giovedì 24 dicembre 2020

PELLI DI FOCA

La neve è una scoperta recente per me. Non dico la neve di un giorno, di quella anch'io ho i miei ricordi d'infanzia, ma la neve quotidiana, la neve fuori dalla finestra ogni mattina, la neve che quassù copre ogni cosa in dicembre e non si scioglie fino ad aprile, e per quei quattro mesi è l'elemento principale che abbiamo intorno. Questa neve l'ho scoperta verso i quarant'anni: più che l'incanto dei fiocchi dal cielo è una storia di scarpe bagnate, pala fuori dalla porta, la macchina che fa fatica e prima o poi toccherà decidersi a cambiarla con un fuoristrada, il semplice problema di andare da qui a lì. Per andare da qui a lì, o fare un giro intorno a casa nella neve, per qualche tempo ho usato le ciaspole, ma non mi hanno mai convinto molto. È un camminare goffo, a piedi larghi, in cui si avverte tutto il proprio peso di esseri umani, e per me invece l'andare in montagna è una ricerca di leggerezza, mi piacerebbe un giorno riuscire a passare come un soffio di vento.

Succederà magari quando di me non resterà che l'anima, ma per ora, intanto che ho ancora un corpo, ho preso un paio di sci con le pelli di foca, e sto imparando a usarli. Gli sci – è bene ricordarlo e farsene ispirare – sono stati inventati dai montanari di un tempo semplicemente per questo, per spostarsi sulla neve (poi subito si scoprì quant'era divertente). Ci sono tanti racconti di sci di Mario Rigoni Stern, lui amava molto girare per boschi d'inverno e le forme dolci del suo Altipiano invitavano a farlo, uno in particolare si intitola “L'altra mattina sugli sci con Primo Levi”: è un incontro immaginario, Primo era morto da anni e un grande rimpianto di Mario era quello di non essere mai andati in montagna insieme, benché se lo fossero promessi tante volte.

Dunque è una passeggiata sugli sci tra due vecchi amici, uno in carne e ossa, l'altro in spirito, e io mi sogno di seguirli da lontano, che sulla neve è un riconoscere la traccia e andarle dietro, quando esco una di queste mattine per fare pratica con le mie pelli di foca. La giornata è luminosa: la neve cambia in tanti sensi il paesaggio, ne ammorbidisce gli spigoli, nasconde i segni dell'uomo, rende tutto nuovo e come appena creato, ma soprattutto illumina, riempie la montagna di luce, e di questo sì, provo ancora l'incanto. È un paio d'anni ormai che ho cominciato a sciare e salire non è più un problema, è questione di ritmo, fiato, scegliere una pendenza giusta e partire, con l'entusiasmo che serve a rompere la fatica finché le gambe non si scaldano e il cuore pompa a regime. Salgo per il bosco, per la strada poderale che d'estate serve gli alpeggi sopra a casa, ma dopo un po' la taglio e la abbandono, tanto d'inverno non c'è più strada né sentiero. Lucky mi corre davanti, nella neve alta. Lui è nato qui, figlio di generazioni di cani nati e vissuti qui, e di tutti gli elementi di questa montagna la neve è di gran lunga il suo preferito (poi vengono l'aria, l'erba, il legno, la roccia, e solo ultima a distanza l'acqua). Ci salta dentro mangiandola, rotolandosi, può continuare per giornate intere, sembra non abbia mai freddo e non sia mai stanco di neve, la scorsa estate il regalo più gradito che gli ho fatto è stato portarlo in cima al Castore, a 4200 metri: cordate di alpinisti imbragati, imbottiti, ramponati, e questo cane che si rotolava tra i crepacci come fosse nel prato davanti a casa. A proposito di leggerezza...

Alla fine del bosco raggiungiamo la pista da sci, o meglio quella che dovrebbe essere la pista ma che adesso, con gli impianti fermi per pandemia, è solo un pendio innevato. Niente pali, reti, cartelli, niente pisteur, operatori di rinvio, maestri di sci. I cannoni che spuntano dalla neve sono pennoni senza bandiera, e la seggiovia ferma è triste come un rudere industriale. Non che mi piaccia tanto quell'industria, ma è una fabbrica i cui impiegati e operai sono i miei amici, quassù tutti lavorano per lei: e adesso stanno a casa a far niente. Non c'è nessuno intorno a me e le impronte di una lepre attraversano la pista chiusa. È davvero bizzarro, da qui, pensare che la città sia il luogo dove abbiamo deciso di contenere il virus, pensare ai viali e agli uffici e ai negozi e alle case come a una forma di sicurezza, e a questi spazi aperti e sconfinati come a un rischio di contagio.

Dalla stazione d'arrivo della seggiovia, dove di solito lavorerebbe Gabriele – è lui l'omone che dà la mano ai bambini per farli scendere, lui quello con la faccia bruciata dal sole e le mani come due padelle – mi viene voglia di andare a vedere se è tutto in ordine a casa sua, dato che sta proprio qui sotto. È la sua casa dell'estate, la baita di Gabriele, l'alpeggio dove una volta saliva con il bestiame e adesso ci sale da solo, perché è proprio impossibile per lui passare l'estate giù in paese. Ecco la cantinetta che tante volte ci ha dissetati, ecco la stufa all'aperto dove giravamo la polenta, ecco la vasca da bagno per lavare le pentole e i ruderi dell'antico villaggio intorno a casa sua, che è tra le poche ancora in piedi. Mi ha sempre un po' disturbato, come una stonatura o un intervento di cattivo gusto, che proprio davanti al villaggio fossero piantati i cannoni da neve, ma oggi comincio a vedere la faccenda in un modo diverso, oggi l'acciaio dei cannoni comunica meglio con queste pietre. In fondo sono entrambi segni di una storia. O di una guerra, chissà: sembrano raccontare che un tempo i cannoni hanno bombardato le baite e l'esito dell'attacco si vede bene dai tetti crollati, dai muri smangiati e sbilenchi. Però poi sono stati lasciati lì anche i cannoni, come quei residuati bellici che si trovano sul fronte della Grande Guerra, che ancora oggi spuntano dai ghiacciai in ritiro.

Adesso in montagna non c'è più nessuno, né vincitori né vinti, né mucche al pascolo né sciatori, solo io e questo cane che si rotola nella neve. Che ne dici, Mario? Che ne dici, Primo? Il montanaro e il chimico, uno che aveva rifiutato un bell'ufficio a Milano e l'altro che per tutta la vita era stato in fabbrica a Torino, il vecchio e il nuovo mondo, eppure amici: come sarebbe bello, adesso, poter avere una parola da voi due. Poi è ora di strappare via le pelli, infilarmele sotto la giacca per tenerle al caldo, stringere gli scarponi alla caviglia. Rimettere gli sci e bloccare il tallone per la discesa. Scendo per la pista che non è una pista, e per uno che sta imparando a sciare, da autodidatta, a quarant'anni, potete credermi che la discesa è ben più difficile della salita. Non serve fiato, casomai un po' di coraggio. L'incoscienza dei ragazzini nella neve. Via!