mercoledì 31 dicembre 2014

PRIMO AMORE E ALTRE MISERIE

Dei racconti che ho letto quest'anno, chissà perché, le tre raccolte più belle arrivano tutte dal passato. Starò mica diventando un nostalgico anch'io? Una è La nostra storia comincia di Tobias Wolff (Einaudi 2014). Era da tempo che aspettavo questa antologia, uscita in America nel 2008 ma composta dai racconti di una lunga carriera: ovvero quelli di In the Garden of the North American Martyrs (1981), Back in the World (1985) e The Night in Question (1997), benché l'ultima raccolta in italiano esista già e i lettori come me la conservino tra i libri speciali. Wolff è stato un buon amico di Carver, uno dei pochi (Ray da bravo alcolizzato se n'era giocati parecchi). C'è una foto in cui compaiono entrambi insieme a Richard Ford, nel 1985 o giù di lì: erano scrittori di racconti - un genere che in quel momento, strano a dirsi, andava di gran moda - venivano dagli stessi posti e scrivevano storie crude, tanto che qualche critico aveva coniato per loro la definizione di dirty realism, realismo sporco. Nel libro in cui quella foto compare, Carver parla di Ford e di Wolff come dei suoi migliori amici. Lui era già famoso, gli altri due avevano esordito da poco. Tutt'e tre sorridevano in occasione di qualche evento letterario - Carver con gli occhiali e un vestito grigio troppo abbondante, goffo e fuori posto come al solito; Ford con i capelli lunghi, unti, le guance scavate, quella faccia da rapinatore di farmacie; Wolff con i baffoni e la pelata da zio buono, anzi da zio sbirro -  e Ray infine aggiungeva: chissà dove saremo tra vent'anni. Ora che gli anni passati non sono venti, ma trenta, lo sappiamo dove sono quei tre: Carver è morto da un pezzo e abita ormai nel paradiso dei classici, Ford è un pezzo grosso della letteratura americana, Wolff invece si è defilato. Non so perché. In questi trent'anni ha pubblicato un memoir, due romanzi brevi e i racconti contenuti in questo libro. Di cosa parlano? Soprattutto di vigliaccheria, secondo me. E poi dello strumento dei vigliacchi, che è la bugia. E poi di ciò che insorge quando la bugia è smascherata: la vergogna. Molti racconti sono ambientati nell'esercito (Tobias Wolff ha fatto per anni il soldato di professione), molti altri nei college universitari (dove tuttora insegna). Non avrei timore nel definirli racconti morali, nel senso che si interrogano - ci interrogano - su questioni come l'onestà, la responsabilità, il senso del dovere; al loro centro c'è il momento in cui, potendo scegliere, decidiamo se farci avanti o sottrarci, se salvarci la pelle o rischiarla per la pelle di un altro, e quella scelta definisce chi siamo. Viene sempre citato Carver parlando di scrittori di racconti americani, ma qui Carver c'entra poco: il parente più stretto di Wolff secondo me è Richard Yates. Io che organizzo la mia biblioteca secondo questi legami li ho messi uno accanto all'altro sullo scaffale.

Il secondo libro s'intitola Uomini e comandanti (Einaudi 2014) ed è di Giulio Questi, che cominciò a scriverlo negli anni Quaranta e lo finì mezzo secolo dopo. Di anni ne aveva diciannove quando andò partigiano sulle sue montagne - tra la val Brembana e la Valtellina - e ventiquattro quando scrisse i primi racconti, subito notati da Vittorini. Che avrebbe anche voluto pubblicarglieli, solo che poi Giulio Questi cambiò idea sulla propria vocazione, e da Bergamo se ne andò a Roma per fare cinema: aiuto regista, sceneggiatore, attore, e infine regista di spaghetti western e film sperimentali. Visse per un bel pezzo in Sud America, prima di tornare in Italia e lavorare per la televisione. Infine, negli anni Novanta, decise di riprendere quei racconti giovanili, ne scrisse qualcun altro, li raccolse e stampò in proprio qualche copia da regalare agli amici. Non aveva più ambizioni letterarie, a settant'anni suonati. Ce ne sarebbero voluti altri venti perché un editore venisse a conoscenza delle sue storie e le pubblicasse in questo gran bel libro: che parla di partigiani impauriti, smarriti, affamati; di comandanti sbandati da eliminare e comandanti nostalgici a cui disobbedire e comandanti coraggiosi come eroi; di rastrellamenti e imboscate ed esecuzioni; di montagne e montanari. Giulio Questi scriveva con crudezza e ironia. Con una scrittura esperta, allenata a osservare e ascoltare, insieme raffinata e scarna (del resto è sempre così: meno parole usi, più attentamente le scegli). Aveva conosciuto Fenoglio prima che morisse - volevano fare un film da Una questione privata - e non credo che Fenoglio si rivolti nella tomba se dico che Uomini e comandanti mi ha ricordato proprio I ventitré giorni della città di Alba: sono racconti che dialogano tra loro, hanno la stessa amarezza e la stessa ironia, stanno bene insieme. È bello che questo libro infine esista, sarebbe stata una gran perdita se fosse andato smarrito in qualche cassetto o solo nella memoria di chi l'ha scritto. Forse lo pensava anche Giulio Questi, che ha aspettato settant'anni a pubblicarlo ed è morto subito dopo, nel sonno, in pace, alla fine di una lunga vita avventurosa, appena un mese fa.

Infine: sapete cos'è, per un lettore, il ritorno di fiamma? È quella cosa che nella vita non dovresti mai fare, innamorarti un'altra volta di una ragazza che ti ha già fregato in passato. Per il lettore funziona più o meno allo stesso modo: eri convinto di essertela lasciata alle spalle, quella roba che leggevi da giovane, e ripensavi a lei con l'occhio lucido ma anche con un sorriso d'indulgenza, come a dire: sono cose da ragazzi. Invece poi t'imbatti in un libro come Knockemstiff, di Donald Ray Pollock (Elliot 2009), e ci sei di nuovo dentro fino al collo. Non so perché mi sia scappato quando è uscito, forse per il titolo così ostile: ma del resto è ostile anche il luogo da cui prende nome. Knockemstiff - detta anche il Buco - è una cittadina sperduta nell'Ohio meridionale, e il riferimento è proprio alla cara vecchia Winesburg e alla raccolta di racconti che ha fondato il Novecento americano.  Solo che Knockemstiff esiste davvero (anzi è esistita: ormai non è altro che un Buco fantasma), ha l'aspetto di un pugno di baracche e case mobili e i suoi abitanti non sono i contadini, i droghieri, gli osti e le massaie di Sherwood Anderson, ma gli alcolisti, i disoccupati, i rapinatori, i vagabondi, i tossici e le prostitute di Hubert Selby Jr., di Breece Pancake e di Denis Johnson, di cui Pollock mi sembra il degno erede. Sono racconti sporchi e cattivi, storie per stomaci forti. Parlano di violenza, di solitudine, di degrado fisico e morale, di vite dannate della cui esistenza preferiresti non sapere. A volte in quello schifo c'è un momento di grazia, a volte la grazia è tutta nella scrittura di Pollock: uno che a Knockemstiff ci è nato e cresciuto, e riesce a guardarci dentro e trovarci qualcosa di così umano da farci venire paura di noi stessi, di ciò che potremmo essere o forse di ciò che in segreto siamo. Era questa, la letteratura americana di cui mi sono innamorato una volta, e che mi lascia secco ogni volta che la ritrovo: libera e selvaggia e bella come un primo amore.

lunedì 22 dicembre 2014

ERBA SECCA, NIENTE NEVE

Se ho un autogrill preferito è solo per un motivo: vende birra tedesca in confezione da sei e la vende a metà prezzo. Si trova ai piedi delle montagne, sull'altro lato delle due cime gemelle che vedo da casa mia, e che da quaggiù sembrano due altissime sentinelle. Le guardo tornando alla macchina nell'aria secca e pulita. La nebbia della pianura si è diradata già qualche chilometro fa, insieme alla mia febbriciattola di stamattina: sono entrambe lontani ricordi quando riavvio il motore, butto le birre sul sedile del passeggero, ne stappo una imboccando di nuovo l'autostrada. Un po' di schiuma mi cola sui jeans che dovrei lavare. Salute, dico alle montagne gemelle. La birra è tiepida, pastosa. Stringo la lattina tra le cosce mentre accelero fino ai centotrenta. Lucky sul sedile dietro si agita e guaisce d'impazienza, ha capito già da un pezzo dove andiamo.

Arrivo in paese che sono appena passate le cinque. Ho ancora mezz'ora di luce e così, invece di entrare in casa, me ne vado a fare un giro. Non c'è neve se non molto in alto, ben oltre i duemila metri, e si vede che ha fatto caldo e ha piovuto: i prati sono verdi come alla fine dell'estate. Poi, via via che salgo di quota sul sentiero, cominciano a scolorire e seccare. Lucky è sparito fin dall'inizio, inseguendo chissà quale odore nel bosco, presenze che io non sono ancora pronto a percepire. Tornerà quando vuole lui, mi troverà lui. Raggiungo una vecchia baita proprio mentre la luce cala e viene notte; succede in pochi minuti in questo giorno più corto dell'anno. Così mi siedo su un muretto a secco. Accanto a me gorgoglia il filo d'acqua di una fontana. Oggi è il solstizio d'inverno e io gli rivolgo una preghiera: che sia pieno di amore, e di montagna, e di scrittura. So che è moltissimo quello che chiedo. Anche se non nevica fa niente. C'è già una bella stellata, e niente luna, quando torno con calma verso casa. Colgo nell'oscurità una macchia bianca che esce dal bosco, poi la macchia mi corre incontro ed è un cane ansimante, accaldato, felice, con i sensi all'erta e il fiato che esce in nuvole di vapore. Hai fatto una buona caccia?, gli chiedo. Lo annuso e sa di muschio. Lucky mi lecca la faccia e subito scappa via. Immagina, mi dico, immagina per un momento di essere lui: correre come un pazzo tra i rododendri spogli, le radici contorte dei larici, il ginepro che punge la pelle, al buio, rasoterra, inseguendo un odore, senza nemmeno sapere cos'è che ti chiama.

venerdì 24 ottobre 2014

A PESCA NELLE POZZE PIÙ PROFONDE

Ho cominciato a leggere racconti verso i sedici anni. Cioè, in pratica, quando ho cominciato a leggere per conto mio. I primi furono quelli di Bukowski: Storie di ordinaria follia, Taccuino di un vecchio porco, Musica per organi caldi. Adoravo il vecchio Hank come una rockstar, anzi un punk alcolizzato ed erotomane sopravvissuto fino alla terza età. Lo scrittore successivo a farmi secco fu Hubert Selby Junior, il tossico, il tubercolotico, con Ultima fermata a Brooklyn, e poi venne Dago Red di John Fante, quel figlio di immigrati abruzzesi che proprio Bukowski aveva salvato dall'oblio. Sono tortuose le vie che ti portano da un libro all'altro: allora la mia tecnica era quella di cercare gli scrittori preferiti dei miei scrittori preferiti - e in effetti funzionava. Mi piacevano gli americani per la loro lingua semplice, e per la vita che traboccava dai loro libri. Mi ero già accorto anche di preferire i racconti ai romanzi: avevo sedici anni e una fretta del diavolo, volevo storie che si potessero leggere tutte in una volta, ero impaziente di sapere come andavano a finire; dei romanzi saltavo le pagine per arrivare in fondo il prima possibile. Presto dentro presto fuori, per dirla con Carver. Lui era un altro che si annoiava subito: non mi fate annoiare, diceva, perché se no a pagina due scaglio il libro contro il muro. È il caratteraccio tipico del lettore di racconti.

Votandomi alla forma breve non sapevo che avrei avuto una vita così dura, ma lo scoprii molto presto. Le raccolte di racconti in libreria erano rare, ben nascoste negli scaffali più bui, destinate a tornare in fretta negli scatoloni. Quelle tradotte dall'americano risultavano misteriosamente manomesse: mancavano racconti dell'edizione originale, l'ordine era cambiato, il titolo irriconoscibile; un'antologia monumentale veniva spezzettata in libricini a cadenza incerta, che poi smettevano di uscire perché non li comprava nessuno. C'erano titoli fuori catalogo alla cui ricerca battevo biblioteche e mercatini delle pulci. Ricordo nitidamente il giorno in cui mia sorella mi procurò una vecchia edizione dei racconti di Cheever, scomparsa da anni, intitolata Addio fratello mio (eravamo andati a vivere in due case diverse, e il titolo le era sembrato benaugurante). O il ritrovamento miracoloso di una copia di Jesus' Son - l'esordio di Denis Johnson - tra i fondi di magazzino di una libreria di Torino. E poi gli anni passati a cercare Harold Brodkey, Primo amore e altri affanni, perché lo vedevo citato dappertutto ma i cataloghi Mondadori l'avevano depennato da un pezzo, finché non lo pescai incredulo al chiosco dei libri usati di piazzale Baracca. E ancora un numero di Panta del 1994, in cui venivano proposte alcune nuove voci della letteratura americana, e facevano il loro esordio da noi, tutti insieme, scrittori come Charles D'Ambrosio, Jennifer Egan, Jeffrey Eugenides, Donna Tartt, William Vollman, David Foster Wallace: prima di ogni racconto c'era una foto dell'autore a tutta pagina, e io stavo lì a fissare quei volti come fossero lontani amici di penna. Cosa stavano facendo adesso? Sarebbero mai diventati dei grandi scrittori, o il loro momento di gloria finiva lì? Wallace aveva la bandana in testa e quella sua aria da bambinone corrucciato. D'Ambrosio pescava trote sulla riva di un fiume impetuoso, e in quel momento scrivere sembrava proprio l'ultimo dei suoi pensieri.
Il racconto di Wallace in quell'antologia era il bellissimo Per sempre lassù. Quello di D'Ambrosio, Il suo vero nome, riusciva perfino a superarlo. Ogni tanto incontravo lettori - e se per questo li incontro ancora - che dichiaravano con noncuranza: "io non leggo racconti", come un amante della musica che si rifiuti di ascoltare il jazz. Abitavamo decisamente mondi diversi. Così cominciai a dire in giro, con la stessa aria di superiorità, che io non leggevo romanzi. Ed era vero. Ho letto davvero pochissimi romanzi in vita mia, ma ho una biblioteca di racconti che per anni è stata il mio orgoglio e la mia compagnia. Noi lettori di racconti facciamo una cosa che coi romanzi non si fa: la sera abbassiamo le luci, sfiliamo dalla biblioteca un vecchio racconto che abbiamo amato molto, lo mettiamo sul piatto e ci sediamo in poltrona a gustarcelo come un pezzo già ascoltato mille volte, sapendo a memoria come gira la musica, assaporandola proprio per questo.

Poi c'erano gli editori. Quelli che pubblicavano racconti li consideravo eroi carbonari. Erano piccoli, quegli editori lì, e potevano pubblicare solo i libri che i grandi editori scartavano, come cercando tesori nella discarica sconfinata dei libri che non vuole nessuno. C'erano i misteriosi Serra & Riva (negli anni Ottanta avevano scoperto Cattedrale di Carver e Il percorso dell'amore di Alice Munro). La benemerita Tartaruga (editore femminista che ha sempre pubblicato solo donne, tra cui ancora la Munro, Margaret Atwood, Grace Paley, e poi una raccolta di racconti che per anni ho sostenuto essere il mio libro preferito: Ho un debole per i cowboy di Pam Houston). E poi editori che nella mia testa collegavo a uno scrittore-bandiera: Marcos y Marcos pubblicava John Fante, Fandango pubblicava Cheever, e/o pubblicava Joyce Carol Oates, minimum fax pubblicava Carver e poi dal 2001, con Burned Children of America, cominciò a pubblicare un'intera generazione di scrittori di racconti, e io li ho letti proprio tutti dal primo all'ultimo. Tom Jones. David Means. Charles D'Ambrosio. A.M. Homes. George Saunders. Rick Moody. Di quanti scrittori mi innamorai al primo colpo. Sono stati anni entusiasmanti.

Dei cinquecento e passa volumi della mia collezione ce ne sono sette che ho messo uno accanto all'altro in uno scaffale appartato, che considero lo scaffale dei miei libri preferiti. I quarantanove racconti di Hemingway. Tutti i racconti di Flannery O'Connor. I Nove racconti di Salinger. I Piccoli contrattempi del vivere di Grace Paley. Da dove sto chiamando di Carver. Nemico amico amante di Alice Munro. E Ho un debole per i cowboy di Pam Houston. Quattro a tre per le donne, per fortuna. Alla Tartaruga sarebbero fiere di me. Quando guardo quello scaffale sono proprio contento che quei libri siano lì, come uno è contento che una certa persona sia al mondo, e stia facendo le sue cose, pure se non la vede da un po'. Ciao, mi viene da dirgli la mattina.

Tutto questo solo per annunciare che ieri è uscito un libro che ho scritto io, e ha pubblicato minimum fax, sulla mia storia di lettore di racconti. Si intitola A pesca nelle pozze più profonde. Non è un manuale di pesca né di scrittura creativa. È piuttosto il tentativo di mettere insieme certi pensieri ricorrenti, certe intuizioni avute durante quegli ascolti serali; è un provare a dire perché alle storie di mille pagine preferisco quelle di venti; è un lavoro che mi ha richiesto molta fatica, più di quella che faccio di solito per scrivere una storia; e infine è una dichiarazione d'amore. Ho scritto questo libro soprattutto per dire a certi scrittori, vivi e morti, che io gli voglio bene.

È diviso in tre parti. La prima parla di mistero. La seconda parla di amore. La terza parla di Sofia. Quando un libro infine viene pubblicato sembra già una cosa lontanissima, scritta da qualcuno che eri tempo fa e che torna a cercarti dal passato: hai ancora una fretta del diavolo, salti ancora le pagine per arrivare alla fine, e quando lo sfogli non riesci a credere che quello scrittore eri proprio tu.



lunedì 15 settembre 2014

MORTE DI UN UOMO FELICE

L'uomo felice (e vivo) oggi sono io.
Giorgio Fontana è un bravo scrittore, è milanese, ha trentatré anni, e ha appena vinto con merito e senza alcun gioco di potere il premio Campiello 2014. Basterebbero questi motivi per farmi esultare. In più, è un mio amico. Si sa che la scrittura è un lavoro solitario, ma succede che per età, luoghi, progetti condivisi, scelte piccole e grandi che poi sono scelte politiche, idee chiare su quali storie scrivere e anche sul come farlo, e infine per tutto il tempo passato insieme intorno ai tavoli delle trattorie, certi scrittori li senti tuoi compagni, come se esistesse davvero una generazione, e almeno in parte quello che facciamo fosse - sì - un lavoro collettivo.
Da un po' di tempo Giorgio ha individuato la sua strada e l'ha imboccata con decisione. Scrive di uomini che si interrogano su cos'è giusto fare. E scrive di Milano non soltanto perché ci vive, né perché la ama e la odia con identica passione, ma perché è proprio il posto perfetto per le storie che ha in mente lui. La capitale morale non lo è mai stata così tanto come nei suoi romanzi, teatro del dilemma su cos'è giusto e cosa no, cos'è privato e cos'è politico, cos'è lo stato e se sia il caso di difenderlo o combatterlo, e quanto si può rischiare nel farlo. Tanti citano Sciascia come modello, io ci aggiungerei Scerbanenco. Anche per la presenza ossessiva del paesaggio urbano, per le passeggiate che i suoi personaggi fanno quando le domande che hanno in testa sono troppe e allora è meglio uscire a camminare. In fondo tra i quartieri di Scerbanenco e Fontana - Porta Venezia e via Padova - ci sono solo le vetrine scintillanti di corso Buenos Aires, e il patibolo di piazzale Loreto. Milano potrebbe anche essere tutta lì. Da quanto tempo qualcuno non ne scriveva affrontandola di petto? E dell'Italia tutta vista da quassù?
Coraggio è una parola da spendere con attenzione parlando di scrittura, perché gli scrittori stessi conoscono le proprie furbizie e vigliaccherie, quello che si fa non per la storia ma per il lettore, per farsi voler bene e raccogliere qualche applauso. Di questa roba nella scrittura di Giorgio non ce n'è. È una scrittura senza compiacimenti, una voce pacata e ferma che va dritta per la sua strada. Giorgio ha tanti difetti - è interista e ha un vezzo ridicolo per la punteggiatura (le due cose naturalmente sono collegate), preferisce la birra al vino, si ostina a grattare le corde di una chitarra - ma virtù che non ho timore di nominare: è modesto, coraggioso, rigoroso, gentile. Le prime tre riguardano lo scrittore, la quarta l'uomo.
Leggete Per legge superiore e Morte di un uomo felice. E poi, se volete farvi un giro in via Padova, Babele 56. E poi tenetelo d'occhio perché ne arriveranno altri.
Non avevo alcuna fiducia nei premi letterari prima di oggi. Perciò mi viene da dire che questo premio non fa onore tanto a Giorgio, fa onore soprattutto al Campiello. Premiare l'editore meno potente, lo scrittore meno famoso, il libro più bello: non è questione morale anche questa, la scelta giusta a cui non siamo più abituati?

sabato 14 giugno 2014

LO SCRITTORE CHE USAVA SEMPRE IL PASSATO

Sulle rive del fiume Krk, dopo molte caraffe di vino dalmata e un bagno in acque gelide, qualcuno degli scrittori ubriachi lanciò una sfida. Chi sarebbe riuscito a scrivere una bella storia d'amore in meno di venti parole? Lo scrittore che usava sempre il passato scrisse:

     He was a writer who always used the past tense.
     Then he met a woman.
     She was a present.

Contò le parole: erano diciannove. Di certo se ne poteva ancora togliere qualcuna, ma che importanza aveva? Sorrise della futilità delle cose da scrittori, si sdraiò al sole per asciugarsi e chiuse gli occhi, pensando al suo dono.

lunedì 9 giugno 2014

ZAGREB SUN

(Di ritorno da Zagabria per il Festival of European Short Story. Quanto può essere breve un racconto breve? Per dire grazie basta una parola sola. Ecco un grazie con qualche parola di troppo per i miei amici croati.)

Era un uomo con una bottiglia di vino e non poteva portarla sull'aereo.
Tornò indietro. Risalì la fila, riattraversò i saloni, ripassò per le porte di vetro.
Il sole di Zagabria di nuovo negli occhi, come se fosse appena arrivato.
In quel caso, l'uomo sulla panchina non sarebbe stato il suo ultimo incontro ma il primo, e chissà quanti altri ne avrebbe avuti, dopo.
Bevila tu per me, gli disse.
Poi partì.

He was a man with a bottle of wine that he could not take with him on the plane.
So he went back. Back on the line, back through the rooms, back over the sliding glass doors.
Zagreb sun in the eyes again, as if he were just arrived.
In that case, the other man on the bench would not have been his last meeting, but his first. And who knows how many people he would have met, after.
Drink it for me, he said.
Then he left.


(Krka National Park: le cascate del fiume Cherca, in Dalmazia)

sabato 3 maggio 2014

TUTTE LE MIE PREGHIERE GUARDANO VERSO OVEST

Vado e vengo da New York ormai da dieci anni. Secondo il passaporto, dal 2004 a oggi ci ho passato circa un anno della mia vita. Mi ricordo quella prima estate, la città ancora scossa dal crollo delle Torri e piena di polizia, i cortei contro la guerra in Iraq che sfilavano per Manhattan; e poi l'autunno dell'elezione di Obama e il vecchio musicista nero che piangeva al Nuyorican Poets Cafe; e poi Occupy Wall Street, la rabbia che si respirava nelle strade quell'inverno, i barboni accampati tra chi aveva perso casa e lavoro. Sei un newyorkese - ha scritto Colson Whitehead - quando ti manca quello che c'era prima, ma forse lo sei anche quando ricordi ciò che non c'era, e hai esultato per il suo arrivo. Io ho visto nascere la High Line (con gioia), la Freedom Tower (con sospetto), il Brooklyn Bridge Park (con entusiasmo), e un numero incalcolabile di grattacieli (con indifferenza). Voler bene a New York significa accettare la sua natura, che è quella del cambiamento. Anzi: più rapidamente New York cambia più gode di buona salute; quando rallenta è perché non sta bene; quando si fermerà sarà spacciata. Nel 2004 i quartieri sulla bocca di tutti erano Chelsea e Williamsburg (ma gli artisti se n'erano già andati, spinti via dai prezzi degli affitti, e li davano ormai per morti). Nel 2014 si parla parecchio di Harlem, Astoria, Red Hook (e chissà che non sia già tardi anche per loro). Il fatto è che se insegui le mode - anche le mode alternative sono pur sempre tali - a New York ti viene una malattia che è l'urgenza di stare davanti agli altri, riuscire a cogliere le novità quando non sono ancora vecchie, scoprire segreti che solo in pochi sanno, goderti ciò che è autentico prima che le masse di turisti rovinino tutto. Si potrebbe scrivere un bel saggio su New York e lo snobismo. Nessun newyorkese ne è immune; poi, se uno ci pensa sopra, lascia perdere e si mette a cercare le cose che piacciono a lui.

Ecco: il libricino che esce in questi giorni si potrebbe descrivere così, una raccolta di nuove cose che mi piacciono a New York. Alcune piacciono anche agli altri, alcune solo a me. Nella mia testa è un proseguimento ideale di New York è una finestra senza tende. Parla di cibo ma soprattutto di luoghi. Ha un debito con un capolavoro che ho letto l'anno scorso (Open City di Teju Cole), non solo per l'attitudine allo smarrimento, ma per l'idea che, mentre tu esplori la città e la descrivi, la città esplora e descrive te. Il paesaggio che attraversiamo è sempre uno specchio di noi. Sono legato a quest'idea e a una definizione che Gabriele Basilico dava di Milano, eleggendola a sua palestra dello sguardo. Diceva che lì i suoi occhi si erano formati, e anche quando poi se n'era andato a fotografare il mondo erano quegli occhi che aveva usato, e a Milano sentiva il bisogno di tornare ogni volta per tenerli in allenamento. O per affilare il coltello alla mola, diceva Hemingway parlando di scrittura. Anche a me sembra in questi dieci anni di aver trovato la mia palestra, la mia mola: perché ogni volta che mi sono sentito svuotato alla fine di un libro, e inaridito di parole, tornare a New York è stato come ricominciare da un punto d'origine, imparare di nuovo a mettere a fuoco le cose, a guardare, a raccontare. Certe volte qualcuno mi chiede: che cosa c'entra New York con la montagna? E io rispondo che li vivo come luoghi molto simili, luoghi di solitudine e cammino, di osservazione e di ascolto. È il secondo libro che scrivo sulla città, ma preferisco immaginarlo come un secondo capitolo; spero che New York continui a essere questo per me e ce ne siano molti altri in futuro.

Lo presento a Torino, al salone del libro, domenica 11 maggio; alla libreria Gogol di Milano venerdì 16 (dopo una biciclettata da Pavia); di nuovo a Milano, a Macao, con un reading musicale venerdì 23. Poi vedremo.

***

Newyorkesità

All'angolo tra Chambers Street e Broadway, mentre cerco l'ennesimo cimitero, una vecchietta mi afferra per il braccio e grida: devo attraversare! È una mattina umida di novembre, io ho in mano una tazza di caffè fumante e lei uno di quei bastoni da ciechi, una bacchetta bianca che agita davanti a sé tastando l'aria. Indossa un cappotto marrone consumatissimo. Non so perché abbia scelto me, che tra l'altro ho appena attraversato nella direzione opposta, ma non ho fretta e nemmeno mi dispiace questa intrusione nella mia solitudine, così giro i tacchi, passo il caffè nell'altra mano, prendo il suo braccio sotto al mio e lo stringo. Non si preoccupi, le dico. La aiuto io.
È verde!, grida la vecchietta, sentendo che gli altri intorno a noi si avviano. Poi mi tira giù dal marciapiede e mena fendenti con la sua bacchetta aprendo un varco nella folla per tutt'e due. Ci guardano male, ma tanto lei è cieca e se ne frega. Attento all'autobus!, sbraita premurosa, quando un pullman turistico a due piani ci passa accanto diretto al ponte di Brooklyn. Mi chiede di accompagnarla alla fermata della linea A, e intanto molla una bastonata al muso di un taxi che sta cercando di svoltare. Approdati sulla sponda opposta cerco un'entrata della metro, provo a dirigere la coppia in quella direzione, vengo subito rimesso in riga: non le scale, l'ascensore!, ordina la vecchietta, e mi strattona verso un gabbiotto metallico piantato in mezzo al marciapiede. Lì finalmente si calma. C'è un breve momento di intimità, io e lei da soli, mentre aspettiamo che l'ascensore arrivi. Bevo un sorso di caffè e vorrei dirle che non ho mai avuto una nonna da portare a spasso, lei invece ce l'ha un nipote? Potrei almeno chiederle il suo nome e dirle il mio. Ma mentre combatto con la timidezza le porte si aprono e, fulmineamente, la vecchietta abbandona il mio braccio e artiglia quello di un tizio elegante che sta entrando nell'ascensore. Devo scendere!, grida. È come uno di quei balli in cui ti battono un colpo sulla spalla, e sei costretto a cedere la dama a qualcun altro. Il tizio sbuffa e prende in consegna la mia vecchietta. Poi fa un passo insieme a lei nell'ascensore ed entrambi spariscono dalla mia vita.
Forse per i modi spicci, forse per i capelli bianchi arruffati, mi è venuta in mente una poesia di Grace Paley che dice così:

     un uomo di new york è
     fermo all'angolo di una strada
     sorride a un pompiere aggrappato
     alla scala della sua autopompa
     l'autopompa passa tra di noi
     svolta lenta all'incrocio     sta
     tornando alla stazione dei pompieri
     io sono in un taxi bloccato nel traffico
     sorrido all'uomo sorridente     lui
     annuisce cortese     noi
     riconosciamo nell'altro     la newyorkesità




lunedì 17 febbraio 2014

CHI STAVI GUARDANDO, CHI TI GUARDAVA?

(Oggi esce un libro speciale per me. Si intitola Back to the Wild ed è la raccolta delle fotografie, e dei pochissimi testi, lasciati da Chris McCandless durante il suo vagabondaggio di due anni in giro per l'America. È stato pubblicato dalla fondazione benefica della famiglia McCandless e portato in Italia dai ragazzi di No Borders Magazine, che mi hanno chiesto di curarne l'introduzione. Eccola qui. Per me è stato un onore non solo scriverla, ma sapere che i genitori di Chris l'hanno letta e ne sono stati contenti. Il libro è in edizione limitata, è disponibile soltanto online e si può comprare qui.)



Il mistero più grande intorno a Chris McCandless, per chi come me l'ha amato dopo e da lontano, non è tanto la meta del suo famoso viaggio - un progressivo addio alla società, alla famiglia, alle relazioni affettive, ai beni materiali - quanto l'assenza di una scia di parole a segnarne la strada. Thoreau era andato nei boschi per gli stessi motivi, ma con il proposito di scriverne un resoconto: altrimenti, per come la vedeva lui, la sua esperienza non avrebbe avuto senso. E così la vedeva anche l'altro maestro di Chris, Tolstoj, inseparabile dal proprio diario, per la stessa convinzione che una ricerca personale sia incompiuta se non finisce nella parola, come un esperimento è inutile se i suoi risultati non vengono comunicati al mondo. Chris invece non scriveva quasi niente. Il suo epistolario è ridotto all'osso: una manciata di cartoline in tutto - cartoline! - e quell'unica lettera di rilievo, spedita a un amico prima dell'Alaska e finita per diventare un testamento spirituale. Quella lettera infittisce il mistero anziché risolverlo: dunque Chris era uno che sapeva scrivere, anzi lo faceva con passione, ma allora perché non ci ha lasciato una riga? Provate a prendermi, sembrano dire i suoi rari messaggi. O meglio: provate a capirmi. Come la tavola di legno ritrovata nel magic bus, la saga di Alexander Supertramp cantata da sé medesimo, non priva di retorica ma nemmeno di ironia (niente biliardo! niente cani né gatti! niente sigarette!). E soprattutto il registro di caccia alaskano, una beffa per chi cercherà di decifrarlo - oggi tre scoiattoli, oggi un porcospino, oggi niente, oggi niente - quasi a dire che il cibo, il bene sacro a cui non si può rinunciare, è anche l'unico fatto di cui valga la pena di tenere traccia, altro che ricerca interiore (Chris è morto di fame, alla fine, perciò in fondo aveva ragione lui: il cibo era davvero la cosa più importante da registrare. Ma in quel foglio c'è una tensione drammatica di cui non poteva essere consapevole. Non sapeva come sarebbe finita e non sapeva che dentro ci avremmo letto la storia di un'agonia, immaginando che cosa gli è successo dalla cronaca della sua dieta). Ecco il punto, l'omissione che sarà risultata intollerabile a chi gli voleva bene: non ci pensava a noi che restiamo? Oppure ci pensava eccome, e il silenzio è stato un'altra ribellione, le parole un altro artificio di cui ha voluto spogliarsi?

Poi c'è quell'ultimo biglietto. La foto con quel sorriso scheletrico e la pagina in cui ha scritto che lui non si era mica sbagliato, gli andava benissimo così: ho avuto una bella vita, grazie di tutto, addio. Con l'altra mano saluta, come uno che sta per partire. Eppure: perché non riesco a guardarlo senza vederci un bisogno disperato di spiegarsi, di parlare con noi?

Poi ci sono le foto, appunto. Quegli autoscatti celebrativi, così in contraddizione con la scelta del silenzio. A me parlano di un ragazzo di ventiquattro anni - l'età è una cosa che tendo a dimenticare quando penso a Chris - che certe volte avrà avuto paura durante il suo viaggio, e si sarà sentito molto solo. Allora forse aveva bisogno di mettersi in posa, alzare il pugno al cielo, ululare come un lupo e trasformarsi ancora una volta nel suo supereroe vagabondo. È una vanità innocente, per come la vedo io - un modo di farsi compagnia e coraggio - eppure, osservando le foto di questo album, ogni tanto mi viene da chiedermi chi le abbia scattate. Sembra impossibile che non ci fosse nessuno, dall'altra parte dell'obiettivo. Per chi stavi sorridendo in quel modo, a chi regalavi quell'istante così pieno di vita? Viene da immaginare un amico, un'amica, un amore di qualsiasi tipo. Non può essere solo l'orizzonte, una macchina fotografica appoggiata sullo zaino. Chi stavi guardando in quel momento? Guardavi la tua famiglia, oppure Wayne, Jan, Russell, e tutti quelli che hanno cercato di adottarti? Stavi guardando te stesso da vecchio, sempre che tu ti sia mai immaginato così, per ammonirlo come hai fatto con loro, ricordargli qualcosa che nel frattempo poteva essersi dimenticato? Stavi guardando noi che ti guardiamo adesso, vent'anni dopo, e siamo qui a cercare le parole che tu, caro Chris, hai deciso di non lasciarci? Stavi guardando me?

Personalmente, la storia di Chris McCandless mi è stata di grande ispirazione. Non solo filosofica: avrei fatto scelte diverse, credo, se non ne fossi venuto a conoscenza, abiterei in altri posti, starei con altre persone; in un momento particolare, mi ha dato il coraggio che mi serviva. Chris era uno di quelli che cambiano le vite degli altri, e non ha smesso di farlo nemmeno dopo. Se potessi mandargli una cartolina da questo punto della mia vita, ne sceglierei una con una bella montagna e dietro ci scriverei grazie, con il minimo possibile di parole, come piaceva a lui.