sabato 27 settembre 2008

LA PERSECUZIONE DEL RIGORISTA

E poi, visto che ho riletto L'amore e altre forme d'odio e mi è piaciuto così tanto, sono andato a cercarmi l'ultimo libro di Luca Ricci, La persecuzione del rigorista. Sempre Einaudi, questa volta un romanzo breve (ma Luca, in segreto, mi ha detto che posso considerarlo un racconto lungo. Possiede anche lui questa umiltà piena di orgoglio dello scrittore di racconti). Ho fatto una recensione al libro per Radio Popolare, ed eccola qui.

Un prete giovane e di buona famiglia, destinato alla carriera vaticana, viene mandato in punizione in una piccola parrocchia di campagna. È un paese spopolato dell’Appennino, in cui l’inverno del protagonista trascorre tra le confessioni delle fedeli più anziane e bigotte, l’assistenza a un ragazzo con problemi mentali, il rifornimento di chierichetti al vecchio parroco dai dubbi gusti sessuali. Il giovane prete è arrogante, disgustato da una vita di provincia impregnata di mediocrità e televisione. Eppure un giorno, accompagnando il ragazzo disabile agli allenamenti, il suo occhio acuminato cade sull’attaccante della squadra locale. Figlio di contadini, calciatore senza talento, l’uomo ha due qualità che lo attraggono: sembra essere un infallibile rigorista, ed è del tutto indifferente al proprio dono. Tira serie di rigori per niente eleganti, calciando rasoterra e di punta, eppure non sbaglia mai. Non manifesta tensione prima di tirare e non festeggia dopo che ha segnato. Il rigore è il suo gesto perfetto, la sua opera d’arte. Per il prete, l’esistenza di un uomo del genere diventa un’ossessione. È l’incontro con l’opposto da sé: l’opposto dell’intelligenza, del desiderio, della rabbiosa imperfezione della natura umana. È l’insopportabile manifestazione della grazia davanti a qualcuno che ha smesso di credere in Dio, o se n’è dimenticato. Come Salieri con Mozart nel film di Milos Forman, il protagonista comincia ad assistere in segreto a tutti gli allenamenti, a tutte le partite. Un rigore dopo l’altro. "Era come vedere un calcio di rigore per la prima volta”, dice. “Un calcio di rigore originario, anteriore all’invenzione dei calci di rigore. Mi dava qualcosa di cui avevo un bisogno forsennato, qualcosa che da troppo tempo avevo deriso dentro di me”. Alla fine, proprio come Salieri, il prete elabora il suo diabolico piano. Distruggere la perfezione. Sedurre il rigorista, ventilare l’ingaggio in una grande squadra grazie alle proprie amicizie influenti, vincere la sua totale indifferenza alla fama e ai soldi, trascinandolo giù a consumarsi nell’ambizione. Corrompere l’innocenza, inquinare la purezza. Dichiarare guerra a Dio e all’assurda forma in cui ha deciso di manifestarsi - un infallibile e inutilissimo rigorista di provincia.

L’aggettivo più usato per La persecuzione del rigorista, nelle recensioni apparse sulla stampa e in rete, è disturbante, come disturba uno specchio imprevisto, o qualcuno che ci guardava quando non pensavamo di essere osservati, e come sempre dovrebbe disturbare la letteratura. Accantonato il problema della fede, il prete di Ricci assolve in un modo tutto suo al compito di pastore d’anime: conosce i segreti degli uomini, li manovra usando le loro debolezze, li lusinga e li minaccia per condurli alla propria volontà, li domina come un gregge. Sembra un gioco, e invece è la pratica del potere: materia torbida che riempie l’involucro dei rapporti umani.

martedì 23 settembre 2008

L'AMORE E ALTRE FORME D'ODIO

Tanto per cambiare discorso, e passare dagli scrittori morti a quelli vivi, una decina di giorni fa ho conosciuto Luca Ricci. È un omone di quelli che ti immagini sempre con la camicia a scacchi, ha l’accento toscano e il vizio di dormire fino a tardi la mattina (dividevamo la stanza durante un seminario in Romagna, e ogni volta dovevo tirarlo giù dal letto gridando: Luca, lo scrittore si vede dal mattino!). Invece, pur essendo uno scrittore pomeridiano, a 34 anni Luca ha già pubblicato 4 libri. Io ne avevo letto solo uno, L’amore e altre forme d’odio, uscito per Einaudi un paio d’anni fa e vincitore del Premio Chiara 2007. È una raccolta di racconti che ricorda molto il lavoro di John Cheever. Coppie borghesi, villette a schiera, matrimoni che procedono stanchi ed eventi minacciosi che si insinuano sotto la cappa di conformismo, e a volte riescono a far saltare in aria la baracca. In più, nel libro, Luca coltiva le sue personali ossessioni. Tutti i racconti sono divisi in quattro paragrafi, a cui credo lui attribuisca una funzione narratologica (che a me sfugge). Tutti i racconti sono privi di nomi - l’io narrante è il marito, e gli altri personaggi sono mia moglie, mia figlia, il mio vicino. Tutti i racconti, in questo modo, sembrano variazioni di un unico tema: un uomo, una donna, un figlio, una casa, un ordine apparente che sta per andare a rotoli. L’effetto è potente, distruttivo. Luca la sa lunga sull’arte del racconto. Ecco le prove.

***

ANCORA DUE MINUTI

Mia moglie ci raggiunse quasi subito. Io non sapevo più che dire. Era come se mi fossi mangiato la lingua. Mi dette un’occhiata che sulle prime non seppi interpretare. Ma c’era gioia nei suoi occhi, di questo ero sicuro.

- Prendete quello che vi pare.

Le ragazze rimasero sedute. Quasi certamente qualcuna di loro aveva già visto qualcosa che le sarebbe piaciuto, ma nessuna si azzardò a dire niente.

- Avanti. C’è tanta di quella roba qui dentro.

Per prima cosa tirai giù dagli scaffali i peluche. Orsetti, giraffe e maialini. Poi mia moglie aprì l’armadio. Le ragazze impazzirono. Cominciarono a staccare dalle grucce vestiti e giacche e camicette. Confrontavano le misure: quello che non andava bene a una andava bene all’altra.

- Ma avete una figlia?

- La roba era di nostra figlia, sì.

La frenesia delle ragazze si tramutò subito in un dubbio. Mi avvicinai a mia moglie con fare scherzoso.

- Così crederanno che sia morta.

Mia moglie si mise a ridere, mentre le ragazze ci fissavano. Avevano perfino smesso di passarsi i vestiti.

- Non preoccupatevi. Nostra figlia sta benissimo. Si è dovuta trasferire dopo le prime udienze.

- E non li vuole più questi vestiti?

- Ormai porta solo tailleur.

- Davvero? Allora possiamo prenderli?

- Ma certo. Anche i peluche.

- Non sono ricordi d’infanzia?

- Li ha sempre odiati. Più che altro sono ricordi dei suoi genitori.

A poco a poco le ragazze ripresero coraggio. Infilarono le cinture nei pantaloni e i braccialetti nei polsi. Liberarono i buchi dai vecchi orecchini e chiesero a gran voce un calzascarpe.

Mettemmo le cose che le ragazze avevano scelto dentro alcune buste di plastica, e le accatastammo in corridoio.

- Forse è meglio andare.

- È tardi?

- Non vogliamo disturbare troppo.

Mia moglie, che fino a quel momento mi era sembrata padrona della situazione, ebbe un piccolo sussulto. Si guardò intorno.

- Rimanete altri due minuti. Non abbiamo ancora visto quei cassetti.

Le ragazze si voltarono in direzione del mobile che mia moglie stava indicando. Sapevo che c’era la biancheria e allora mi feci da parte. Cominciarono con i collant. Una delle ragazze mi rivolse uno sguardo più insistito delle altre. Socchiusi la porta e mi ritrovai in corridoio insieme alle buste di plastica. Incominciai a origliare.

- Sono tutti coordinati.

- Queste mutandine con cosa vanno?

- Con questo reggiseno a balconcino, vedi?

Mia moglie continuava a parlare ma le ragazze erano meno partecipi. Sentivo solo la voce di mia moglie e un frusciare di stoffe.

- Guardate questa sottoveste di seta.

- È bella. Però...

- Però?

- Sono indumenti troppo personali, troppo intimi.

- Ma no. Meglio a voi che in un cassetto.

- Non viene proprio mai vostra figlia?

- Ogni tanto. Ogni tanto mi compare anche in sogno.

Accostai l’orecchio alla porta per sentire meglio. Mia moglie tirò fuori tutto quel che rimaneva. Una delle ragazze se ne uscì con una risata nervosa. Così no, non l’avrebbero bevuta.

***

Luca Ricci, L'amore e altre forme d'odio, Einaudi 2006

lunedì 15 settembre 2008

STOP WRITING

Ho avuto pensieri strani alla notizia della morte di David Foster Wallace. Il primo riguarda il metodo che ha scelto: l’impiccagione è una forma di suicidio molto razionale. Richiede intelligenza. Non è come spararsi un colpo in testa, né inghiottire una manciata di pastiglie, né fare un passo nel vuoto: non è questione di un momento di follia o disperazione. Bisogna trovare la corda (andare nel ripostiglio, frugare tra le scatole). Bisogna capire dove appendere il cappio (non è che tutti i soffitti abbiano una trave sporgente). Bisogna ricordarsi il nodo scorsoio (l’ultima volta l’abbiamo fatto da bambini). Insomma è un gesto che contiene una storia: sarà per questo?

(E quando hai scritto l’ultima riga, messo l’ultimo punto in fondo all’ultima frase, l’avrai saputo che erano gli ultimi? C’erano idee che hai lasciato lì, cose che ormai era troppo tardi per scrivere? E poi, sul tuo sgabello, un attimo prima di calciarlo via, da qualche parte della tua mente sprofondata nelle tenebre sarà comparsa quella lista. Virginia Woolf: acqua. Ernest Hemingway: fucile. Vladimir Majakovskij: pistola. Yukio Mishima: spada. Emilio Salgari: rasoio. Cesare Pavese: sonniferi. Sylvia Plath: gas. Da domani ci sarà un’altra voce nell’elenco. David Foster Wallace: cappio. Da domani tutto quello che hai scritto, i saggi sulla matematica dell’infinito, il romanzo da mille pagine incendiarie, quei tuoi racconti pieni di ragazzini, diventeranno un unico, lunghissimo biglietto d’addio.)

Scrittori suicidi. Sarà colpa della scrittura o eri già segnato prima, e ti sei messo a scrivere soltanto per ritardare quel momento? Io ho pensato che non ne so niente. Chi potrebbe avere questa presunzione, credere di sapere che cosa ti è successo? Poi ho pensato che invece lo so, perfettamente.

***

È TUTTO VERDE

Lei dice non m’importa se mi credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente. Quando è la verità si fa in quattro per cercare di farti credere a quello che dice. Perciò sento di non avere dubbi.
Si rasserena e guarda dall’altra parte, lontano, ha l’aria furba con la sigaretta sotto la luce che entra dalla finestra bagnata, e io non so cosa mi sento di dire.
Dico Mayfly, con te non so più cosa fare o cosa dire o cosa credere. Ma ci sono delle cose che so per certe. So che io sto diventando vecchio e tu no. E che ti do tutto quello che ho da darti, con le mani e con il cuore. Tutto quello che ho dentro di me l’ho dato a te. Tengo duro e lavoro sodo ogni giorno. Ho fatto di te l’unica ragione che ho per fare quello che faccio sempre. Ho cercato di costruire una casa per te, una casa di cui facessi parte, e che fosse una bella casa.
Mi rassereno anch’io e getto il fiammifero nel lavandino insieme ad altri fiammiferi, piatti, una spugna e cose del genere.
Dico Mayfly il mio cuore ha fatto il giro del mondo e ritorno per te ma ho quarantotto anni. È ora che la smetto di lasciarmi semplicemente trascinare dalle cose. Devo usare quel po’ di tempo che ancora mi resta per cercare di sistemare tutto e stare bene. Devo provare a stare come ho bisogno di stare. In me ci sono delle esigenze che tu non riesci neanche più a vedere, perché ci sono troppe esigenze tue di mezzo.
Lei non dice nulla e io guardo la sua finestra e sento che lei sa che io so, e seduta sul mio divano fa un movimento. Ripiega le gambe sotto di sé, ha un paio di pantaloncini.
Dico in fondo non mi importa di quello che ho visto o credo di aver visto. Non è più quello il punto. So che io sto diventando vecchio e tu no. Ma ora mi sento come se ci fosse tutto me stesso che va verso di te e in cambio non mi viene più niente.
Ha i capelli tirati su con un fermaglio e delle forcine e si tiene il mento con la mano, è mattina presto, sembra che stia sognando rivolta verso la luce pulita che entra dalla finestra bagnata sopra il mio divano.
È tutto verde, dice. Guarda come è tutto verde Mitch. Come fai a dire di provare certe cose quando fuori è tutto così verde.
La finestra sopra il lavello del mio cucinino è stata ripulita dal violento acquazzone di stanotte e ora è una mattina di sole, è ancora presto, e fuori c’è un casino di verde. Gli alberi sono verdi e quel po’ d’erba che c’è oltre i dossi artificiali è verde e liscia. Ma non è tutto quanto verde. Le altre roulotte non sono verdi e il mio tavolino lì fuori con le pozzanghere allineate e le lattine di birra e le cicche che galleggiano nel portacenere non è verde, né il mio furgone, o la ghiaia della piazzola, o il triciclo che sta rovesciato su un fianco sotto un filo per il bucato senza bucato accanto alla roulotte vicina, dove c’è uno che ha fatto dei bambini.
È tutto verde sta dicendo lei. Lo sta sussurrando e il sussurro non è più rivolto a me, lo so.
Getto la sigaretta e volto le spalle al mattino con il sapore di qualcosa di vero in bocca. Mi volto verso di lei che sta sul divano in piena luce.
Da dov’è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c’è qualcosa in me che non si riesce a chiudere, nel guardarla. Mayfly ha un corpo. È lei la mia mattina. Dite il suo nome.

***

David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax)