sabato 26 novembre 2011

BEFORE I DIE I WANT TO

Vicino al vecchio municipio di Brooklyn c’è una casa abbandonata, che un artista di New Orleans ha ricoperto di pannelli neri. Sono fatti di un materiale simile alla lavagna, e scatole di gessetti colorati sono a disposizione sul marciapiede. Su ogni pannello c’è stampata la frase: prima di morire vorrei. Così chi passa può prendere un gessetto e scrivere il suo desiderio più importante, o almeno quello che il pensiero della morte rende tale. Immagino che il risultato sarebbe diverso se la premessa fosse: prima di stasera vorrei. Oppure: entro dieci anni vorrei. Voglio dire che anche i desideri cambiano a seconda della prospettiva. E cose come ottenere un buon lavoro, comprare una casa, o conquistare quei traguardi che uno tende a desiderare pensando di avere ancora tempo, non valgono più molto se immagini che subito dopo sia finita.

Così ho passato più di un’ora lì davanti a leggere e classificare i desideri dei miei concittadini. Il quartiere del vecchio municipio è un posto povero, a maggioranza nera e latino-americana. E magari alcuni desideri non dipendono dai soldi che uno ha e dalla vita che gli è toccato fare, ma altri sì. In ogni caso al primo posto c’era un desiderio che non c’entra nulla con le classi sociali: sposarmi e fare un figlio. A volte solo il matrimonio, altre volte solo il figlio. Quest’ultimo mi sembrava un desiderio molto femminile, ma potrebbe anche essere un mio pregiudizio di genere. Una persona aveva scritto: avere una bella famiglia. Un’altra: poter vivere abbastanza da diventare nonna. Un’altra ancora: rivedere i miei genitori. In questo caso, sono quasi sicuro che si trattasse di un emigrante.
Al secondo posto c’erano i desideri legati ai luoghi. Visitare il Sud Africa, diceva uno. Vedere l’India. Chissà perché proprio l’India e il Sud Africa, mi sono chiesto, forse sono le terre d’origine di quelle persone? Molti avevano scritto girare il mondo. Ho trovato anche un vivere vicino al mare, però i miei preferiti erano questi due: andarmene da New York e tornare a casa. Forse perché alcuni desideri spalancano porte sulle vite degli altri, ti spingono a immaginare esistenze e trame. E il bisogno di scappare o ritornare è sempre il motore di grandi storie.
Al terzo posto c’era vivere per Gesù. Però mi sa che era sempre la stessa persona ad averlo scritto più volte, usando gessetti di colori diversi. Con tutto il rispetto per i desideri altrui, questo sapeva molto di propaganda evangelica.
Al quarto posto c’erano i desideri rivoluzionari: cambiare il mondo, o riportare l’amore sulla terra. Uno aveva scritto: legalizzare la marijuana. Un altro: bruciare Wall Street. Quello di bruciare Wall Street è un desiderio diffuso in questi giorni a New York, lo trovi spesso scritto sui muri, sui manifesti pubblicitari. Si respira più rabbia che amore camminando per le strade.
Soltanto uno aveva scritto: vincere la lotteria. E soltanto uno: fuck, fuck, fuck. Per i miei soliti pregiudizi di genere, questo mi pareva un desiderio tipicamente maschile. E ho pensato che non gli sarebbe stato difficile realizzarlo, con tutte quelle ragazze ansiose di riprodursi. Bastava scambiarsi i numeri di telefono.

Il giorno dopo ha piovuto, e la pioggia ha cancellato tutti i desideri. Per un po’ di tempo sulle lavagne è rimasta una poltiglia di gesso, di quel colore indefinibile che ottieni quando ne mescoli troppi insieme, ma con uno sbuffo di giallo da una parte, una traccia di azzurro dall’altra, echi di desideri brooklyniani, il mormorio di una folla in cui solo ogni tanto distingui una voce più acuta o un grido. Poi qualcuno, non so se l’artista di New Orleans o la nettezza urbana, ci ha passato uno straccio sopra, e le lavagne sono tornate al nero, a quella pace dei sensi che appartiene così poco alla natura dell’uomo. Per qualche motivo una vita senza desideri ci sembrerebbe intollerabile, e infatti la gente ha subito ricominciato a chiedere, a sperare, a pregare, e in poche ore le lavagne si sono riempite di parole. I desideri nuovi erano incredibilmente simili a quelli vecchi.

(però tra quelli nuovi c’era pure: scrivere un bel libro)

lunedì 31 ottobre 2011

DOVE SI GUARDA C’È QUELLO CHE SIAMO

Nevica. È bella Brooklyn sotto la neve, mi fa sentire bene. Cammino tra gli uomini che spalano i marciapiedi, spargono il sale davanti alla porta di casa. A Williamsburg, sul vecchio molo dove attraccano i traghetti di linea, i gabbiani volteggiano nonostante la tormenta, puntano le interiora delle prede abbandonate dai pescatori. Mi fermo in un negozio di vestiti usati per comprare degli scarponi. Ne trovo un paio di robusti, di cuoio, caldi e resistenti all’acqua, e le mie scarpe dell’estate ormai cadono a pezzi, così le getto in un bidone all’angolo della strada, proseguo con quelle dell’inverno ai piedi.

Fuori dal Jalopy Theatre, il locale dove il mercoledì vado a sentire un po’ di musica, un amico mi ha chiarito un’idea che mi girava in testa da qualche giorno. Anche lui conosce bene la montagna. È cresciuto in Valtellina, ma ora abita a Brooklyn da quasi un anno. Mi ha descritto la sua baita in mezzo ai boschi e la stanza che ha trovato qui, in un’ex caserma dei pompieri. Non è mica quel grande salto che tutti pensano, ha detto. New York è solo un altro tipo di solitudine.
Proprio così, Simone. Il punto non è il paesaggio che hai intorno, ma il modo in cui ci vivi dentro. Il mondo è il tuo specchio: le parti che osservi più spesso sono quelle in cui riesci a rifletterti, le cose che ti colpiscono sono scoperte di te. Probabilmente amo New York per questo: perché, tra le infinite città che contiene, c’è anche quella che mi assomiglia. Io preferisco la mattina presto alla sera tardi. Preferisco i margini di Brooklyn, i quartieri vicino all’acqua, a tutti i possibili centri di Manhattan. Preferisco i marciapiedi deserti alle strade gremite, le vecchie fabbriche in mattoni rossi ai grattacieli. Non è New York a essere così, sono io. Il marciapiede deserto sono io. La fabbrica in mattoni rossi sono io.

Ho letto da qualche parte che l’impressionante aumento della miopia nel mondo occidentale non è dovuto a computer e televisori, ma al fatto che viviamo in appartamenti, uffici e strade di città. Per la maggior parte del tempo, quello che abbiamo bisogno di mettere a fuoco si trova a pochi metri da noi, e il corpo adatta i propri organi di conseguenza. I nostri occhi non sono più abituati a guardare lontano.
Dopo aver letto l’articolo ho pensato al mio amico Rambo, lassù in montagna, e a quando mi diceva: lo vedi il capriolo?
Dove?, chiedevo io.
Là in cima, vicino a quei larici, lo vedi che è uscito a brucare dove c’è l’erba buona?
Ah eccolo, dicevo io, mentendo.
Così, tra me e me, ho fatto una promessa a Rambo per i prossimi due mesi: ogni giorno dedicherò un po’ di tempo ai miei occhi. Osserverò l’orizzonte e mi allenerò a distinguere quello che vedo. La prima volta l’ho fatto dal tetto di casa: mi sono ficcato una birra nella tasca della giacca, ho risalito la scala a pioli che c’è sul pianerottolo, ho spinto la botola con la testa e sono uscito. Ho bevuto la birra al tramonto, osservando le gru del porto di Red Hook e la superficie luccicante della baia, e poi sempre più in là fino alla costa del New Jersey.

Di mattina vado a scuola. Ho messo la sveglia alle sei, per poter scrivere un po’ prima di uscire. A quell’ora è buio, e nell’oscurità che precede l’alba c’è solo un’altra finestra illuminata oltre alla mia. Sta nella casa di fronte, al primo piano. Un uomo con la maglietta gialla e una gran pancia sporgente è in piedi davanti ai fornelli, si cucina la colazione. Uova, bacon, forse i pancake? Io prendo soltanto caffè nero. Dai lineamenti è messicano o portoricano. Anche lui ogni tanto guarda in qua, e vedendo la mia luce magari pensa: chi è arrivato nella casa degli italiani? Ci studiamo a distanza mentre il quartiere dorme. L’uomo con la maglietta gialla sono io.

Di sera bevo birra, Brooklyn Lager in confezione da sei. Quando esco di casa la mattina, porto giù le bottiglie vuote nel bidone del vetro. Quelle del giorno prima non ci sono mai. Questa sparizione del vetro è rimasta un mistero finché, una notte, sono stato svegliato da un tintinnio che arrivava dalla strada. Mi sono affacciato e ho visto un barbone coperto da molti strati di lana, guanti, cappotto, un paio di berretti, che frugava nei bidoni, tirava fuori le bottiglie e le trasferiva nel suo carrello della spesa. Ho visto ad Harlem dove vanno a finire quei vuoti: ci sono macchine simili ai distributori di bibite, ma funzionano all’incontrario. Tu inserisci lattine e bottiglie e loro ti pagano cinque centesimi al pezzo. Lì davanti si formano lunghe file. Così adesso, la mattina, quando porto fuori il mio vetro penso a quell’uomo, al momento in cui lo troverà, al paio di dollari alla settimana che rappresento per lui. Mi sembra come un piccolo segreto tra noi due. L’uomo che fruga nei bidoni sono io.

Altre cose che ho visto. Ho visto una ragazza farsi le trecce in metropolitana, specchiandosi nel finestrino in galleria. Di fronte a me ho visto un uomo così grasso che si era addormentato appoggiando la testa alla sua stessa pancia. Uscendo sulla Trentaquattresima Strada ho visto i giochi di luce che i grattacieli rivolti a est formano su quelli di fronte: sono bagliori lenticolari che si muovono, tracciano disegni sulle facciate, attraversano le finestre frantumandosi in schegge iridescenti. Ho preso molta pioggia una mattina, e più tardi, finita la scuola, un improvviso sole estivo mi ha sorpreso sulla Settima Avenue. Allora mi sono tolto la giacca e ho avuto voglia di camminare, e me sono andato in maniche di camicia fino a Chinatown, cinquanta isolati più a sud. Per tre dollari ho comprato un piatto di ravioli coi gamberi e ho pranzato su una panchina. Oggi che nevica fitto pare impossibile che quel pomeriggio sia esistito. Il cielo era di un blu ripulito dalla pioggia, e io mi sono ritrovato a immaginare come sarebbe stato vedere le montagne giù in fondo, tra i grattacieli, come succede a Milano quando il vento di aprile si porta via i fumi del nostro scontento, e il Monte Rosa compare all’orizzonte. Alzando gli occhi con questa fantasia, ho visto uno stormo di piccioni viaggiatori volteggiare intorno a un tetto dell’East Side. Ho pensato a un qualche Ghost Dog che li addestrava a ritornare a casa. Dicono ci sia un incrocio, a Manhattan, che sta a un livello un po’ più elevato del mare, perciò da lì attraversando la strada riesci a vedere entrambi i fiumi, l’East River da una parte, l’Hudson dall’altra, e quello è il posto in cui sai una volta per tutte e senza più alcuna possibilità di dubbio di essere su un’isola, io però non l’ho ancora trovato.

sabato 8 ottobre 2011

LA CARNE DELL'ORSO

     Avrei voluto un giorno di pioggia per andarmene dalla montagna, non questa luminosa estate d’ottobre. Da domani i tetti del mondo per me saranno di nuovo le terrazze, le cisterne corrose dalla ruggine e le nuvole veloci di Brooklyn. Sono fortunato, passo da un posto all’altro del mio cuore. Ma l’ultimo giorno è lo stesso denso di nostalgia, in una mattina che sembra d’agosto: se non fosse per i sentieri deserti, l’erba secca, il filo d’acqua che scorre nei torrenti, i larici in giallo. Solo le marmotte vagano stordite sotto il sole. Dei camosci, ora che la stagione della caccia è cominciata, resta l’ombra che si dilegua, lampi neri percepiti dalla coda dell’occhio, fantasmi di capre. Per una legge fisica che i montanari conoscono bene, in autunno i suoni arrivano più lontano. Così capita di sentire un trattore e vederlo passare qualche chilometro a valle, o il guaito di un bracco che sta inseguendo una lepre nel bosco. Ma in un giorno così non c'è tempo per l'ascolto. Prima di fare le valigie ho tirato su tutto quello che rimaneva nell’orto: l’ultima insalata, un solitario cavolo coraggioso, i porri. Poi ho strappato le radici, rastrellato la terra, sparso la cenere del camino. Non so se sia granché come concime, ma mi è sembrato giusto farlo: è stato come prendere il larice che era caduto in giugno sotto la neve, quello che mi ha dato legna per tutta l’estate, e rimetterlo a posto. Ho coperto la pianta di salvia con della paglia secca. Ho riportato in casa la ciotola dei cani.

     Dei due amici che ho quassù, uno è arrivato e mi ha detto: non sono molto pratico con gli addii. Nemmeno io, gli ho risposto. Allora ciao. Si è allontanato seduto sulla pala del trattore, con suo figlio che guidava e il cane che gli mordeva le ruote anteriori, come fa sempre, abbaiando e mettendosi di traverso sulla strada, come a dire fermati, dove vai? L’altro amico mi ha cacciato di casa, quando sono passato a salutarlo, e poi mi ha scritto per scusarsi, perché era triste e non è stato capace di abbracciarmi. Capisco bene anche lui. Alla fine mi sono lavato per l’ultima volta alla fontana: le mani, la faccia, il collo. Ho lasciato i bastoni sul balcone, perché è lì che devono stare, e poi ho chiuso la porta e me ne sono andato.

     Ho letto tanti libri di montagna in questa lunga stagione. Per motivi che non sto qui a spiegare, il racconto che me la ricorderà sempre è Ferro di Primo Levi.

     La facile cresta doveva essere facile, anzi elementare, d’estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l’altro c’erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l’ala da far pena, Sandro in preda a un’ilarità sinistra che io trovavo irritante.
     “E per scendere?”
     “Per scendere vedremo”, rispose; e aggiunse misteriosamente: “Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso”. Bene, la gustammo, la carne dell'orso, nel corso di quella notte che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora; il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale.
     Alla prima luce funerea ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio. Ma tornammo a valle con i nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: e ora che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.

     Forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino. Me ne vado con quel sapore in bocca. Spero di conservarlo a lungo. E ora Brooklyn.

mercoledì 21 settembre 2011

SULL’INGENUITÀ

     Il 18 settembre sono stato invitato dal Festival Arca Puccini di Pistoia a un convegno dal titolo: “Est/Ovest: stati dell’arte”. Ero lì a rappresentare l’occidente insieme a Simon Reynolds, critico musicale inglese, che nel suo ultimo libro, Retromania (Isbn 2011), lamenta l’invadenza del revival nostalgico nel pop-rock contemporaneo. Secondo Reynolds la mania del retrò - la rivisitazione di mode musicali del passato recente - ha prodotto un decennio, gli Anni Zero, in cui si fatica a riconoscere segni originali, uno “spirito dell’epoca” da lasciare alla storia. A meno che lo spirito dei nostri tempi non sia proprio la nostalgia. Io ne so poco di musica, ma leggendo il libro durante il viaggio mi chiedevo: e nella narrativa come siamo messi? E soprattutto: e io come sono messo? Pubblico qui il mio intervento, ringraziando Nevrosi per l’invito e i ragazzi di Pistoia per l’ospitalità.

     Quali possibilità ho, come scrittore, di raccontare qualcosa di autentico, originale, tipico dei miei tempi? Se scrivere fosse come scalare una montagna, dove potrei trovare una cima vergine, o almeno una via mai percorsa prima? E se non esistesse più nessun territorio inesplorato? Queste domande mi fanno tornare in mente il famoso finale del Grande Gatsby. Nick Carraday, il narratore, osserva il panorama di Long Island dopo che l’estate è finita, Gatsby è morto e la sua villa sulla spiaggia è ormai buia e deserta.
     La maggior parte delle grandi case della costa erano chiuse adesso e non si vedevano che rade luci, a parte il bagliore, mobile e indistinto, di un battello che attraversava lo stretto. E mentre la luna si stagliava più in alto, quelle costruzioni effimere cominciavano a dissolversi, finché a poco a poco mi resi conto di come appariva l’isola che in tempi andati era sbocciata agli occhi dei marinai olandesi: un seno fresco e verde del nuovo mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano fatto spazio alla casa di Gatsby, col loro bisbiglio avevano un tempo assecondato il più grande ed estremo dei sogni umani. Per un fuggevole e incantato istante l’uomo doveva aver trattenuto il respiro al cospetto di questo continente, costretto a una contemplazione estetica che non capiva e non desiderava, faccia a faccia per l’ultima volta nella storia con uno spettacolo all’altezza della sua capacità di meravigliarsi.
     La meraviglia è uno dei sentimenti su cui Il Grande Gatsby è costruito. Jay Gatsby suscita meraviglia nelle persone, tutte tranne l'unica che gli interessi affascinare. La sua è la storia di un uomo dalle umili origini che lotta contro il destino: si arricchisce facendo il gangster, si innamora della moglie di un miliardario, cerca di conquistarla meravigliandola, infine paga la propria audacia con la vita. Tuttavia da lettore mi è chiaro che il desiderio di Gatsby non riguarda Daisy, né i soldi, né un posto in quel mondo dorato. Ma allora che cosa vuole? E perché Fitzgerald chiude la sua storia con un’immagine che non c’entra nulla, i marinai olandesi al cospetto del nuovo continente? Io penso che  Gatsby sia soprattutto un uomo deluso. È deluso dalle cose che possiede e da se stesso. La ricchezza non è come lui sperava. Forse è quel sentimento che desidera più di ogni altro, la meraviglia che si prova di fronte a una nuova frontiera? È la capacità di meravigliarsi il lusso che non può comprare?

     Nello stesso periodo, la metà degli anni Venti, Hemingway scrive uno dei suoi racconti migliori: Il grande fiume dai due cuori. La trama è tanto semplice che si potrebbe riassumere così: Nick Adams va a pescare. Nella prima parte del racconto Nick scende da un treno, si addentra nel bosco, trova una radura in cui campeggiare, accende un fuoco, si prepara la cena e va a dormire. Nella seconda si sveglia, cattura alcune cavallette da usare come esche, fa colazione, scende al fiume a pescare, prende due belle trote e se ne torna felice alla tenda. La storia sembrerebbe oscura se non fosse preceduta dagli altri episodi di In Our Time: giunti alla fine della raccolta sappiamo che quei boschi del Michigan sono i posti in cui Nick è cresciuto; che ha imparato dal padre a pescare, cacciare e godere della vita all’aria aperta; che a diciott’anni è partito per la prima guerra mondiale, e sul fronte italiano è rimasto ferito nel corpo e nello spirito. Dunque, questa battuta di pesca è un ritorno. Anzi di più: una cura. Dopo la guerra Nick si sente un uomo debilitato, e nei boschi della sua infanzia cerca la guarigione. Non è il fiume ad avere due cuori, è lui stesso: il cuore torbido del reduce di guerra, il cuore limpido del ragazzo che era stato. Rileggendo il racconto mi colpisce ogni volta la sua sensualità. Nick ha letteralmente i sensi all’erta, ogni gesto gli provoca un piacere acuto: sdraiarsi sull’erba, portare alla bocca il primo boccone di carne in scatola, perfino infilzare una cavalletta con l’amo. È come se facesse queste cose per la prima volta. O usando le parole di Fitzgerald, come se stesse recuperando la propria capacità di meravigliarsi.
     Se cerco un nome per questa qualità, quello più adatto mi sembra ingenuità. Sono andato a controllare l’etimologia, e ho scoperto che in latino un in-genuus era un figlio di genitori liberi, contrapposto a chi nasceva da schiavi. Legalmente, un ingenuo era un uomo con pieni diritti di cittadinanza. Ma idealmente (in un’ideologia classista) era molto di più: un onesto, un puro, un cittadino dall’animo nobile e non corrotto. Ai nostri tempi l’ingenuo è diventato uno che crede a tutto, incapace di vedere la verità nascosta sotto le apparenze, facile da raggirare. I più ingenui tra gli esseri umani sono i bambini: fiduciosi e vulnerabili perché non conoscono il male.
     Jay Gatsby e Nick Adams il male lo conoscono eccome. Le loro sembrano storie molto diverse, ma secondo me non lo sono: parlano di uomini che hanno perso l'ingenuità, e cercano di riconquistarla. Perché la capacità di meravigliarsi è necessaria per continuare a vivere.

     A volte in montagna ho una fantasia: quella di trovare una cresta, un picco nascosto, o almeno una fessura o una cengia, in cui prima di me non abbia messo piede alcun essere umano. So che è una fantasia ingenua. Sulle Alpi non c’è nemmeno un sasso che non sia stato toccato dall’uomo: nessuna Alaska, nessuna frontiera, nessun’isola boscosa e incontaminata. Ma io ho bisogno di non pensarci troppo. Così mi capita di individuare una cima e una via di salita - una cima senza nome e una via che non compare in nessuna mappa - e arrampicarmi fino a lassù solo per trovare, alla fine, un ometto di sassi o un bastone conficcato in un buco, segno inequivocabile di chi è stato lì prima di me. E scopro di non essere un esploratore né un pioniere, ma solo uno che passa. Il fatto è che per arrivare in cima, per affrontare la salita e godere delle sensazioni che mi dava, avevo bisogno di farlo come se fossi il primo, di salvare la mia preziosa ingenuità dagli attacchi della consapevolezza.
     Anche quando scrivo è così. Sto parlando della soggezione che provo al cospetto della letteratura, e dell’incoscienza che mi serve per raccontare una storia. Dello sconforto e della fiducia. Qualunque scrittore è soltanto uno che passa: non fa altro che prendere il lavoro dei suoi predecessori e aggiungerci un pezzettino. Non solo quel pezzo è minuscolo, ma c’è la seria possibilità che sia un pezzo inutile: in quel caso verrà dimenticato dalla storia, eliminato senza rimpianti. Eppure, se ti siedi davanti al foglio con questo spirito, non puoi ottenere altro che una pagina bianca. Per cominciare a mettere  una parola dopo l'altra, seguirle e vedere dove ti portano, devi essere capace di fartene meravigliare: e raccontare una storia come se fossi il primo in questo mondo a farlo.

venerdì 9 settembre 2011

BAITA MAGICA


Giù per il pendio inghiottito dalla frana gli scarponi affondavano nella terra molle: una pasta silicea, grigiastra, vischiosa come malta fresca, che rendeva ogni passo una pena. Così sono salito su un tronco sradicato e l’ho percorso in equilibrio per superare quel caos di pietre smosse, rivoli d’acqua fangosa ed enormi zolle d’erba scaraventate intorno come da un’esplosione, appoggiate in bilico su un masso o incastrate in una crepa del terreno, e anche in quelle posizioni innaturali si ostinavano a fiorire. In alto, dove si era staccata la frana, una placca scura tagliava la montagna. Roccia umida e marcia, con le radici dei larici che sporgevano a metà parete e non riuscivano a tenerla insieme. Di animali selvatici nessuna traccia. Né un fischio d’allarme sui prati, né il fruscio di una corsa tra i rami, né un rintanarsi improvviso nel ginepro ai miei piedi. Perfino gli uccelli tacevano, lasciando nell’aria soltanto un mormorio di fondo, il gorgogliare di una corrente d’acqua sotterranea. Mi sono sentito sollevato quando alla fine ho superato gli ultimi detriti, ho ritrovato una traccia di sentiero che piegava sulla sinistra, mi sono lasciato la frana alle spalle e ho ricominciato a salire.

Avevo idea di passare la notte su un prato, in riva a un lago che conosco bene, scaldandomi al fuoco e guardando le stelle d’agosto, ma non c’è niente da fare: questa è l’estate della pioggia, e quando ormai ero arrivato su ho sentito avvicinarsi il temporale. Saranno state le sette di sera. Un fronte di nuvole gonfie e scure tuonava qualche chilometro a valle, sul paese da cui ero partito poche ore prima. In riva al lago due pescatori si affannavano a montare una tendina canadese, mettendo al riparo abiti e cibo mentre il vento complicava tutto il lavoro. Arrivava a folate gelide, increspando la superficie del lago e rendendolo ancora più lugubre. Io ho puntato verso un gruppo di massi sperando che ce ne fosse uno sporgente, adatto a farmi da riparo, e salendo per i pascoli ho superato i ruderi di alcuni alpeggi. È lì che ho trovato la mia baita magica. L’ho chiamata così solo più tardi, ricordandomi dell’autobus di Chris. Era un alpeggio abbandonato come gli altri, però i muri stavano ancora in piedi e sul tetto era stata posata una lamiera. Se qualcuno lo usa ancora, ho pensato, avrà un lucchetto da qualche parte, o sarà chiuso a chiave. Ma non c’era né serratura né lucchetto. La porta era tutta storta, incastrata per via del cedimento dei muri. Ho provato a spingerla con le mani, l’ho sentita muoversi appena, e poi le ho dato una bella spallata spalancandola.

 Gli occhi ci hanno messo un po’ ad abituarsi al buio. Fuori la pioggia cominciava a picchiare sulla lamiera. Dentro non c’era nessuna finestra, ma una fessura tra le pareti e il tetto lasciava passare un po’ di luce. Il focolare stava al centro della stanza: quattro pietre piatte a delimitare il braciere, e accanto il perno girevole su cui una volta si fissava la caldaia del formaggio. Poi una mensola di legno con una lampada a olio, qualche bottiglietta vuota, una pistola giocattolo. Che cosa ci faceva lì dentro una pistola giocattolo? Era l’imitazione di un revolver, tutta rotta e tenuta insieme dal nastro adesivo. Così mi sono ricordato di quei bambini selvaggi che da piccolo vedevo in montagna, sporchi, silenziosi, tutti seri quando ci incontravano, atteggiati da adulti mentre guardavano le loro mucche, e io cercavo di immaginarmi a cosa giocavano quando noi non c’eravamo più. Ho trovato anche un pezzo di specchio inchiodato a una trave, forse per farsi la barba la mattina, e un piatto sporco, due tazze di metallo, un vecchio materasso sventrato. Saranno stati i topi a dilaniarlo, perché il pavimento era cosparso di batuffoli di lana marcia, cocci di bottiglie rotte, fieno e chissà cos’altro. Per fortuna era abbastanza buio da non vedere. Il temporale sulla lamiera ora faceva un frastuono assordante: io ho liberato meglio che potevo un pezzo di pavimento per stendere il sacco a pelo, poi mi ci sono seduto sopra e ho preso dallo zaino la mia cena. Una pagnotta, una scatoletta di carne, due mele, una borraccia di vino. Mangiare al buio si prospettava l’unico modo per ammazzare il tempo e così ho provato farlo molto piano, masticando a lungo il pane e bevendo il vino a piccoli sorsi, sperando che mi bastassero per qualche ora. Invece più tardi il temporale si è calmato. Ho trovato della legna secca in un angolo della stanza e sono riuscito ad accendere un fuoco, fuori, contro il muro della baita, e quando ha ricominciato a piovere era già un bel falò vivace. Stando seduto sulla soglia riuscivo a non bagnarmi e ad avere comunque un po’ di luce per leggere, così ho preso il mio Hemingway e il mio vino e ho passato la serata con Nick Adams sul Grande fiume dai due cuori. Il suo torrente si chiamava Black River. Anche la mia montagna, quella che avrei provato a scalare il giorno dopo, aveva un nome nero. Mi è sembrato di buon augurio. La mia grande montagna dai due cuori.
  
Il giorno dopo mi sono alzato alle cinque e mezza, appena ho visto che fuori impallidiva. Non ne potevo più di stare lì a rigirarmi sul pavimento, evitando i cocci di vetro e l’acqua che veniva giù dal tetto e pensando a come il tempo riusciva a restringersi e dilatarsi, un anno intero poteva volare via in un battito di ciglia e una sola notte non finire mai. Ho avvolto il sacco a pelo e rifatto lo zaino, mi sono allacciato gli scarponi e ho lasciato lì il giornale con cui avevo acceso il fuoco: se mai qualcuno l’avesse trovato, sopra c’era una data a testimoniare il mio passaggio. Poi ho salutato la baita magica, mi sono chiuso la porta alle spalle e ho preso un gran respiro di aria pulita. Mi sentivo tutto rotto e ancora più stanco della sera prima, però sapevo che quella sensazione sarebbe svanita camminando. Ho cercato di non pensare alla parola caffè. Ho risalito gli ultimi pascoli, mi sono fermato in riva a un torrentello e mi sono lavato con cura i denti, la faccia, il collo. Adesso ero del tutto sveglio. La mattina stava sorgendo limpida e fredda, con il lago ancora in ombra duecento metri sotto di me e la cima del monte mille metri più in alto, già illuminata dal sole. Il bianco sporco dei vecchi nevai languiva sulla roccia nera, e nei canaloni un bianco nuovo, brillante e quasi d’argento, screziava le pareti, incideva bordi e pieghe come un gessetto sulla lavagna. Ho pensato che in alto potesse aver nevicato, ma non avevo mai visto la neve disegnare linee così nette. Avrei scoperto più tardi che si trattava di ghiaccio: la grandine notturna era scivolata tra le rocce accumulandosi nelle fessure e sulle cenge, e ora fondeva al primo sole del mattino tracciando quelle venature luccicanti. Quanto a me, mi aspettavano almeno due ore di pietraia sconnessa prima di uscire in cresta. Così ho abbassato lo sguardo, ho infilato i pollici nelle bretelle dello zaino e ho ricominciato a salire.

martedì 9 agosto 2011

PER LA COMMOVENTE RESISTENZA DEI GHIACCIAI

Per quanto mi svegliassi presto, in rifugio, c’era sempre qualcuno che si svegliava prima di me. Avevo una finestra affacciata a est, su una catena di montagne nere da cui l’alba arrivava di taglio alle sei di mattina, abbagliando il muro della stanza d’arancione e d’oro. Aprivo gli occhi in quella luce improvvisa e sentivo l’odore del fuoco salire dalla cucina. Legno di faggio, portato su dai boschi che coprono la valle duemila metri più in basso. La stufa andava avanti a bruciarlo per tutto il giorno eppure riusciva a malapena a scaldare la cucina, perciò ci trovavamo sempre lì. Sulla stufa facevamo il caffè, cucinavamo, stendevamo i vestiti fradici di pioggia, tostavamo i pistacchi che un giorno abbiamo trovato, umidi e molli e vecchi di chissà quanto, in fondo a un armadio in dispensa.

Dei due ragazzi Andrea era quello pigro, o era la sua calma nel prendere il lavoro che ti ingannava. In realtà quando io mi alzavo lui aveva già acceso il fuoco, messo su la colazione, lavato i piatti della sera prima, e ora stava fumando e guardando vecchi film, o profili di ragazze in giro per la rete. Sedeva sempre dalla stessa parte del tavolo, accanto alla finestra. A una cert’ora della mattina passava dal caffè al vino allungato con acqua, oppure acqua e Pernod oppure bianco e Campari, arrotolando sigarette di Golden Virginia e mostrandomi le ragazze a cui d’inverno aveva insegnato a sciare. Adesso erano in spiaggia, pubblicavano foto in costume. Sembravano di un altro mondo. Su di noi pioveva ogni giorno e certe volte la pioggia diventava grandine, e quando non pioveva o grandinava tirava un vento gelido, appena sopra lo zero. L’unica ragazza che vedevamo spesso praticava la corsa in montagna: la avvistavamo con il binocolo mentre saliva per il sentiero, ma poi raggiungeva il colle, toccava il muro del rifugio, si voltava e tornava giù, fugace come ogni apparizione di bellezza.

Davide sedeva nel posto di fronte, scendeva tardi in cucina ma da quel momento era in moto perpetuo. Ogni due o tre giorni faceva il pane che poi metteva a cuocere nel forno della stufa. Teneva i conti, rispondeva al telefono ed era lui ad avere a che fare con i clienti in sala da pranzo, dato che Andrea per sua natura preferiva parlare poco, e muoversi ancora meno. Davide aveva sempre più idee di quelle che riusciva a realizzare. Progetti per migliorare il rifugio. Una turbina eolica da montare sul tetto, una rosa dei venti in pietra sul selciato, spille e magliette, muri da imbiancare. Se si ritrovava con le mani in mano, afferrava una sgorbia dal davanzale e si metteva a intagliare un portacenere di legno, o il manico di un coltello. Diceva di non riuscire a disegnare forme simmetriche, e che ci doveva essere qualcosa, in lui, che faceva a pugni con la simmetria, forse per via dello zigomo che si era spaccato anni prima e che gli aveva segnato i lineamenti. Lavorando al suo intaglio raccontava, rifletteva e a volte se ne usciva con una nuova idea, che Andrea approvava con un borbottio distratto. Tanto sapeva bene come sarebbe finita.

A parte la cronica mancanza di ragazze, il problema principale in rifugio era l’energia elettrica. Non c’era abbastanza sole per alimentare i pannelli, la turbina eolica ordinata da un mese non arrivava mai, e la benzina per il generatore andava centellinata. Così, se arrivavano clienti, la prima raccomandazione era quella di spegnere la luce ogni volta che uscivano da una stanza. Se eravamo noi da soli evitavamo del tutto di accenderle, e il pomeriggio diventava un lento abituarsi al buio. Seduto a capotavola leggevo i racconti di Conrad. Verso le sei, solo spostandomi vicino alla finestra riuscivo a catturare sulle pagine un po’ di quel chiarore lattiginoso, appena sufficiente a distinguere le parole. Più tardi accendevamo un paio di candele, e quando finivano anche quelle era ora di andare a dormire. A letto mettevo quattro coperte una sopra l’altra. Dormivo dentro vestiti che sapevano di zuppa di cipolla, stufato lasciato per ore a sobbollire, fumo di legna e di tabacco. Solo quando un cliente chiedeva di farsi la doccia e toccava accendere lo scaldabagno, era la volta che potevamo lavarci tutt’e tre. Io che passavo per ultimo sperimentavo puntualmente, appena dopo essermi insaponato dalla testa ai piedi, la fine dell’acqua calda.

Dalle due valli salivano nebbie che parevano eterne, e guardare fuori dalla finestra era un lungo esercizio di contemplazione delle nuvole. La mattina presto si trovavano più in basso di noi, ma poi il primo calore le spingeva verso l’alto, ad avvolgerci per il resto del giorno. La bandiera sul colle, più che risvegliare in noi l’amor di patria, ci segnalava la direzione del vento: l’est dava qualche speranza per il pomeriggio, l’ovest annunciava tormenta. Perfino chiusi in cucina riuscivamo a sentire il cavo metallico della bandiera sbattere contro il pennone, e quel tintinnio era la musica del colle insieme a qualche rado fischio di marmotte, al frusciare violento dell’erba, al motore a scoppio del generatore e alla chitarra che ogni tanto Davide o Andrea imbracciavano, benché nessuno dei due la sapesse davvero suonare.

A volte non ne potevo più di aspettare, e allora uscivo e partivo. Puntavo la cima di una montagna attraverso la pietraia e cercavo di arrivare fin lì. Nel tragitto stanavo camosci e stambecchi, scoprivo laghi nascosti in conche imprevedibili, mi lasciavo tentare da cambi di rotta e giochi solitari. Per via di questa estate fredda e piovosa, molti piccoli nevai resistono dove normalmente ad agosto trovi soltanto pietre, e lungo certi canaloni potevo buttarmi giù scivolando sulle valanghe ghiacciate, cadendo, rialzandomi, ridendo da solo e obbedendo all’istinto di ululare. Una volta su una cima ho avuto una visione: avevo le nuvole in basso da un lato della cresta, e uno scorcio di sole è comparso all’improvviso sopra di me. Il sole ha proiettato sulle nuvole un arcobaleno circolare, in mezzo al cerchio c’era l’ombra di un uomo e ho impiegato qualche istante a capire che ero io. Ero alto e sottile, con gambe e braccia lunghissime se le agitavo per salutare quell’altro me stesso, un alieno circonfuso di luce. Non ho potuto godermi a lungo lo spettacolo, perché subito dopo il sole è svanito di nuovo, l’aria si è fatta buia ed elettrica e mi sono ritrovato in mezzo al temporale. Mi sono detto ecco, ora mi lavo. Tornando lungo la cresta immaginavo il fuoco, il profumo della stufa e il silenzio dei due amici che mi aspettavano in rifugio.

lunedì 11 luglio 2011

PASTORE DOVE VAI

E così sei un sovversivo, mi dice versando il vino, dopo che abbiamo discusso per un po’ della situazione politica. È un punto dolente da quando vivo qui: gli uomini come lui parlano da razzisti e maschilisti, vestono con abbigliamento militare, credono nelle maniere forti e guardano con sospetto chiunque intenda un modo diverso di essere uomo. Eppure, nella vita di tutti i giorni, siamo molto più simili di quanto le nostre idee dimostrino, così di solito evito l’argomento. Se sento qualche discorso che non mi piace protesto apertamente, ma poi non mi va di stare lì a litigare. Mi pare che non serva a nulla. Per come la vedo io è la vita che ti cambia le idee, non le parole. E poi sono convinto che sia molto più anarchico lui di me: Rambo che non ha un lavoro fisso né una famiglia tradizionale, non possiede una televisione né un computer, non mette piede negli uffici pubblici, nelle banche, nei centri commerciali, non è rintracciabile in rete, non fa numero in nessun sondaggio né analisi di mercato. Un uomo così, che si è costruito un’esistenza ai margini e lì ci vive felicemente, senza seguire regole imposte da qualcun altro, è quanto di più sovversivo io riesca a immaginare per quest’epoca, però non trovo le parole per dirglielo. Quando mi avventuro in discorsi complicati mi accorgo che mi guarda storto, e se uso parole che non capisce smette di ascoltarmi. Così lo accontento. Annuisco e basta. Forse hai ragione tu, dico. Mi sa proprio che sono un sovversivo.

Lui non dice le mucche, dice le baracche. È un modo affettuoso che ha di chiamarle, perché sono goffe e pesanti e hanno paura di tutto. “Mettiamo a nanna le baracche”, dice. Poi spalanca il portone della stalla, apre un varco nel filo elettrificato e con pazienza le chiama. Vièn, vièn, vièn. Quando la capobranco si muove verso di lui, le altre la seguono docilmente. Per la mezz’ora successiva dalla stalla arrivano grandi bestemmie nel dialetto che ho cominciato a capire. Al momento di essere legate le mucche si ribellano: girano su se stesse, si scambiano di posto e si mettono di traverso, così bisogna convincerle con altri mezzi, e spingerle e tirarle in quel caldo opprimente, umido del loro fiato e sudore. Poi per fortuna Rambo ne ha da mungere due, ed è così che ritrova la calma. È un gesto che fa da quando era bambino e lo rilassa molto. C’è chi munge con il pollice piegato dentro al pugno, mi spiega, usando la nocca per stringere la mammella, ma a lui quel modo non piace perché è poco delicato. Preferisce usare tutta la mano anche se è più faticoso. Vedi come?, mi fa. Mentre mi mostra la sua tecnica, il secchio con il latte è rimasto lì nell’angolo e quando ci voltiamo è vuoto. Saranno stati cinque litri. Lupo si aggira con le orecchie basse, il passo di un cane sazio e colpevole. Se l’è bevuto tutto lui.

Mi parla spesso di un mondo perduto in cui, lassù nel villaggio, ogni casa era abitata da una famiglia. Uomini al lavoro nelle stalle, ragazzini nei pascoli, le donne a occuparsi degli animali da cortile. Due ore di mulattiera per arrivare dal paese. Polenta e latte a pranzo e cena. Bastavano poche settimane per dimenticarsi della civiltà, levarsi di dosso scarpe e vestiti e tornare allo stato selvatico. Per la carne cacciavano le marmotte: di camosci e caprioli in giro non se ne vedevano, estinti da secoli di bracconaggio. Eppure, ci tiene a dirmi che il pastore è quello che ha le pecore, per chi ha le mucche c’è un’altra parola. Vacquier. Non è una differenza da poco. Il pastore di pecore era un nomade, pascolava sui radi prati d’alta quota e dormiva all’aperto, il pastore di mucche invece era un sedentario. Con campi suoi, una casa, una stalla.
Poi, chiacchierando, ho scoperto che questo mondo non l’ha mai visto davvero. Quand’era bambino lui, il villaggio era già abbandonato. In queste case vuote e cadenti inventava i suoi giochi. La montagna abitata non è un ricordo, ma una leggenda dell’età dell’oro e un sogno di felicità: gli piacerebbe venire su con i suoi due figli, che hanno diciannove e vent’anni e sono più grossi di lui, e poi galline, un asino, un paio di capre e maiali. Parla spesso di comprarsi quel po’ di bestiame che basterebbe per vivere in autonomia. Invece ha solo il cane, e nemmeno una mucca sua. Gliele mandano su per quattro mesi all’anno dalle stalle di pianura. I prati intorno al villaggio sono tutto quello che possiede.
Anzi no: i prati, e una stalla da quaranta posti, e un trattore scassato, e una piccola baita di una sola stanza. Il muro a monte andrebbe rimesso a posto, perché sta facendo la pancia che prima o poi lo porterà a crollare. Al tetto manca qualche losa, e le assi del soffitto annerite di fumo si infradiciano ogni volta che piove. La stanza è stipata di oggetti. Una collezione di collari e campanacci di ogni dimensione. Le coppe vinte alla battaglia delle regine. Le foto dei bocia quand’erano piccoli e delle mucche migliori. Una vetrinetta di cristallo (con dentro un paio di calici sbeccati, il boccale da un litro di una festa della birra, i bicchieri della Nutella), un mobiletto in truciolare degli anni Sessanta (segato a metà in altezza perché non ci stava), un piccolo e molto più antico armadio a muro, solo due ante e un fermo a chiudere una nicchia nella pietra. I piatti di legno, il paiolo di rame. Gli strumenti per fare il formaggio appesi sopra la stufa.

Lì dentro ho passato molte serate anch’io. Siccome a me piace cucinare e a lui no, ma a nessuno può dispiacere cenare con un amico, certe volte ci organizziamo così. Io salgo a casa sua verso le sette, prendo la grossa chiave nascosta sotto una pietra, entro e accendo la stufa. Se ci sono pentole e piatti sporchi, vado a lavarli alla fonte. Lì Rambo ha sistemato una vecchia vasca da bagno che usa come tinozza per sé, i vestiti e le stoviglie. C’è un asse di legno con il sapone, una spazzola, alcune vecchie pagliette. Mi fa uno strano effetto lavare i piatti sotto i larici alla luce del tramonto, e usando acqua gelida e niente detersivo c’è parecchio da strofinare, ma non riesco a immaginare un lavatoio più bello di questo. Riempio d’acqua la pentola della pasta. Quando torno dentro la stufa è già ben avviata e io accendo la radio, metto l’acqua a scaldare, pelo le patate e aspetto che lui torni. A quel punto butto gli spaghetti. Pasta al pomodoro, patate bollite e formaggio sono la nostra dieta quotidiana. Non esattamente alta cucina. Ma Rambo è contento di trovare la cena pronta, e divertito quanto me da questi ruoli che ci siamo dati: una volta c’era il casaro, mi dice, che faceva il tuo mestiere. Lui le mucche non le toccava nemmeno. Il suo compito era quello di fare il formaggio e di cucinare per tutti, a colazione, pranzo e cena. Bè, gli dico, se mi insegni a fare il formaggio io faccio volentieri pure quello. E lui: magari una volta o l’altra ci proviamo.
Quando invece è lui a venire giù da me si siede sempre nello stesso posto, sulla panca, le spalle al muro per osservare la casa. Tu sì che vivi bene, mi dice guardandosi in giro, perché ho una cucina vera, un caminetto e perfino un divano, il bagno, l’acqua corrente, i muri dritti e il tetto tutto intero e non devo stendermi sotto al tavolo quando piove. Mi porta sempre un chilo di pasta o un pezzo di formaggio. Una volta è arrivato con un pollo arrosto che si era procurato chissà dove. Un’altra volta era andato a lavorare giù in pianura, a spaccare legna e spostare roba nella cascina di un suo amico, ed è tornato con un sacco di riso da cinque chili che mi ha lasciato in regalo. Rideva tutto contento perché laggiù un bambino gli aveva chiesto: come mai ti chiamano Rambo? È perché sei molto forte?
Alla fine ha un modo elaborato di andar via. È una specie di cerimonia che ci ho messo un po’ di tempo a decifrare. La prima volta ha detto: bien, mi sa che adesso vado; e così io mi sono alzato per aprirgli la porta e salutarlo. Lui mi ha guardato strano e ha chiesto: hai tanta fretta? Io no, ho risposto. Ho scrollato le spalle e mi sono rimesso a sedere. Così ho capito che, prima di farlo sul serio, deve dire adesso vado almeno cinque o sei volte, e può passare un’ora nel frattempo, un altro caffè, un’altra storia dei tempi andati, un’altra bottiglia di vino. E naturalmente ho dovuto imparare a fare altrettanto. Quando sono su da lui, a un certo punto della serata mi stiracchio la schiena, dò un’occhiata al buio che c’è fuori e dichiaro: adesso vado.
Prendi un altro pezzo di formaggio, risponde lui, ignorando le mie parole e riempiendomi ancora il bicchiere. Strizziamo un altro bottiglione?
Perché no, rispondo io (quassù non si beve e non si mangia: si trita una costina di maiale, si strizza una bottiglia di vino).
Alla fine, come una clessidra, è proprio la bottiglia a dire quando il tempo è scaduto. Finché c’è vino si resta. Quand’è finito, o fai un’altra spedizione in cantina o ti rassegni ad andare a dormire. E non è mai una decisione facile.

Il 29 giugno, San Pietro, patrono dei montanari, dopo cena saliamo insieme fino alla stalla. Lui ha passato il pomeriggio a fare avanti e indietro dal bosco, riempire il rimorchio di rami secchi e ammucchiarli vicino a un grande masso. Ora ce n’è una catasta alta più di un metro. Verso le dieci ci versa sopra una tanica di benzina, poi appicca il fuoco che in pochi secondi divampa. Dalla stalla arrivano i sospiri delle mucche che si muovono nel sonno, dai prati il canto dei torrenti che nella notte scendono verso valle. Noi ci sediamo nell’erba a osservare i profili scuri delle montagne, cerchiamo altri falò come il nostro. Ne contiamo tre, quattro, cinque, alcuni a molti chilometri di distanza, in posti di cui nemmeno conosciamo il nome. Quelle fiammelle gialle e tremolanti dicono: io sono qui. E anch’io, anch’io, anch’io. Poi si fanno più flebili, si estinguono una per una. Anche da noi, per via del vento che soffia da sotto in su, le scintille si alzano come sciami di lucciole contro il cielo notturno, e in breve tempo tutto è ridotto a un mucchio di braci.
Nel salutarmi, Rambo mi presta un maglione che sa di stalla e mi dice: passa pure dai prati. È un grande onore quello che mi concede. A fine giugno l’erba è già alta e se la pesti poi è difficile da tagliare, e quando trovi un camminatore che va su in mezzo a un pascolo volano parole grosse. Ma si vede che questa è una notte speciale. Con il sentiero dovrei fare un ampio giro, per i prati invece arrivo giù dritto fino a casa: scendo al buio, allargo le braccia nel vento e sento le spighe della segale solleticarmi i palmi delle mani. Lanciandosi il loro richiamo rauco i caprioli si inseguono nel bosco.

sabato 2 luglio 2011

UN CUORE DA BAMBINO

Ma avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere, preferibilmente e saggiamente, con le probabilità a suo favore, ma in caso di necessità deve combattere anche contro qualunque probabilità e senza preoccuparsi dell'esito. Deve seguire i propri usi e le proprie leggi tribali, e quando non può, deve accettare la punizione prevista da queste leggi. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un'onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino.


Il 2 luglio di cinquant'anni fa, all'alba, il più grande scrittore americano del Novecento diceva addio al mondo. È una delle poche date che mi ricordo ogni anno. Ho idea che non scriverei come scrivo, anzi forse non scriverei per nulla, se il vecchio ubriacone non fosse passato per questa terra. Grazie di tutto Hem. Non vedo l'ora di bere un bicchiere e incrociare i guantoni con te.

domenica 12 giugno 2011

IL CAMPO DI FAGIOLI

Prima ho costruito la panchina. Ho tolto due grosse pietre squadrate dai resti della mulattiera e ci ho appoggiato sopra una tavola trovata nel bosco, grigia per tutta la pioggia e il sole che deve aver preso, le vene del legno in rilievo come sul dorso delle mani dei vecchi. Poi mi ci sono seduto sopra e ho letto il capitolo di Walden sul campo di fagioli: Cosa significasse questa regolare, orgogliosa, piccola fatica, io non lo sapevo. Giunsi ad amare i miei fagioli, sebbene fossero molti di più di quanti me ne occorressero. Mi attaccavano alla terra, e così ne ricevevo forza. Ma perché dovevo coltivarli? Solo il cielo lo sa. Questo fu il mio curioso lavoro per tutta quell’estate: far sì che questa porzione della superficie terrestre, che fino a quel momento aveva dato solo trifogli, more e fiori gentili, producesse invece legumi. Fare che la terra dicesse “fagioli” invece che “erba”: ecco il mio lavoro quotidiano.

Incantato dalle parole di Thoreau, ho osservato il pascolo che scende fino al torrente. Ne ho individuato un pezzetto quasi in piano sotto la fontana: è terra scura, argillosa, concimata ogni anno alla fine della stagione dell’alpeggio. Prende il sole dalle nove di mattina alle otto di sera, e l’acqua per irrigarla è lì a due passi. Così mi sono fatto prestare gli attrezzi e per due giorni l’ho zappata e rastrellata. Ho tolto pietre e strappato radici, scoprendo che quei fiori gentili hanno bulbi poderosi e inestirpabili, nascosti a grandi profondità per sopravvivere al gelo. Ho rivoltato le zolle e le ho sbriciolate con le mani. Poi sono sceso in paese a comprare le piantine: lattuga, spinaci, erbette, porri e coste. Per proteggerle da lepri e caprioli, ho perfino costruito uno steccato con quattro paletti di larice. Ci ho avvolto intorno una rete robusta, ed ero tutto contento di come stava venendo il mio orto di montagna, ma quando alla fine mi sono seduto a contemplarlo il fantasma di Thoreau è svanito, e mi è venuto in mente Il suonatore Jones di De André. Quel pezzo in cui dice che nei campi coltivati dorme la libertà. Di colpo, quelle sei gobbe di terra smossa mi sono sembrate tumuli sepolcrali. C’era la mia libertà seppellita lì sotto. E la libertà dei caprioli. E perfino la libertà del prato. Mi sono un po’ depresso, così ho messo via zappa e rastrello, ho preso il bastone e ho deciso di andarmene a camminare.

Era la prima volta quest’anno che salivo ai laghi e a un certo punto ho dovuto abbandonare il sentiero, perché tutto il versante in ombra era ancora innevato. Mi sono tenuto a sud risalendo i pendii d’erba morta. Nella valle non c’era nessuno: le nuvole basse, la minaccia di pioggia e il vento freddo avevano tenuto lontani i camminatori. Sono salito su un picco e finalmente ho visto il lago, coperto da uno strato di ghiaccio e circondato dalla neve. Da lì non potevo più proseguire. Allora mi sono sdraiato sull’erba e sono rimasto lassù, le mani sotto la nuca, a guardare le nuvole gonfie d’acqua. C’era un odore intenso di terra in disgelo. Sopra di me, i gracchi volteggiavano in stormi sugli alpeggi deserti: sono uccelli onnivori, che possono mangiare insetti, vermi, carcasse di mammiferi, rifiuti di cibo, e forse erano proprio questi che cercavano intorno alle case. Oppure i resti di qualche animale che non aveva superato l’inverno.

Scendendo ho deciso di ignorare il sentiero e andare giù dritto tra le balze d’erba. La montagna è zuppa d’acqua in questo periodo: ho attraversato una torbiera, sono sprofondato in una pozza e poi ho trovato di nuovo un nevaio. Però, con i piedi fradici e la neve che si infilava negli scarponi, ho sentito che stavo recuperando il buonumore. Infine sono capitato in una piccola radura popolata dalle marmotte. Mi ha accolto una selva di fischi e un fuggi fuggi generale. Ce n’era una che sembrava più coraggiosa delle altre: mentre le sue compagne correvano a rintanarsi nel primo buco disponibile, lei indugiava sulla soglia e mi guardava. Allora mi sono avvicinato piano, cercando di non fare movimenti bruschi. Quando sono arrivato a tre o quattro metri è sparita nel buco e io mi sono fermato, ho posato il bastone, mi sono seduto per terra. Ho pensato di cantarle una canzone, e siccome mi girava in testa da tutto il giorno ho scelto proprio De André: In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa. Sono bastati i primi due versi per vedere il suo muso rispuntare dalla tana: mi ascoltava, mi annusava, cercava di capire che razza di nemico ero. Io sono andato avanti a cantare: Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore; e allora perché coltivarla ancora, come pensarla migliore? La marmotta ogni tanto tornava sotto, ma più che altro stava lì e mi guardava. E questo chi è? Che cosa sta facendo? Libertà, l’ho vista dormire nei campi coltivati, a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Libertà, l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco. Gliel’ho cantata per tre volte di fila, e lei le ha ascoltate tutte. Poi mi sono alzato e la marmotta si è subito nascosta, ho preso il mio bastone e ricominciato a scendere a salti verso casa.

martedì 17 maggio 2011

TOPOGRAFIA

Il posto in cui abito è un villaggio fantasma chiamato Fontane. Occupo la prima di quattro baite allineate, la facciata rivolta a sud, la stalla al piano di sotto e la casa di sopra, sul colmo di una valletta erbosa percorsa da un ruscello senza nome. Dico fantasma perché le altre tre baite sono ruderi, e non ci vive nessuno. Una volta, quando questi alpeggi erano ancora in funzione, una mulattiera arrivava fin quassù dal paese. Era scavata nel terreno e delimitata da muretti a secco, perché le bestie che ci passavano non invadessero i pascoli altrui. In certi punti è ancora ben visibile, una trincea larga un metro che costeggia le quattro case di Fontane, affiancata ogni tanto da cumuli di pietre bianche, squadrate con mazza e scalpello dagli antichi pastori. Il ruscello là sotto, a cui si deve l’esistenza del villaggio, non si è meritato un nome per via della sua brevità: l’ho misurato a passi e non ne ho contati cento. Sgorga da una sorgente in mezzo al pascolo e si getta in un altro torrente poco più giù. Scorre tra l’erba alta su una ghiaia fine, dai riflessi bianchi e azzurri, incredibilmente simile al letto di un fiume. Accanto al ruscello, in corrispondenza di ogni baita, c’è una piccola costruzione in pietra. É la cantina in cui veniva portato il latte dopo la mungitura: l’acqua della fonte lo raffreddava facendo affiorare la panna, che poi sarebbe stata lavorata in burro. Ora nella mia cantina non ho i secchi del latte ma un compressore elettrico, che prende l’acqua dal torrente e me la pompa in casa. Benchè io mi lavi le mani e beva come qualunque uomo di città, cioè aprendo un rubinetto e dosando a mio piacere il caldo e il freddo, quando lo faccio mi ricordo sempre che l’acqua viene da lì, dalla ghiaia bianca e azzurra in mezzo all’erba alta, e nel suo sapore di notte mi sembra di sentire la brina.

Da molti secoli il terreno che ho intorno, ricco di sorgenti e ben esposto al sole, è stato disboscato, liberato dai sassi e terrazzato dov’era necessario, prima per coltivare la segale e pascolare le mucche, poi per le piste da sci. Fino agli anni Cinquanta era difficile trovare un albero da queste parti. Nelle vecchie cartoline i campi coltivati si spingono ad altezze oggi impensabili, e tutta la montagna ha l’aspetto di un prato ben curato. Poi, nel dopoguerra, è cominciato l’esodo dalle terre alte, e così il bosco ha riconquistato terreno. Succede anche adesso: bastano pochi anni senza fienagione perché in un prato spuntino i primi arbusti. In altre zone il rimboschimento è stato pianificato. Produrre legname era forse meno redditizio, ma anche molto meno faticoso che coltivare cereali o mantenere in ordine un pascolo. Il bosco di larici che ho vicino a casa è nato allora: sono alberi giovani, di una cinquantina d’anni o poco più, diradati in modo che in mezzo continui a crescere un po’ d’erba per le bestie. Infine, tra gli anni Settanta e Ottanta, una parte degli stessi alberi è stata abbattuta, per fare spazio alle piste che tagliano i fianchi della montagna come scie di valanghe. Sono comparsi i piloni degli impianti e certi pendii accidentati sono stati spianati e seminati a erba, e così il luogo ha assunto più o meno le sembianze che ha ora. Perché mi sono avventurato in questa ricostruzione? Perché certe volte ho bisogno di ricordarmi una cosa molto semplice: che il paesaggio che ho intorno, dall’aspetto così autentico e selvaggio, fatto di alberi, prati, acqua, sassi e sentieri, è in realtà il prodotto di molti secoli di lavoro umano, è un paesaggio artificiale tanto quanto quello di una città. Senza l’uomo, niente qui intorno avrebbe la forma che ha. Nemmeno il ruscello né certi alberi maestosi. Perfino il prato in cui sono seduto a scrivere sarebbe un bosco fitto, reso impenetrabile da tronchi e rami caduti, dai cespugli degli ontani intorno ai corsi d’acqua, dai massi coperti di muschio e aghi di larice, da un sottobosco folto di ginepro, mirtillo e radici intricate.

Così le mie esplorazioni nei paraggi hanno spesso il carattere di un’indagine, il tentativo di comprendere che cos’è successo qui prima di me. È come il lavoro del geologo, che nella forma e qualità delle rocce legge una lunga storia fatta di glaciazioni, alluvioni, eruzioni e scosse della terra. Meno romanticamente, raccolgo rifiuti. Un vecchio secchio di legno marcio e mezzo sepolto nel letamaio, una serratura arrugginita. La storia che interessa a me è tutta umana: perché, per esempio, la baita dietro la mia ha quell’ampliamento su un lato? Forse le cose a un certo punto sono andate meglio, e la famiglia ha avuto bisogno di una stalla più spaziosa? È la più grande di tutte, ma anche la più spartana. Finestre minuscole, tre tavole sconnesse a fare da balcone. La terza baita, misteriosamente, ha la pianta invertita, e la facciata rivolta a nord. Anche qui ci dev’essere un motivo: questioni di confini da rispettare, i soliti litigi tra vicini? La quarta baita infine è la più curata, forse anche la più recente. Ha un balconcino con qualche tentativo di decorazione, i vetri alle finestre e perfino l’intonaco sui muri esterni. Un impasto grezzo, con qualche gobba qua e là, di un bianco sporco che mi piace molto. Fuori ci sono due piccoli recinti addossati alla casa, per le galline o i conigli o qualche altro animale domestico. Siccome il villaggio è disposto in leggera salita, la baita bianca domina dall’alto quella girata all’incontrario, quella con la stalla grande e la mia, che in compenso gode di un panorama senza ostacoli.
Osservandole a volte mi chiedo: ci sarà stato davvero un tempo in cui Fontane era un villaggio abitato? Con le sue quattro case riscaldate dal fuoco, le bestie nei pascoli qui intorno, i ragazzini, i cani, le galline? Oppure è un’età del sogno che non è mai esistita se non nelle storie? Nessuno, nemmeno i vecchi del paese, ricorda la montagna a quell’epoca. Quando loro erano bambini, i campi erano già abbandonati e gli uomini cercavano lavoro in pianura. Erano i vecchi di questi vecchi a raccontare di quando la montagna assomigliava a un giardino fiorito, abitato da un popolo laborioso, e chissà poi se non erano anche quelli racconti di racconti. Ho l’impressione che il presente, quassù, da molto tempo sia un mucchio di cocci che non è più possibile rimettere insieme. Si può solo girarseli tra le mani e immaginare a che cosa servivano, come succede a me quando smuovo una pietra e ci trovo sotto una vecchia lattina contorta: una lattina di birra, di quelle con la linguetta che si staccava, come non se ne vedono più da vent’anni.

Anche se fa un po’ ridere, ognuna delle quattro baite ha il suo numero civico. A un certo punto qualche funzionario comunale deve aver ricevuto il compito di registrare tutti gli edifici, e così capita di andare a camminare in montagna, sbucare in una di quelle magre radure in mezzo alle pietraie, scorgere un rudere con il tetto crollato e trovare sopra la porta la targhetta con il numero. Il mio è l’uno. Un giorno o l’altro scenderò in pianura e mi spedirò una cartolina, frazione Fontane numero uno, e poi tornerò qui ad aspettare il postino che arranca su per il sentiero. La baita con la stalla grande ha il numero due, quella girata all’incontrario il tre, quella bianca il quattro. Ma lì ci abitano solo i ghiri, i tassi e i topi che sento muoversi quando mi avvicino. Sono io la popolazione. Rappresento, allo stesso tempo, l’abitante più in vista e quello caduto in rovina, il nobile possidente, il fedele custode, il servo della gleba, l’ubriacone, l’eremita, lo scemo del villaggio, il vecchio saggio e il giovane sprovveduto, il sovrano e il suddito del mio regno: ho così tanti me tra i piedi che a volte la sera esco, e vado a fare un giro nel bosco per stare un po’ da solo.

sabato 30 aprile 2011

CASE A PRIMAVERA

C’è una specie di commozione nel riaprire una casa a primavera. Spalanco stanze rimaste chiuse per sei mesi, con il gelo come unico padrone e gli abbaini oscurati dalla neve. Passo un dito sul tavolo, la sedia, la mensola, su cui si è posato uno strato di polvere, come la cenere vecchia che ho dimenticato nel camino. Avranno un modo, le case, per sentire il tempo che passa? O un inverno per loro vale come un istante? Ripenso al mattino grigio d’inizio novembre in cui ho sollevato lo zaino e chiuso le imposte per l’ultima volta, dando una lunga occhiata a tutto. Oggi il senso del ritorno non è la vista ma l’olfatto, è questo profumo di legno e resina che mi rassicura di essere di nuovo a casa. Le ho chiesto: è stato molto duro l’inverno? L’ho immaginata gemere e scricchiolare nelle notti di gennaio, quando la temperatura è scesa oltre i venti sotto zero, e poi godere del pallido sole di marzo, i muri tiepidi, la neve che gocciolava nelle grondaie. Se il fine di una casa è quello di essere abitata, forse prova una sua forma di felicità nel sentire di nuovo un uomo che va avanti e indietro con la legna, accende il camino e la stufa, si lava le mani in cucina e così quest’acqua fatta di neve e roccia ricomincia a circolare nei muri come linfa in un albero, il fuoco come sangue in un corpo.

In un racconto che amo molto, intitolato Le mie quattro case, Mario Rigoni Stern ripercorreva le età della sua vita attraverso le case abitate. Non tutte erano case reali: si abita una casa anche nell’atto di immaginarla, descriverla, disegnarla. La prima era una casa perduta: la dimora storica degli Stern, vecchia di quattrocento anni e andata distrutta durante la Grande Guerra. Lui la conosceva grazie ai racconti degli anziani, ma non l'aveva mai vista con i suoi occhi. Era il luogo in cui rimpiangeva di non essere nato. La seconda era una casa reale, quella della giovinezza, piena di angoli segreti come sono le case in cui siamo stati bambini: con le storie ascoltate in cucina, la soffitta eletta a rifugio e terra di avventure. La terza era una casa immaginaria: prigioniero nel campo di concentramento, nel ’45, il Sergente aveva trovato un foglio e una matita e trascorso lunghi giorni di fame e gelo a progettare una baita. La immaginò in una radura di montagna dove avrebbe vissuto di caccia, libri e solitudine, a curarsi dalla guerra, come il Nick Adams di Hemingway nel Grande fiume dai due cuori. Quel disegno lo protesse a lungo dalla disperazione. La quarta era la casa che costruì davvero, e in cui visse per cinquant’anni, con il bosco davanti alla finestra, le arnie delle api, i prati su cui pascolavano i caprioli, l’orto e la legnaia, con mia moglie, i miei libri, i miei quadri, il mio vino, i miei ricordi. Immagino che dia una grande pace, vivere in una casa fatta con le tue mani. Quella in cui vivo io è stata costruita dai pastori, un paio di secoli fa, per ospitare bestie e uomini durante la stagione dell’alpeggio, e ricostruita dal mio amico Remigio all’inizio del secolo nuovo, per onorare una sua promessa privata. È una casa infestata dai fantasmi ma non fa paura: è un po’ come abitare insieme a tutti quei montanari, conoscerli attraverso il paesaggio e la forma delle cose.

La casa dove, da bambino, ho messo le radici in queste montagne, era nata come albergo nel 1855, ma quando ci ho abitato io era ormai in rovina. Ho trovato alcune cartoline in cui è ritratta la sua età dell’oro. Sorgeva fuori dal paese, a 1400 metri di quota. Per arrivarci si risaliva un viale costeggiato da due file di faggi, che nelle foto erano poco più che arbusti ma nei miei ricordi sono alberi secolari. Sui prati in cui correvo, cent’anni prima i gentiluomini giocavano a croquet, mentre le dame passeggiavano reggendo ombrellini da sole. Sull’intonaco scrostato della facciata, una targa di marmo ricordava l’estate in cui all’albergo aveva soggiornato la regina. L’officina del meccanico era stata la sala da ballo, e il suo tetto invaso dalle erbacce la terrazza coperta, in cui si serviva il tè nel pomeriggio. La messa del mattino veniva celebrata in una piccola cappella che spiavo attraverso le fessure del portone. Tutto, intorno a me, portava i segni di una nobiltà decaduta, una lunga storia le cui tracce si sovrapponevano confuse. L’albergo aveva funzionato fino agli anni Trenta, ma era stato saccheggiato dai tedeschi durante la guerra e venduto subito dopo. Ai miei tempi aveva ormai l’aspetto di un glorioso maniero diroccato: apparteneva a due sorelle ricche e anziane, che non avevano alcun interesse né a cederlo, né a rimetterlo a posto, ma l’avevano suddiviso in alloggi e ci guadagnavano qualcosa con gli affitti dell’estate. Per gli altri dieci mesi restava chiuso. Mancando la manutenzione, ogni inverno subiva nuovi danni. Le nevicate del 1986 gli diedero il colpo di grazia: una valanga travolse una parte dell’edificio distruggendola, e un’intera ala fu dichiarata pericolante. Sui muri rimasti in piedi, l’estate successiva erano comparse grosse crepe, e negli anni le ortiche prosperarono sulle macerie che nessuno aveva rimosso. Ma io, più che la rovina, ricordo lo stupore di trovare la neve all’inizio di luglio, così alta, ghiacciata e dura da diventare uno scivolo per gli slittini. Restò per sempre l’anno della valanga.
Arrivare dalla città era come entrare in un’altra epoca. Un tempo in cui le case avevano scale e pavimenti di legno, grandi sale da bagno con vasche in ferro smaltato, stufe a legna per preparare la cena. Sul soffitto, nella mansarda in cui dormivo, c’erano incisi due nomi femminili. Angela e Maddalena. Sapevo che, ai tempi dell’albergo, in quelle stanze alloggiava la servitù: così mi chiedevo se Angela e Maddalena fossero due cameriere d’inizio secolo, al servizio di qualche dama di corte, oppure due ragazze non molto più grandi di me, passate di lì pochi anni prima.
Non so se le case abbiano un’anima ma io in quella ho lasciato un bel pezzo della mia: ci ho abitato per una ventina di estati, due mesi all’anno, dal 1979 in poi. Con la fine del Novecento è arrivata anche quella del vecchio albergo: venduto, demolito e ricostruito per farne un edificio identico, ma nuovo. Così di quel luogo, come scriveva Mario Rigoni Stern, sono rimaste ora solamente queste mie parole.

Nel pascolo qui di fronte la neve resta a languire in grandi chiazze ghiacciate, protette dall’ombra del bosco. Ogni giorno si riducono un po’: rivoli d’acqua corrono giù per il prato scoprendo una terra nera e umida, un’erba come bruciata. Uccellini dal ventre bianco e il dorso scuro stanno lì a becchettare il terreno ai margini della neve. Ho preso un libro per riconoscerli e sono quasi sicuro che siano fringuelli alpini: cercano larve d’insetto, c’è scritto, in quella terra intrisa d’acqua di fusione, e “nidificano nelle cavità delle rocce o sui muri delle baite”. Infatti uno di loro ha fatto il nido proprio sopra la trave di colmo della mia, in quel cantuccio riparato e buio tra la trave e il tetto. Vola avanti e indietro tra il prato e il nido e mi tiene compagnia mentre scrivo, seduto al tavolo davanti alla finestra.
Nel pomeriggio si alza una nebbia densa: la vedo arrivare dal fondo della valle, risalire il torrente e i prati e infine avvolgere tutto. Resto immerso in questa coltre bianca finché si fa buio. Niente luna né stelle stasera, ma una pioggia con dentro un po’ di neve che comincia a cadere quando vado a letto.
È difficile dormire, le prime notti, in una casa riaperta a primavera. I rumori non sono come gli odori, c’è bisogno di tempo per riabituarsi a loro. Con gli occhi spalancati fisso il soffitto e penso: questa è la brace che si consuma nel camino. Questo è il motore del vecchio frigorifero che parte. Questa è la pioggia sul tetto di pietra. E questi passi fuori, ai primi bagliori dell’alba, sono di un animale selvatico che viene in cerca di cibo. Se restano sul prato, potrebbe essere un capriolo. Se salgono le scale forse è la volpe. Più tardi controllerò le orme, ora mi volto dall’altra parte e provo a dormire.

martedì 12 aprile 2011

I SALICI CIECHI E LA DONNA ADDORMENTATA

Ho trovato un’altra bella raccolta di racconti: Haruki Murakami, I salici ciechi e la donna addormentata. Sono una ventina di storie scritte tra il 1983 e il 2005, cioè dai tempi dei suoi esordi fino a quelli della consacrazione. Di solito, nelle antologie di questo tipo, i racconti vengono presentati in ordine cronologico, e uno può leggerli anche per vedere come passa il tempo: in una vita di scrittura cambiano i personaggi, i luoghi, i temi delle storie; le pagine aumentano, la trama svanisce, la lingua si fa più complessa e l’autobiografia ingombrante, e ti accorgi che scrivere, per quella persona lì, anziché semplice è diventato sempre più complicato. Con Murakami non succede. Nel libro ha deciso di mischiare le carte, così capita di leggere un racconto del 1983 dopo averne letto uno del 2002, e di non accorgersi del tempo che li separa. La prima caratteristica della raccolta a me sembra questa: la fortissima coerenza che la tiene insieme. Come se lui avesse sempre saputo che cosa voleva scrivere, e abbia continuato a farlo per vent’anni.
Che tipo di racconti sono? Murakami una volta ha detto: Fino a quando non ho incontrato Raymond Carver, non c'era mai stata una persona che, come scrittore, potessi considerare il mio mentore. È stato senza dubbio l'insegnante più prezioso che abbia mai avuto, oltre che il mio migliore amico letterario. La letteratura produce amori imprevedibili. Lo sapevate che, per molti anni, l’Italia e il Giappone sono stati i paesi in cui i libri di Carver hanno avuto più successo? Anche i racconti di Murakami parlano di persone comuni e della loro segreta disperazione, dei piccoli miracoli con cui la vita quotidiana li sorprende. Il mio preferito si intitola “Tony Takitani”: è la storia del figlio di un jazzista giapponese innamorato dell’America, di sua moglie ammalata di shopping compulsivo, dell’enorme cabina armadio in cui naufraga il loro matrimonio. Poi, a volte, il soprannaturale fa irruzione in queste esistenze ordinarie: un uomo sparisce misteriosamente, inghiottito dal proprio condominio; una cameriera consegna la cena in camera a un vecchietto eccentrico, che la ricambia offrendosi di realizzare un suo desiderio; un custode notturno incrocia la propria immagine allo specchio, e si accorge che quella persona non è lui. La presenza minacciosa del destino, l’ossessione per le coincidenze, mi hanno fatto pensare spesso a Paul Auster. È strano leggere uno scrittore giapponese come se fosse americano? Nel caso di Murakami penso di no. Ha gestito per anni un locale jazz a Tokyo, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti, è il traduttore di Carver, Capote, Fitzgerald e Salinger, e quella tradizione risuona nelle sue storie. È la prova vivente di una mia convinzione: ogni scrittore ha il diritto di scegliersi i suoi maestri, ed è un legame senza patria e senza tempo. Ecco un piccolo brano illuminante dal racconto “Birthday Girl”.

“Posso farti una domanda?”, dissi. “Anzi, a dir la verità le domande sarebbero due”.
“Prego”, mi incoraggiò lei. “Me lo immagino cosa vuoi sapere. Prima di tutto, che desiderio ho espresso quel giorno”.
“Però mi è parso che tu non avessi voglia di dirlo”.
“Ti ho dato quest’impressione?”
Annuii.
Lei posò la barchetta di carta e strinse gli occhi, come se volesse guardare lontano.
“Quando si esprime un desiderio, non bisogna rivelarlo a nessuno”.
“Non ho intenzione di obbligarti a farlo. Quello che vorrei sapere, innanzi tutto, è se sia stato esaudito o meno. E poi se ti sei mai pentita di aver scelto, quella volta, quel desiderio lì. Qualunque cosa fosse. Non hai mai pensato che avresti fatto meglio a trovarne un altro?”
“Alla prima domanda rispondo di sì, ma anche no. Ho ancora un bel po’ di anni da vivere davanti a me, e non posso sapere come andranno a finire le cose”.
“Era un desiderio che richiedeva del tempo?”
“Già”, disse la mia amica. “Era una cosa in cui il tempo aveva un ruolo essenziale”.
“E riguardo alla seconda domanda?”, chiesi.
“Qual era la seconda domanda?”
“Se ti sei mai pentita di aver scelto quel desiderio”.
Un breve silenzio. Lei mi rivolse uno sguardo distratto. Sulla bocca le affiorò l’ombra di un sorriso spento. Che mi fece capire che a un certo punto c’era stata una rinuncia.
“Adesso io sono sposata con un commercialista che ha tre anni più di me”, disse. “Ho due bambini, un maschio e una femmina. Un setter irlandese. Possiedo un’Audi e due volte alla settimana vado a giocare a tennis con le amiche. Questa è attualmente la mia vita”.
“Niente male, mi sembra”, risposi.
“Ciò che voglio dire”, proseguì in tono pacato, strofinandosi il lobo dell’orecchio, un lobo molto ben fatto, “ciò che voglio dire è questo: che una persona, qualunque cosa desideri, per quanto faccia, non  potrà mai diventare altro che se stessa. Tutto qui”.
Scoppiò in una risata. E quell’ombrà stentata di un sorriso che aveva sulle labbra di colpo si dileguò.

Haruki Murakami, I salici ciechi e la donna addormentata
Traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi 2010


lunedì 28 marzo 2011

FEDELTÀ

Esce in questi giorni un libro che ho letto, amato, tradotto (insieme alla mia amica Livia), curato, introdotto, e se sapessi disegnare avrei fatto anche la copertina, e sarei pure andato in giro a venderlo porta a porta. Si tratta di Fedeltà, l’ultima raccolta di poesie di Grace Paley, composta tra il 2000 e il 2007 e uscita subito dopo la sua morte. Tutto quello che avevo da dire su di lei si trova lì dentro, e in un capitolo di New York è una finestra senza tende, e nel primissimo post di questo blog, pubblicato ormai tre anni e mezzo fa. Forse posso aggiungere che io non sono un traduttore. All'inizio il compito mi spaventava un po’. Sono riuscito a portarlo a termine perché il libro è breve, perché Grace amava le parole semplici, perché ho avuto molto tempo e così ho potuto passare un anno della mia vita a tradurlo, più o meno una poesia a settimana. E poi perché è arrivata Livia a soccorrermi come un naufrago tra i flutti della lingua inglese. Sono poesie che parlano di amore, malattia, vecchiaia, donne, guerra, New York, fiori, genitori, bambini, America e boschi, e soprattutto sono le ultime pagine del diario di una grande donna. Il titolo Fedeltà ne riassume perfettamente il senso. L’alter ego di Grace Paley, protagonista di tanti suoi racconti, si chiamava Faith, fede, e ho meditato a lungo sulla differenza tra queste due parole. Fede e fedeltà. Credo che la prima guardi al futuro e la seconda al passato; che una si nutra di idee e sogni, e l’altra di esperienze e ricordi; che la fede sia per i giovani e la fedeltà per i vecchi. Grace Paley una volta disse: credo nella fedeltà alle mie idee originarie, è il modo che ho per oppormi alle mode imperanti. Copio qui la poesia che dà il titolo alla raccolta, ringrazio Marco per questo gran regalo che mi ha fatto e vi auguro buona lettura.

FEDELTÀ

Dopo cena tornai al
libro che stavo leggendo     ero
arrivata a pagina cento-
quaranta     ancora duecentoventi
pensavo quella
sera     mentre a cena
parlavamo con una giovane
coppia     della densa improbabile
vita del libro in cui mi ero accomodata
i personaggi ormai erano i miei compagni inquieti
li conoscevo     sapevo che sarei potuta
rientrare in quelle vite senza alcuna perdita
tanto solidamente le abitavo     ho scorso gli scaffali
alcuni libri così cari     mi erano mancati
mi sono allungata per prenderli
in mano     ho respirato due volte
pensavo all’accelerazione dei giorni
sì     avrei potuto rientrarci ma...
No     come potevo disertare tutta quell’altra vita
quei seminterrati di città
Abbandono     Come potevo essermi permessa
di pensare a mezz’ora di distrazione
quando la vita aveva pagine     o decenni da sfogliare
e tante cose stavano per accadere alle persone
che già conoscevo e quasi amavo

domenica 20 marzo 2011

IN LETTURA

Racconti, sempre racconti. Se gli editori italiani andassero avanti così, potrei anche non aprire più un romanzo in vita mia. L’uscita di raccolte vecchie e nuove, in questo periodo, segue alla perfezione i miei ritmi di lettore. Ne ho cinque sul comodino, oggi parlo delle prime tre.

Richard Yates, Bugiardi e innamorati (minimum fax). È la seconda e ultima raccolta di Yates, del 1981. Molto diversa dalla prima, Undici solitiduni, soprattutto per l’impressionante adesione dei racconti alla vita dello scrittore. Conoscendola un po’, sembra di leggere i capitoli di un’autobiografia: il rapporto infantile con la madre, artista frustrata e onnipresente; l’arruolamento nell’esercito appena in tempo per visitare Parigi liberata; il ritorno a New York, il lavoro nella pubblicità e il matrimonio; il nuovo soggiorno in Europa, questa volta a Londra, con il sogno di fare lo scrittore a tempo pieno; la crisi coniugale e la separazione; il periodo trascorso a Hollywood come sceneggiatore. Ma il valore del libro non è tutto qui. Almeno due racconti sono memorabili: “Bugiardi e innamorati” (quello ambientato a Londra, tra sogni letterari e sotterfugi sessuali) e “Addio a Sally” (quello ambientato a Hollywood, in cui per tutto il racconto aleggia lo spettro di Fitzgerald, ma io, chissà perché, ci ho sentito anche John Fante e il suo Arturo Bandini). Tolta l’ossessione materna, Yates dà il meglio di sé quando parla di coppie, e lì davvero sembra di sentir suonare un'orchestra: con la grancassa dell'attrazione sessuale, gli archi dell’amore romantico, i fiati del tradimento, del disamore e del distacco che sempre chiudono il concerto.

Harold Brodkey, Primo amore e altri affanni (Fandango). Brodkey è uno di quegli autori di culto scomparsi misteriosamente dalle nostre librerie. Io, almeno, questo libro lo cercavo da anni. È una raccolta di nove racconti del 1958, molti dei quali usciti in precedenza sul New Yorker. All’epoca suscitò entusiasmi, tanto che alcuni critici salutarono l’esordio di un nuovo maestro: solo che, dagli anni Sessanta, Brodkey si mise a scrivere un’opera sofferta e interminabile, migliaia di pagine intrise di nostalgia che gli valsero l’etichetta di “Proust d’America”, e che sarebbero uscite in parte come racconti (Storie in modo quasi classico, 1988), in parte come romanzo (The Runaway Soul, 1991, lungo quasi 900 pagine e inedito in Italia). Se volete saperne di più, c’è un bell’articolo di Fernanda Pivano nell’archivio storico del Corriere. Sembra che nel prossimo futuro Fandango ripubblicherà tutto quanto. Per ora, posso dire che i racconti soddisfano le attese. La raccolta è idealmente divisa in due parti: nella prima, quattro storie di ampio respiro tracciano un percorso di formazione tra infanzia, adolescenza e giovinezza; nella seconda, cinque storie brevi gravitano intorno a una stessa protagonista, Laura. A me sono piaciute soprattutto queste ultime. Più che Proust, sento risuonare le note di alcuni racconti “femminili” di Salinger.

The Paris Review: il libro della gente con problemi (Fandango). È la quarta antologia della Paris Review che Fandango pubblica, dopo due raccolte di interviste e una “bibbia” di cui ho già parlato un anno fa. In questo caso si tratta di racconti di varia lunghezza, dalle 5 alle 80 pagine. Che cosa posso dire, oltre che si tratta della migliore rivista letteraria d’America? Forse è il caso di fare alcuni nomi: Annie Proulx, Denis Johnson, Mary Robinson, Julie Orringer, Wells Tower, Miranda July. E dire che molti di questi racconti difficilmente usciranno in Italia in altra forma. A quanto pare, le antologie della Paris Review alla fine saranno otto: e io ho un piccolo scaffale di quaranta centimetri, tra il calorifero e il divano, che è già dedicato a loro. Tanto per farvi capire il valore di quella zona: sopra c’è lo scaffale con i libri sui pirati. La mia libreria è organizzata secondo un rigidissimo ordine sentimentale.

martedì 1 marzo 2011

DUE SCRITTORI AL DINGO BAR

(A settant'anni dalla morte, minimum fax pubblica tutte le opere di Francis Scott Fitzgerald in una collana speciale. I libri sono ritradotti da scrittori italiani contemporanei: Giuseppe Culicchia, Francesco Pacifico, Tommaso Pincio e Veronica Raimo. Altri hanno scritto per il sito di minimum un ricordo personale, e questo è il mio. Tutti i contributi si trovano qui. Un'ultima cosa: sono libri bellissimi, meritano il vostro scaffale migliore.)

Per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata o quali che fossero le difficoltà, o l’agio con la quale si poteva raggiungerla. Parigi ne valeva sempre la pena e qualunque dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.
(Ernest Hemingway, Festa mobile)

Si incontrarono al Dingo Bar di Montparnasse verso la fine di aprile del 1925, appena due settimane dopo l’uscita del Grande Gatsby in America. Per entrambi era stata una primavera fruttuosa. Il quartiere era il cuore degli anni folli, ci abitavano Picasso ed Ezra Pound, e il Dingo ospitava parecchi americani in esilio, perché stava aperto tutta la notte e si poteva parlare inglese. Seduti al banco bevvero champagne: Fitzgerald aveva ventotto anni e tre romanzi alle spalle, faceva vita da ricco tra la Costa Azzurra e Parigi, dilapidava in auto a noleggio e alberghi di lusso i compensi delle riviste newyorkesi; Hemingway non aveva un soldo, si era appena licenziato dal Toronto Star per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa, saltava i pasti e metteva da parte i risparmi per fare un giro alle fiere di Spagna in estate. Erano entrambi sposati da poco. Ernest aveva un figlio piccolo, Scott una bambina. Che cosa ci facevano a Parigi? Più che altro, bevevano e scrivevano. Al di là dell’oceano, nel 1920, era cominciata l’epoca del Proibizionismo, e l’Europa si era trasformata di colpo in un immenso bar a basso costo.
Ernest amava il vino. Aveva imparato ad amarlo in Italia, nelle osterie di Milano e Padova, mentre la gamba guariva dalle schegge di granata del Piave e lo spirito da tutti i morti che gli era toccato vedere. Beveva vino in grandi quantità e quest’abitudine, oltre al mondo là fuori che lo chiamava a gran voce, gli rese la vita impossibile una volta tornato a casa, perciò a ventidue anni trovò lavoro in un giornale canadese e si fece spedire a Parigi come corrispondente. Al vino, Scott preferiva di gran lunga whisky e champagne. Preferiva le strade di New York ai boschi del Michigan, la compagnia di gente elegante a quella di soldati e contadini, le macchine decapottabili ai treni. E al posto di tutte le infermiere, cameriere, indiane mezzosangue e ragazze di campagna di Ernest, lui aveva amato una donna sola, Zelda, la sadica, rapace, sfrenata e bellissima Zelda. In vita sua era stato a letto soltanto con lei. Una donna in grado di respingerlo quando era al verde, riprenderlo appena diventato famoso, trascinarlo in una giostra di balli e sbornie che ormai vorticava da cinque anni, attraverso New York, l’Italia, Londra, le ville di Long Island e quelle di Antibes e Juan-Les-Pins. Anche Ernest aveva girato l’Europa, ma sulle carrozze di terza classe. Sua moglie Hadley veniva da Saint Louis, la prima delle quattro ragazze del Missouri che avrebbe sposato in quarant’anni. Quell’inverno, alla Gare de Lyon, qualcuno le aveva rubato una valigia preziosissima, che conteneva tutti i manoscritti del marito compreso un romanzo mai più ritrovato. All’inizio era sembrata una tragedia, poi si sarebbe rivelata una fortuna. Ogni aspirante scrittore dovrebbe essere costretto, in qualche punto del suo apprendistato, a ricominciare da zero. Hemingway stava ricominciando da zero. Fitzgerald, al contrario, era sulla cresta dell’onda, anche se per soddisfare Zelda viaggiava troppo, spendeva troppo, beveva troppo e scriveva troppo poco.
Che aspetto avevano? In Festa mobile Scott è descritto senza pietà. Parlava solo lui quella sera. Aveva letto dei racconti di Ernest e ne tesseva le lodi. Aveva una cravatta inglese, i riccioli biondi ben composti, un nasino raffinato e le gambe corte. Del suo viso colpiva la bocca: che era delicata e sinuosa e, scrive Hemingway, in una ragazza sarebbe stata una bellezza, in un uomo diventava oscena. Dell’aspetto di Ernest veniamo informati in un altro libro, l’Autobiografia di Alice Toklas, le memorie di Gertrude Stein: era un giovane gagliardo, dall’attenzione sempre viva, lo sguardo furfantesco e le movenze di uno di quei barcaioli del Mississippi descritti da Mark Twain. Uno etereo, femminile, aristocratico, l’altro virile e selvaggio, entrambi affamati di vita e lontani da casa e già posseduti dall’alcol: ecco i due protagonisti della generazione perduta al loro primo incontro.
Stavano inaugurando una strana amicizia crudele. Ernest di Scott avrebbe disprezzato la debolezza fisica, l’ipocondria, la scarsissima disciplina, la schiavitù nei confronti di Zelda, l’arrendevolezza verso la narrativa commerciale, l’enorme spreco di talento che tutto questo costituiva ai suoi occhi; Scott di Ernest avrebbe adorato il coraggio, i ricordi di guerra, l’abilità nella caccia e nel pugilato, l’esperienza delle donne e del mondo. Entrambi avrebbero riconosciuto nell’altro un grande scrittore. Fu Scott a raccomandare Ernest al suo editor, Max Perkins, con queste parole: “Volevo parlarti di un giovane scrittore di nome Ernest Hemingway, che vive a Parigi e ha un brillante futuro. Io non aspetterei un minuto a farmi vivo con lui. È la persona che mancava”. Da parte sua, una volta terminata la lettura del Grande Gatsby, Ernest si ricredette completamente su quel damerino incontrato al bar. Il romanzo lo lasciò talmente ammirato che “quando lo ebbi finito capii che qualsiasi cosa facesse Scott, o qualsiasi contegno tenesse, dovevo abituarmi a considerarlo come una malattia, e che dovevo prestare a Scott tutto l’aiuto possibile e cercare di essergli amico”. Anche se poi non andò così.
Quella sera del 1925 pensavano di avere una vita davanti, ma non era vero. Come scrittori, si trovavano nel loro momento di grazia. Scott aveva appena scritto il suo capolavoro, Ernest l’avrebbe fatto nei cinque anni successivi: i racconti, Fiesta, Addio alle armi. Tutti i libri venuti dopo sarebbero stati peggiori, per un motivo o per l’altro. O forse per l’unico motivo che né l’alcol, né le lodi del mondo hanno mai aiutato nessuno a scrivere meglio, anzi: entrambi avrebbero rimpianto gli anni di Parigi e il loro tocco magico giovanile.
Per questo mi piace fermarmi qui, al Dingo Bar, nell’aprile del 1925, l’istante dell’incontro immortalato come in un quadro di Degas o di Toulouse-Lautrec, uno di quegli interni parigini del secolo precedente. Si intitolerebbe Les écrivains de Montparnasse. Oppure: Jeunes hommes au café. Oppure: Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald scrivono la storia.
Non potevano sapere questa e tante altre cose, e nemmeno a chi dei due sarebbe toccato comporre l’epitaffio dell’altro: “Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato e cancellato. Più tardi si rese conto delle sue ali danneggiate e comprese com’erano fatte e imparò a riflettere e non riuscì più a volare perché era scomparso l’amore per il volo e poté solo ricordarsi di quando volare non gli era costato il minimo sforzo”. Lo scrisse Ernest per Scott ma valeva per tutt’e due: per Fitzgerald, Hemingway e tutti quelli che una volta erano grandi scrittori, e poi sono diventati soltanto vecchie glorie dal talento perduto.