mercoledì 15 aprile 2020

CHINATOWN

In montagna mi ero sempre lamentato di avere un cane che non serve a niente – non sa fare il pastore, non trova i tartufi, si rifiuta di trainare una slitta sulla neve – non immaginavo che un giorno in città sarebbe stato la mia fortuna. Quando la quarantena è iniziata, l'8 marzo, ho avuto anch'io qualche ora per decidere dove stare, e confesso di aver accarezzato l'idea di andarmene in baita, pensando che lì avrei vissuto più libero e mi sarei goduto la mia casetta in mezzo ai boschi (allora non sapevo che la montagna stava per essere militarizzata, ma questo è un altro discorso). Invece poi ho scelto Milano, e senza molte esitazioni: perché qui vive la persona a cui volevo restare vicino, ma anche per un motivo più ideologico, per così dire. Benché io abbia con questa città un rapporto difficile, ci sono nato e cresciuto. Non mi andava di fare lo sfollato. Erano i giorni in cui la gente prendeva d'assalto i treni e a me sembrava uno di quei momenti in cui restare in un luogo assume un valore, diventa una specie di atto di resistenza. Qualcosa che poi ricorderemo, insieme agli altri che sono rimasti, e che fa l'anima di una città, specie ora che le città sono sempre più luoghi senz'anima, almeno quelle come Milano. Città-occasione, città di passaggio, città per studiare, lavorare, arricchirsi, città-catapulta per il mondo: usala, prendi il meglio che ti può offrire, ma non restare a Milano durante il coronavirus. E io ci resto, ho pensato (Michele Mari ti voglio bene).

Dicevo del cane: è grazie a lui, a questo cane che non tira slitte e non scava tartufi, che per due mesi ho potuto uscire la mattina e la sera, camminare, fare anche qualche incontro. Un'auto della polizia rallentava sospettosa, lui prontamente alzava la zampa contro il primo paracarro, e l'auto tranquillizzata ripartiva. Lucky è stato per due mesi il mio lasciapassare, il mio socio, il mio cane da rapina. Ne abbiamo approfittato per esplorare il quartiere: da un po' di tempo abbiamo cambiato casa, a Milano, e siamo venuti a vivere a Chinatown, e mai come in questi due mesi l'abbiamo percorsa con passione, mai più con altrettanta credo che la percorreremo. In via Paolo Sarpi i cinesi hanno chiuso molto prima di noi, ricordate? Sulle serrande dei negozi ci sono ancora i cartelli lasciati il 22 o 23 febbraio, quando i cinesi di Milano sono entrati in quarantena tutti insieme, di loro iniziativa, due settimane prima che fosse imposta dal governo. In un angolo c'è un manifesto che mi piace particolarmente, uno di quei vecchissimi manifesti di due mesi fa, in cui un braccio fasciato dalla bandiera cinese stringe la mano a un braccio fasciato dalla bandiera italiana, e lo slogan dice “Il nemico è il virus, non le persone. Forza Cina”. È la preistoria dell'epidemia, oggi a nessuno verrebbe in mente né di fare gli auguri alla Cina, né di disegnare mani che si stringono senza alcuna protezione.

Mi pare un manifesto molto più efficace, poco più avanti, la macelleria del signor Walter, una bottega milanese storica nella via principale dei cinesi, con cui convive felicemente. Lì ancora le persone si chiamano il Walter, la Silvia. Io sono vegetariano, il Walter non lo sa e se non legge questo articolo non lo saprà mai: vado da lui per il piacere di entrare in un negozio che è rimasto aperto per tutta la quarantena, un posto dove sono tranquilli, sorridono, non si lamentano di nulla, hanno chiaramente deciso di fare come se niente fosse. Anche il Walter avrà pensato: e io ci resto. E io penso che me lo ricorderò. Prendo due porzioni di ravioli di magro e un chilo di misto-cane per il mio socio, è un trito di frattaglie di cui va pazzo.

In cerca d'erba, siccome ci hanno chiuso il Parco Sempione qui dietro, andiamo davanti al Cimitero Monumentale. Prima i prati dalla parte degli acattolici, poi quelli dalla parte degli israeliti, attraversando il grande piazzale dominato dal Famedio, la cripta dei milanesi illustri dove giace il più citato scrittore della quarantena. Passiamo tre fontanelle, tre draghi-verdi presidiati da un matto per ciascuno, nel senso che vicino a ogni drago c'è qualcuno che parla da solo, che sbraita non si sa con chi, che fa strani calcoli chino su un quadernetto. Ci sono loro, i fattorini africani con gli zaini gialli e le bici, la ragazza rom a cui più di una volta ho lanciato una moneta, perché non riesco a resistere a quelli che mi chiamano amico. E poi ci sono i carri funebri che arrivano, uno via l'altro. Quando la lunga automobile si presenta, un cancello si apre e la fa entrare nel cimitero, senza corteo né parenti né niente. Il Monumentale non è per tutti: questi sono i morti delle famiglie milanesi storiche, gli industriali, gli editori, una borghesia che arriva dritta dal Diciannovesimo secolo, e forse chissà, nel Ventunesimo muore anche lei alla Baggina. Guardando il Famedio io non penso tanto al Manzoni ma ad altri che sono lì, a Gaber, a Jannacci, a Dario Fo.

Torno verso casa facendo il giro delle mura. Mi piace passare accanto alla sede della SEM, la gloriosa Società Escursionisti Milanesi, per salutarla e ricordarmi un po' della montagna. Lì accanto, una mattina, ho sentito cantare il gallo e nell'aria un odore di fuoco di legna. Chi accende la stufa e alleva galline in centro a Milano? Era un signore un po' malandato che poi è uscito a salutarmi, ed è finita che abbiamo fatto amicizia. Occupa un locale scalcinato, ha galline, un cane, “topi grossi così”, mi ha detto tutto contento, e si scalda coi rami degli alberi che raccoglie nei giardinetti. Il tetto della catapecchia è mezzo crollato: “è stata la nevicata dell'85”, mi fa, “te la ricordi?” E come no, ero un bambino, andavo in giro con mio padre e mia sorella a godermi tutta quella neve a Milano. Ecco, forse questi giorni mi ricordano un po' la nevicata dell'85. Non per la neve, ma perché è una Milano a cui voglio di nuovo bene. “Passa a salutarmi, quando vieni col cane. E se vuoi farti una fumata davanti al fuoco, in amicizia eh...” Te la ricordi la quarantena del '20?, diremo magari nel '55. Eh sì che me la ricordo. Ci andrei volentieri, a trovarlo, quando sarà finita, ma mi sa che quel giorno io e Lucky ce ne torniamo in montagna.