martedì 5 novembre 2013

BALLANDO A NOTTE FONDA

    (Racconti, sempre racconti: esce in questi giorni l'ultima raccolta di Andre Dubus, pubblicata nel 1996 e finalmente portata in Italia da Mattioli 1885, come il resto della sua opera. Dubus è un maestro dimenticato e per fortuna riscoperto, il cui lavoro è vicino a quello di Richard Yates, o di Tobias Wolff, o di Charles D'Ambrosio - scrittori di ritratti, mi verrebbe da definirli, ma mi propongo di riparlarne in un discorso più lungo. Per il momento è stato un onore scrivere la prefazione a questo libro.)

     Andre Dubus amava molto un racconto di Hemingway, ambientato in Italia nel 1917 e intitolato "In un altro paese". E' la storia di un gruppo di reduci ricoverati a Milano, dopo essere stati feriti sul fronte austroungarico. A un soldato americano è saltato per aria un ginocchio, e la sua gamba non si piega più; un altro ha il volto sfigurato e nascosto sotto un velo nero; un altro ancora è un maggiore italiano con una mano ridotta a un moncherino. Vengono curati con metodi sperimentali, alla cui efficacia nessuno sembra credere davvero, ma è un modo come un altro per ammazzare il tempo: di sera vanno in osteria, dove gli italiani stanchi della guerra insultano loro e le loro medaglie, e di giorno si ritrovano in ospedale. Qui il soldato americano stringe amicizia con il maggiore, che si mette in testa di insegnargli la grammatica facendo conversazione. Finché un giorno il maestro va su tutte le furie dopo avere scoperto che l'allievo ha intenzione di sposarsi, una volta tornato in patria: se un uomo non vuole perdere qualcosa, gli ripete ossessivamente, non dovrebbe mettersi nella condizione di poterla perdere; altrimenti è sicuro che la perderà. Ma perché dovrebbe perderla?, chiede il soldato. Perché la perderà!, grida il maggiore. Non sta parlando di una mano né di un ginocchio né di un naso: è appena rimasto vedovo, come leggiamo poco dopo, e non riesce a darsi pace. Per un momento cede perfino al pianto. Alla fine si ricompone e chiede scusa per essersi lasciato andare. Da quel giorno continua a presentarsi in reparto ma senza parlare più, solo limitandosi a guardare fuori dalla finestra. E' l'ultima riga del racconto: dove capiamo che l'altro paese del titolo non è l'Italia ma un diverso tipo di terra straniera, quella desolata e buia in cui ci inoltriamo dopo avere subito una grave ferita dello spirito.
     E' lo stesso paese in cui abitano i personaggi di Dubus. Tutti, uomini e donne, si portano dietro una mutilazione. Se la sono procurata in guerra, o nel matrimonio, o durante l'infanzia. Alcuni la nascondono bene, e solo osservandoli attentamente si riesce a notare una leggera zoppia, una mano sempre tenuta in tasca; altri girano con un velo sul volto e allora è proprio impossibile non chiedersi quale ferita ci sia sotto. I più disperati sono quelli che stanno scontando i loro peccati - un adulterio, un atto di violenza, una vigliaccheria, una scelta sbagliata che poi si è rivelata cruciale - e perciò vivono nel rimorso e non riescono a smettere di guardarsi indietro. Noi però li incontriamo quando tutto è già successo, e questo a me pare il più serio motivo per cui Dubus è sempre rimasto fedele alla forma racconto, che è una forma aperta e permette di cominciare dopo che una tragedia si è ormai consumata, lasciarla indietro, occuparsi piuttosto di ciò che rimane. A lui interessava quel dopo, l'altro paese in cui vivono i suoi personaggi smarriti, che hanno perso tutto o quasi.
     Come si curano, o provano a curarsi, questi uomini e queste donne? Di solito con un nuovo amore. Che è un amore guardingo e sospettoso, un amore che ha imparato la lezione del maggiore: se non vuoi perdere non metterti nella condizione di farlo, se non vuoi altro dolore stai lontano dal campo di battaglia. Naturale che non regga, un amore così. Alcuni allora decidono di tagliare prima, non presentarsi all'appuntamento: sempre meglio una ferita pulita, disinfettata e nascosta dalle bende, che una ferita offerta a chi può riaprirla e farla sanguinare. Oppure no? Non è la fiducia il principio di ogni possibile guarigione?
     Dubus non dava risposte certe. Diceva di aver pensato per anni, e di averlo spiegato mille volte ai suoi studenti, che il racconto di Hemingway parlasse dell'impossibilità della cura. Poi gli era accaduto di restare invalido lui stesso, e aveva cominciato a leggerlo in un modo un po' diverso. A notare cose che prima non notava. Per esempio il rapporto tra i soldati: è vero che nessuno di loro crede nella terapia, però almeno si danno ascolto a vicenda, e quanto vale un compagno disposto a ricevere la tua storia? E poi il maggiore: un uomo così potrebbe facilmente tirarsi un colpo in testa, è quello che ci aspetteremmo da lui; invece ogni mattina si alza, va in ospedale e fa gli esercizi che un medico gli dice di fare. Perciò forse, pensò Dubus, è un racconto che parla di gente che prova a guarire. Ci prova come può, però ci prova. E con quell'idea in testa scrisse i suoi ultimi racconti, contenuti in questo libro. Se c'è chi scrive per turbare i giusti e chi per consolare gli afflitti e i peccatori, io direi che Dubus scriveva per dare coraggio a chi ha paura. A quelli terrorizzati da tutti gli sbagli che devono ancora fare. Ogni sua riga mi sembra piena d'affetto verso di loro.
     C'è un finale ricorrente nelle sue storie, che a noi lettori di racconti ricorda Salinger più che Hemingway, e un altro soldato ferito che non chiudeva occhio da giorni. Era il Sergente X, distrutto da ciò che aveva visto in guerra. Poi la lettera di una ragazzina, la sua inaspettata dolcezza, gli faceva venire un gran sonno come per incanto. E lui lo accoglieva pensando: prendi un uomo che abbia veramente sonno, Esmé, e avrai un uomo che ha ancora la possibilità di guarire. Così si addormentano gli insonni di Dubus, come deponendo le armi con cui non smettono di torturarsi, chiudendo gli occhi sul male commesso e affidandosi finalmente alla vita che deve ancora arrivare.