fa ho spedito il mio romanzo a sua moglie Anna, scrivendole che, se questo libro esiste, lo devo in gran parte a Mario, di cui mi ritengo un allievo. Lei mi ha mandato in risposta un biglietto gentile e allora, oggi, insieme a un amico la vado a trovare. Siamo partiti da Milano col buio per essere qui di buon mattino: attraversiamo il paese di Asiago e proseguiamo oltre, per una stradina che porta al limitare del bosco, verso la casa in cui Mario ha abitato dagli anni Sessanta in poi. L'ultima, sognata durante la guerra e costruita con le proprie mani, con l'orto fuori, la legnaia sul lato al sole e l'arboreto salvatico tutt'intorno, e dentro, “nel tepore, mia moglie, i miei libri, i miei quadri, il mio vino, i miei ricordi”.
Anna di questo rifugio è sempre stata la custode. Io ho perso entrambe le nonne troppo presto per ricordarmele, ma oggi avrebbero più o meno l'età di questa donna di novantacinque anni, lucida di testa e salda sulle gambe, capace di stringere la mano a un uomo e accoglierlo in casa sua. Tutto in lei – l'accento veneto, il grembiule a quadretti, lo chignon di capelli grigi ancora folti e spessi, perfino una certa durezza nei modi e nello sguardo – ha un'aria di famiglia per me. “Nevica?”, chiede. Non ancora, ma forse comincia. “Ieri sono passati due cervi”, dice, “sentivano la neve”. Le chiedo se ne ha mai cacciati perché so che è stata una gran tiratrice da ragazza, medaglia d'oro ai campionati nazionali in epoca fascista. Lei sorride e scuote la testa: piuma, non pelo. “Andavo con mio padre, da bambina, a vedere le covate dei forcelli. In dote quando mi sono sposata ho portato il 16 e il 22. Dopo ho smesso”. Il 16 e il 22 sono fucili e l'anno era il 1946: Anna e Mario avevano venticinque anni, lui appena tornato dal lager con poca carne sulle ossa e un manoscritto nella tasca della giacca. Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato...
Mario manca da questa casa da nove anni ormai, e mi guardo intorno cercando segni di quest'uomo che non ho mai incontrato, e che pure mi sembra di conoscere così bene. In un angolo, accanto al camino, c'è la scultura con cui lo ritrasse Augusto Murer, un soldato di bronzo che avanza a fatica, addosso un mantello o forse una coperta, gli stracci ai piedi. Alle pareti quadri di betulle, gli alberi preferiti insieme ai larici: il larice gli ricordava le montagne di casa, la betulla la steppa russa. Amava anche il faggio, per il fuoco: sento odore di fumo e tra poco scoprirò che di là, sotto la caffettiera, il legno brucia in una cucina economica.
Anna sta ancora parlando di fucili, del Bayard acquistato grazie al premio Viareggio del '53, l'anno del Sergente. Tre cose Mario comprò con quei soldi: “La radio, la cameretta dei figli, il Bayard”. Ne desiderava una quarta, e per caso tra i giurati del Viareggio c'era Adriano Olivetti, così durante la cerimonia gli chiese una macchina da scrivere di seconda mano. Olivetti rise. In quei giorni ad Asiago arrivò una Lettera 22 nuova fiammante, che Mario avrebbe usato per cinquant'anni. La casa, questa casa, sarebbe venuta dopo, nel '62. La progettò lui stesso, con la camera da letto a est e la cucina a ovest, “così la mattina c'era luce in camera, la sera in cucina”, lontano dal paese dove si chiedevano perché il loro ex alpino, impiegato del catasto, scrittore ormai famoso, se ne andasse a vivere in mezzo ai boschi. Non era l'unica cosa che non capivano di Mario.
Alcuni di questi racconti li conosco, altri li ascolto per la prima volta dalla voce di Anna. E accanto all'uomo che immaginavo ne prende forma un altro: un uomo esuberante, che amava raccontare storie, litigava con i figli per la politica, invitava troppa gente a casa, perdeva le cose. “Noi siamo andati d'accordo perché io ero negativa e lui positivo. Lui entusiasta di tutto e io pessimista”. A un certo punto avrebbe potuto andarsene via. Una parte del paese gli rimproverava non solo la fama, ma l'ambientalismo negli anni del cemento, delle seconde case e delle piste da sci, le idee politiche in questo Veneto democristiano, la voce sempre fuori dal coro. Avrebbe potuto andare a Milano o a Torino, in Einaudi c'era posto per lui e quelli non erano anni di ritorno alla montagna, gli scrittori abitavano in città. Invece rimase sempre qui. Girava in bici d'estate e con gli sci d'inverno: “La patente non l'ha mai presa. Abbiamo fatto gli esami di guida insieme ma sono stata promossa prima io, allora lui ha detto che in casa bastava una patente sola. Lo accompagnavo dove doveva andare”. Qualche volta molto lontano, perché i libri di Rigoni Stern sono tradotti in tutto il mondo. In Polonia, in Svezia, in Francia, in Olanda, in Russia. La Russia che di Mario Ivanovic era la patria elettiva. Anna osserva le betulle nei quadri. “La Russia ti lascia una nostalgia incredibile”, dice, e mi sembra di sentire parole ripetute tante volte, in questa casa, da un'altra voce.
Prima di andare via mi fa un regalo: mi guida per le scale che vanno di sopra, tra gli scaffali di libri e la bacheca dei fucili, in una stanza che da nove anni non è stata più toccata, ed è diventata un piccolo museo. Lo studio di Mario dev'essere solo un po' più ordinato di quando ci lavorava lui. Libri su ogni parete, il tavolo con la Lettera 22, il cappello da alpino, poche fotografie. Raccolte di mappe di guerra e due biglietti di Primo Levi che spuntano da un libro: nel primo, degli anni Cinquanta, c'è scritto “Caro Rigoni”, nel secondo degli anni Sessanta “Caro Mario”. Io però, più che dalle carte, mi sento attratto dalla finestrella che sta dietro al tavolo, e dà sul bosco. Anche la mia in montagna dà su un bosco. L'inverno per Mario era la stagione dei ricordi, lo riportava a inverni lontani: guardo fuori e ripenso a quest'uomo e ai suoi anni, alla sua eredità che sento il bisogno e il dovere di mantenere viva. Sul bosco nevica rado. I faggi spogli tra gli abeti scuri sembrano sbuffi di fumo. Penso che dopo uscirò nella neve e andrò su per un sentiero a fare un giro.


(foto di Giuseppe Mendicino: grazie per avermi accompagnato qui)