mercoledì 16 dicembre 2009

SUL TIRANNICIDIO

Oggi non riesco ad aprire un libro, troppo assordante il rumore di quello che accade intorno. Così, tanto vale dire la mia. Trovo indegni gli editoriali dei quotidiani d’opposizione, che seguono tutti lo stesso schema retorico: inorridiscono per l’attentato al capo del governo; denunciano il clima di violenza politica da cui tale attentato è scaturito; richiamano i partiti, i media e l’opinione pubblica a rientrare nelle regole, confrontandosi a colpi di idee e non di souvenir. Li trovo ipocriti perché scritti da gente che fino all’altro ieri ha provato a tirare giù il capo del governo con scandali sessuali, l’equivalente giornalistico di un sampietrino. Li trovo ciechi perché non guardano più in là del proprio naso, come se l’episodio in questione fosse figlio di una stagione e non di un’epoca.

Io per esempio mi chiedo: come mai negli ultimi cinquant’anni praticamente tutti i presidenti americani hanno subito un attentato (con un presidente morto, uno ferito e diverse pistole che hanno sbagliato mira, o non hanno fatto in tempo in sparare), mentre da noi l’evento è così raro da sorprendere un esercito di guardie del corpo? Perché negli Stati Uniti il presidente è un oggetto di culto. La campagna elettorale è una battaglia uno contro uno: il volto del candidato è ovunque, il suo nome occupa berretti e adesivi, il partito di cui dovrebbe essere espressione viene dimenticato. Una volta eletto, il presidente va a vivere in un posto che è una specie di casa del Grande Fratello, dove lui e la sua famiglia sono sotto gli occhi di tutti. D’ora in poi risponde in prima persona davanti a un’intera nazione: c’è una crisi economica, una guerra neocolonialista, un uragano tropicale, un disastro ecologico all’orizzonte? Il presidente interviene alla televisione, il presidente riceve una chiamata dal Pentagono e decide su due piedi, il presidente si mette l’elmetto giallo e corre tra i terremotati, il presidente prende un aereo e va a parlare con un altro presidente. Io non so nemmeno chi siano i ministri del governo degli Stati Uniti, né quali poteri abbia esattamente il Congresso. Per il resto del mondo, e temo anche per la maggior parte dei cittadini americani, gli Stati Uniti non sono governati da una forza politica, né da una classe di amministratori, ma da una persona, e l’intero paese ha la sua faccia. La cattiva notizia è che questa incarnazione è appena avvenuta anche da noi. Ci sono voluti quindici anni per smantellare una solida democrazia parlamentare, ma alla fine è successo: oggi nessun italiano, di qualunque fede politica, prende minimamente sul serio il partito di maggioranza, né il parlamento, né il consiglio dei ministri. Qualunque cosa facciano in realtà, da fuori sembrano contenitori vuoti. Oggi per tutti noi chi ci governa ha un nome e un volto, uno solo.

Al di là di questioni da poco come la morte della democrazia, il culto della persona ha un effetto collaterale: nella gran massa dei cittadini ci sarà qualcuno che ti ama alla follia, e qualcun altro che alla follia ti odia. Quelli che ti amano sventolano le bandierine, cantano gli inni quando passi tu e lottano per essere il primo dei tuoi servitori, o la prima delle tue concubine. Quelli che ti odiano ti tirano in faccia miniature di cattedrali gotiche. Se la faccenda è più seria, sparano. Non si può avere una cosa senza l’altra. Le ragioni dell’odio, come quelle dell’amore, spesso non hanno niente a che fare con la politica: uno ti odia perché ha perso il lavoro, perché sta male e non ne può più di vedere il tuo sorriso, perché hai venduto il suo calciatore preferito a un’altra squadra, perché vorrebbe farsi le diciottenni e non può, perché vorrebbe le ali di folla e non le ha, perché tu sei un vincente e lui un perdente. Qui non c’entrano niente la destra e la sinistra. Se metti la tua persona davanti a tutto - davanti alle idee, ai movimenti, ai partiti, perfino alle aziende e alle squadre di calcio - sarà la tua persona ad attirare su di sé i sentimenti della gente, le genuflessioni dei fedeli e le pallottole dei tirannicidi. Se è amore quello che chiedi alla folla - non un semplice mandato politico ma devozione, il calore dei corpi, un comizio in Duomo come un concerto a San Siro - devi essere pronto a ricevere anche un bel po’ di odio.

Per questo ai cortigiani che ora sbraitano sulla spirale d’odio mi verrebbe da dire: occhio anche alla vostra spirale d’amore. L’assassino di John Lennon era un suo fan. Mi pare che da un meccanismo simile fossimo usciti nel 1945, con una persona idolatrata per vent’anni e finita a testa in giù in Piazzale Loreto. Quel periodo era bastato a generare gli anticorpi per il mezzo secolo che è venuto dopo, in cui a nessuno è mai venuto in mente di accogliere Andreotti o Fanfani con inni e bandierine (“Menomale che Amintore c’è!”), né di tirargli miniature in faccia. Ora gli anticorpi sono finiti, e ci siamo di nuovo in mezzo. Ecco perché fa un po’ ridere richiamare tutti quanti alla ragione: bisognerebbe invece prepararsi a vedere le pistole. E intanto chiedersi quanto siamo colpevoli per essere arrivati fino a qua, senza più uno straccio di idea, solo con una faccia insanguinata in mezzo e un deserto intorno.

giovedì 10 dicembre 2009

IN LETTURA

È un buon periodo per i lettori di racconti e i cultori della narrativa americana. Ci sono giorni in cui vaghi sconsolato in libreria, sfogliando qualche pagina qua e là, riducendoti a contemplare copertine, borbottando di fronte a novità che sembrano già vecchissime, e infine pieghi inesorabilmente verso i classici, in cerca di qualche Melville o Tolstoj che ti manca, o verso le biografie, a ripercorrere la vita triste di Pavese o Fenoglio, o quella piena di avventure di Hemingway o Karen Blixen. Altre volte, ci vorrebbe il carrello della spesa. Per fortuna attraversiamo uno di questi momenti, e la pila dei libri da leggere è alta. Comincio con i racconti, lascio i romanzi alla prossima puntata.

John Cheever, Racconti italiani (Fandango, 94 pagine, 14 euro)

Nel 1956, a quarantaquattro anni, dopo aver terminato con grandi fatiche il suo primo romanzo (Gli Wapshot), Cheever decide di prendersi un anno sabbatico e con la moglie parte per l’Italia. Queste sei storie sono il risultato di quel periodo: racconti insoliti per chi è abituato al Cheever dei pendolari e delle villette a schiera. Qui i personaggi sono nobili romani, vecchi poeti americani in esilio, viaggiatori di lungo corso. Anche la lingua è più complessa, e il ritmo meno serrato di quello dei suoi lavori più noti, come se il cambiamento dei temi imponesse di cambiare anche lo stile. Per quello che ho letto finora ne vale la pena. Fa solo un po’ di tristezza collezionare questi libricini ad anni di distanza uno dall’altro: la pubblicazione di tutte le opere di Cheever da parte di Fandango procede con il passo di quei ciclisti che arrancano nelle tappe di montagna, tagliando il traguardo quando ormai è buio e il pubblico se n’è andato da un pezzo. Io invece sto qui e aspetto Bartali, e al cine vacci tu.

Katherine Anne Porter, Bianco cavallo, bianco cavaliere (La Tartaruga, 196 pagine, 17,50 euro)

Ecco una di quelle scrittrici che in America si leggono a scuola, e qui da noi sono praticamente sconosciute. Katherine Anne Porter nacque in Texas nel 1890 e racconta quel mondo, il Sud decadente uscito dalla guerra di secessione, con le grandi case di campagna, i domestici neri, le saghe famigliari. Come Flannery O’Connor ed Eudora Welty, altre scrittrici e donne del Sud di inizio Novecento, scrisse quasi solo racconti. Qui ne sono raccolti tre, lunghi sessanta pagine ciascuno. La Tartaruga è un altro di quegli editori che meriterebbe un monumento.

Judy Budnitz, L’odore afrodisiaco del cloro (Alet, 283 pagine, 15 euro)

Era una delle giovani promesse selezionate in Burned Children of America, l’antologia di minimum fax che ha fatto epoca all’inizio degli anni Zero. A differenza di quasi tutti gli altri (a leggere adesso l’elenco fa paura: David Foster Wallace, Rick Moody, Jonathan Lethem, Dave Eggers, George Saunders, Jeffrey Eugenides, A.M. Homes, Aimee Bender, Arthur Bradford, tutta gente che allora non conosceva nessuno), Judy Budnitz non ha fatto strada qui da noi. Il primo racconto, Da dove veniamo, parla di una donna incinta che cerca disperatamente di attraversare la frontiera tra Messico e Stati Uniti, perché il suo bambino nasca americano. Ogni volta la prendono e la rimandano indietro, e lei prolunga la gravidanza con la forza di volontà finché il suo feto compie un anno, due anni, la sua pancia diventa enorme, lei non riesce neanche più a muoversi. Continua a nascondersi nei furgoncini, a imbarcarsi nella stiva delle navi ripetendo tra sé quattro parole, Nice Big American Baby, come un mantra. Però non ve lo dico come va a finire.

Charles Bukowski, Azzeccare i cavalli vincenti (Feltrinelli, 266 pagine, 17 euro)

Vedi un Bukowski appena uscito e pensi: un altro? Va bene se costasse poco, ma diciassette euro? Con tutto l’amore per il vecchio Hank, che cosa avrà da raccontarmi che non mi ha già raccontato, per diciassette euro? Poi cerchi l’indice e trovi titoli come La sera che nessuno credeva che fossi Allen Ginsberg. O come Saggio sconnesso sulla poesia e sulla vita sanguinante scritto mentre sto bevendo una confezione da sei (grande). O come Dovremmo far saltare il culo allo zio Sam? Poi apri il libro a caso e leggi: Ecco, vedete cosa succede quando un paio di poliziotti mi fermano quando esco a comprare i sigari? Voglio cambiare completamente tutta la struttura penale della società. Non fraintendetemi - non dico che l’ubriaco al volante sia un cittadino superiore. Dico però che ci sono moltissimi casi in cui uno può arrivare a casa senza far male a una mosca ma viene fermato e schiaffato in prigione perché le prigioni ci sono comunque, quindi vanno usate. E quando i poliziotti sono di pattuglia si sentono quasi OBBLIGATI A EFFETTUARE ARRESTI. Mi sento sempre colpevole quando mi si avvicina un poliziotto perché gli hanno INSEGNATO a considerare che SONO colpevole IO. Quindi ti ritrovi davanti il senso di colpa e il complesso paterno: il distintivo, l’elmetto, la pistola, la radio che gracchia, il lampeggiante rosso, la faccia irremovibile ben pasciuta. È proprio una scena dell’orrore. Credo che una delle teorie sulla Prevenzione del Crimine consista nel prevenire il crimine prima che accada. In altre parole, sulla base della teoria che l’ubriaco al volante potrebbe magari infliggere danno e dolore, viene arrestato e sanzionato di brutto sulla supposizione di ciò che avrebbe potuto fare. Adesso provate ad applicare questa teoria ad altri aspetti della vita e vedrete che tutti gli esseri umani viventi devono essere messi in prigione perché ognuno di loro potrebbe essere capace di commettere un crimine, più o meno grave, contro la società. In altre parole, LA LEGGE INFLIGGE DOLORE ANCHE NEL CASO IN CUI NON NE SIA STATO PROVOCATO. Se dobbiamo avere un mondo migliore, l’eliminazione di un dolore non necessario potrebbe essere un buon inizio. Volete ridere? Sapete cosa penso che dovrebbe fare la polizia con gli ubriachi? Dovrebbe accompagnarli a casa, invece che in prigione. Rimboccare le coperte ai cocchi di mamma ubriachi, dar loro un bicchiere se necessario e consigliare di rimanere a casa per il resto della serata. Ridicolo? Perché? Cosa cazzo c’è di ridicolo in un po’ di comprensione?

Alla fine tiri fuori i tuoi pulciosi diciassette euro e te lo porti via. Bukowski è una boccata d’aria in questi tempi duri.

lunedì 30 novembre 2009

SPLENDIDO SPLENDENTE

Ieri sera sono andato al Cox 18 - o in Conchetta, come diciamo noi - per lo Slam X, la due giorni di reading e musica organizzata dall’Agenzia X per finanziarsi e farsi conoscere in giro. All’ingresso si poteva pagare una piccola quota oppure, al posto del biglietto, comprare un libro qualsiasi del catalogo. Io ho preso Splendido Spendente, di Ivan Guerrerio. Il sottotitolo è Romanzo per Moana. L’ho letto tra ieri sera e stamattina: è un libro senza virgole e non mi ha mollato fino alla fine. Dunque la storia è quella di Marzio Milani, ragazzo del 1960, studente milanese, militante politico, che nel 1978, in vacanza a Camogli, conosce per caso la giovanissima Moana Pozzi, e per quella breve estate diventa uno dei suoi amanti. È una strana coppia: lui jeans e capelli lunghi, lei bionda platinata. Lui cresciuto nella Milano in fermento degli anni Settanta, lei in giro per il mondo al seguito del padre, ma ora rinchiusa in catene in una villetta dell’entroterra ligure. Lui è comunista e vuole fare la rivoluzione, lei va in collegio dai preti ma scopa con tutti. Lui ha una fidanzata femminista, che al momento si trova in Puglia in un campeggio di formazione politica, mentre lei a diciassette anni frequenta uomini adulti, va in giro nuda per le spiagge d’agosto, è conosciuta in qualsiasi night o discoteca tra Genova e Alessandria. La loro storia durerà solo poche settimane. Poi Marzio farà la sua strada, ma resterà innamorato di Moana per tutti gli anni a venire. La seguirà ovunque, raramente di persona ma spesso per lettera, o attraverso i giornali, o nel buio dei cinema porno. Il fatto è che lei è troppo diversa dal paese in cui si trova a vivere, e che una volta lui pensava di poter ribaltare. Moana non solo è bellissima, non solo è sesso allo stato puro: rappresenta la libertà e la rivoluzione, e poi la morte della libertà e la fine della rivoluzione, in un’epoca in cui queste due parole cambiano di senso, o forse smettono di averne uno. Così il romanzo non è solo la storia di Marzio e Moana ma anche quella d’Italia tra il 1978 e il 1994, sedici anni in cui le parabole delle grandi idee sono precipitate per sempre, e le illusioni di tante persone sono andate giù insieme a loro. Si parla molto di anni Ottanta in questo periodo. Abbiamo capito che la nebbia fetida in cui siamo immersi viene dritta da lì: non solo il potere a cui dobbiamo sottostare, che allora stava prendendo la rincorsa, ma un’intera cultura dominante che in quegli anni metteva le sue radici. Ecco, Splendido Splendente forse si capisce meglio se sei un uomo, e se sei nato a Milano. Ma credo che sia un mattone importante in un lavoro di ricostruzione storica che sento sempre più necessario, se vogliamo cominciare a capire dove siamo, e come diavolo abbiamo fatto a scendere così in basso.

***

Sei Norma Jean Baker nata a Los Angeles nel 1926 di tuo padre non saprai mai niente di tua madre sai che lavora per una casa di produzione cinematografica e anche se sei solo una bambina capisci che non sta per niente bene vedi che entra ed esce dagli ospedali e tu vieni affidata a varie famiglie e in tutto quel girare a dieci anni un patrigno ti violenta mentre cresci in questi ambienti disperati sogni il cinema e il tuo primo provino è la dimostrazione di cosa fa una brava ragazza lasciata sola con una bottiglietta di Coca Cola anche se negherai sempre che quella pellicola esista. Diventi famosa comunque perché sei bellissima e per tutta la vita sogni un uomo che ti ami per quello che sei o per come appari scelga pure ma almeno ti ami e così ti sposi divorzi ti risposi ma per quante volte tu lo faccia non funziona niente e il primo è un miliardario che dura poche settimane poi arriva un famoso sportivo e alla fine un noto intellettuale che per ricambiarti scriverà male di te tu che amerai l’unico che non puoi sposare lui il più famoso e il più potente di tutti lui a cui canterai Happy Birthday al compleanno lui l’amante di cui tutti sanno e di cui alcuni dicono che ordinò il tuo omicidio tu che ti sei uccisa ufficialmente con i barbiturici quando avevi trentasei anni sei il più noto sex symbol di tutti i tempi sei l’attrice più invidiata sei l’icona dei quadri di Andy Warhol tu sei Marilyn Monroe.

Sei Linda Susan Boreman nasci alla fine degli anni Quaranta nel quartiere del Bronx di New York da una famiglia proletaria e hai una madre cattolica autoritaria e violenta ti sposi a ventidue anni con uno spacciatore che gestisce un topless bar ti fa prostituire e un giorno ti presenta a Gerard Rocco Damiano un parrucchiere per signora con aspirazioni da regista e insieme in pochi giorni nella villa prestata da un amico girate un film che cambierà la storia del cinema e incasserà milioni di dollari mentre a voi ne restano per compenso poco più di mille a testa e tutto il resto alla mafia che lo distribuisce Gola Profonda segnerà l’inizio dell’epoca del porno di massa e tu diventi famosa riesci a lasciare tuo marito ti risposi e fai tre figli e divorzi ancora la tua vita non migliora la notorietà scompare e negli anni scrivi quattro autobiografie talmente diverse tra loro che puoi essere sia l’eroina della sperimentazione sessuale sia la portabandiera di chi considera il porno il male assoluto sei la più controversa attrice porno della storia tu sei Linda Lovelace.

Sei Anna Moana Rosa Pozzi nata a Genova a Pra Palmaro in un quartiere del Ponente il 27 aprile 1961 e sei la prima figlia di Alfredo Pozzi e Rosanna Aloisio lui uno stimato tecnico che lavora nelle centrali nucleari proveniente da una famiglia della borghesia genovese lei di origini contadine diplomata e poi moglie e casalinga molto cattolica nel 1963 nasce tua sorella Maria Tamiko per tutti Mima insieme a cui frequenti l’asilo delle suore Orsoline che dovrebbe trasmettervi da subito i principi e i valori graditi alla famiglia con Mima passi la prima infanzia nella casa di Pra Palmaro da cui si vede il mare affascinata da tuo padre con cui la domenica compri le paste dopo la messa fino a quando la sua carriera non porta tutta la famiglia a vivere all’ombra delle centrali in ogni parte del mondo prima in Spagna nel 1967 in un lussuoso quartiere della capitale franchista poi fra i ghiacci e le foreste del Canada nel 1969 e infine nel torrido Brasile a Tubarao dove frequenti una scuola di suore e una di samba e resti affascinata dalla sensualità di quel popolo fino a che il cerchio si chiude nel 1975 la famiglia torna a vivere non lontano da Genova nella casa di Lerma da dovi osservi un mondo diventato minuscolo sognando di fare l’attrice non hai nemmeno bisogno di trovare un nome d’arte visto che per tutti da sempre tu sei solo Moana il punto dove il mare è più profondo.

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Ivan Guerrerio, Spendido Splendente (Agenzia X 2009)

mercoledì 25 novembre 2009

BARTLEBY E COMPAGNIA

Subisco il fascino degli scrittori che smettono di scrivere. Una vocazione è anche una mania, e liberarsene non è meno difficile che portarla a compimento. Darà lo stesso tipo di piacere? Oppure ne darà uno tutto diverso - il sollievo che si prova guarendo dalla febbre, o respirando dopo una lunga apnea, o camminando all’aria aperta dopo anni di galera? Io immagino un senso di enorme liberazione. Potersi svegliare di fronte alle possibilità del quotidiano, godere delle esperienze mentre accadono, pensare alla propria felicità non più in termini di scrittura o non-scrittura, ma di oggetti più sani come per esempio: persone, luoghi, incontri, azioni. Essere Neal Cassady invece di Jack Kerouac. Essere Arthur Rimbaud invece di Paul Verlaine. Non significherebbe perdere l’amore per la letteratura: anzi forse diventerebbe un amore più puro, come diceva Derek Walcott nei versi di Vulcano.


Si potrebbe anche abbandonare la scrittura

davanti ai segnali di lenta combustione

dei grandi, ed essere invece

il loro lettore ideale, riflessivo,

affamato, conscio che è superiore

l’amore per i capolavori

al desiderio di ripeterli o eclissarli,

e diventare così il miglior lettore del mondo.


Non pensavo più a questa faccenda da un po’ di tempo, cioè da quando uno scrittore e una scrittrice decisero, ognuno a modo suo, di smettere di scrivere per sempre. Mi è tornato tutto in mente leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia, uscito in Spagna nel 2000 e in Italia nel 2002, e ora ripubblicato in edizione tascabile per Feltrinelli. Vila-Matas è uno di quegli scrittori che lui stesso chiama gli anti-Bartleby, cioè i grafomani alla Simenon o alla Scerbanenco, ma in questo saggio-romanzo finge di essere uno scrittore finito, uno che ha pubblicato il suo libro d’esordio venticinque anni prima e poi ha smesso, e ora si dedica a studiare gli agrafi come lui. I Bartleby. Quelli che alla vocazione rispondono, come lo scrivano di Melville, preferirei di no.

Il libro è una raccolta di vite esemplari. Così come ogni scrittore ha il suo stile, anche ogni non-scrittore ha dovuto percorrere una strada diversa per arrivare al silenzio. Intanto, occorre dare una risposta a chi ti chiede come mai non scrivi più. Allora si può fare come Duchamp che rispondeva: che cosa ci vuol fare, signora, non ho più nemmeno un’idea! O come Alfau, che arrivato a una certa età si dedicò allo studio delle lingue straniere, e dichiarò che dopo aver imparato l’inglese, cominciano le complicazioni. O come Vaché secondo il quale, molto più semplicemente, l’arte è una stronzata. O come Rulfo, forse il più grande scrittore messicano, che aveva elaborato la risposta perfetta: perché è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie.

E poi, ci sono le cose che gli scrittori fanno dopo avere smesso di scrivere. C’è Rimbaud in Africa, dedito a contrarre la sifilide e commerciare in schiavi. C’è Melville che, dopo il fiasco di Moby Dick, si impiegò alla dogana del porto di New York e ci rimase per il resto dei suoi giorni. C’è Henry Roth e la vicenda del suo unico capolavoro, Chiamalo sonno, trascurato per molto tempo da pubblico e critica, tanto che l’autore occupò l’intera vita senza scrivere più una riga, facendo il pompiere, l’operaio, l’insegnante, viaggiando per gli Stati Uniti e finendo a vivere in un campeggio di roulotte, finché il romanzo fu ripubblicato e Roth raggiunse la fama dopo avere smesso di scrivere da trent’anni. Ci sono i pazzi come Rober Walser, che morì in manicomio riempiendo minuscoli bigliettini con un’indecifrabile letteratura, o Guy de Maupassant, che all’apice del successo si trafisse con un tagliacarte credendosi immortale, e terminò i suoi giorni camminando a quattro zampe e leccando l’intonaco dai muri. Poi c’è la schiera dei suicidi a cui Vila-Matas non dedica molta attenzione, perché smettere così è troppo facile. E poi c’è Tolstoj, il mio preferito, forse il più anziano tra gli scrittori che decisero di liberarsi dalla scrittura. Nel 1910 aveva ottantadue anni, ed era probabilmente il romanziere più famoso al mondo. Una notte aprì il diario che compilava da quando era ragazzo, cominciò a trascrivere il suo proverbio preferito (Fais ce que dois, advienne que pourra: “Fa’ quello che devi, succeda quel che succeda”) ma lo interruppe a metà frase. Le migliaia di pagine dei diari di Tolstoj, autore di storie immortali, finiscono così: Fais ce que dois, adv

Dopo la v, decise di smettere di scrivere per sempre. Era perseguitato dalla moglie e dalla scrittura, che riteneva, rispettivamente, una grandissima rompicoglioni e la principale responsabile del suo fallimento morale. Fuggì di casa in piena notte e morì di polmonite una settimana dopo, nella sperduta stazione ferroviaria di Astapovo, per avere viaggiato nell’inverno russo al freddo della terza classe.

Si potrebbe concludere di nuovo con Marcel Duchamp: Le parole non hanno assolutamente alcuna possibilità di esprimere nulla. Nel momento in cui cominciamo a tradurre i pensieri in parole e frasi, va tutto in malora. Oppure con Bobi Bazlen: Credo che ormai non si possano più scrivere libri. Per cui non ne scrivo più. Quasi tutti i libri non sono altro che note a pie’ di pagina, gonfiate fino a diventare volumi. Oppure con Paul Celan:


Se venisse,

se venisse un uomo

se venisse un uomo, al mondo, oggi, con

la barba di luce dei

patriarchi: potrebbe solo,

se parlasse di questo

tempo, solo

potrebbe balbettare, balbettare

sempre sempre

soltanto soltanto.


Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia

(Traduzione di Danilo Manera, Feltrinelli 2002)

domenica 22 novembre 2009

EMMAUS

Ho fatto resistenza per qualche giorno, prima di prendere Emmaus di Alessandro Baricco. Il motivo cercherò di dirlo dopo. Poi l’ho aperto a pagina 15 e ho letto: Abbiamo tutti sedici, diciassette anni - ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato. Siamo molto normali, non è previsto altro piano che essere normali, è un’inclinazione che abbiamo ereditato nel sangue. Per generazioni le nostre famiglie hanno lavorato a limare la vita fino a toglierle ogni evidenza - qualsiasi asperità che potesse segnalarci all’occhio lontano. Mi è sembrato l’inizio di una storia che mi riguarda, perché è simile alla mia e pure a quella che sto cercando di scrivere, e così ho rotto gli indugi e l’ho preso.

Dunque la storia è questa: ci sono quattro amici, sedici o diciassette anni, cattolici militanti. Suonano in chiesa durante la messa, fanno volontariato coi malati terminali. Non è che loro esistenze siano granitiche come sembrano - il padre di uno è depresso, e la famiglia non può che subire la sua depressione; un altro vuole farsi prete e la madre si dispera; un altro ancora ha una fidanzata con cui pratica un’astinenza disseminata di tentazioni - eppure sono vite di adolescenti come tutti gli altri, solo cresciuti nell’ortodossia religiosa, per cui la tensione che li agita riguarda il sesso, la battaglia tra la propria natura e l’educazione a considerarla peccaminosa, lo smarrimento morale di quando la religione smette di essere una cosa da bambini, e diventa cosa da adulti. Poi nella loro vita irrompe Andre: ragazza ricca, bellissima, androgina e amorale. Ne usciranno tutti con le ossa rotte. Uno morto, uno tossico, uno in galera, e l’ultimo a cantare da solo nel coro della chiesa, perché per avere la storia di un naufragio serve sempre il reduce testimone, quello che si aggrappa a un pezzo di legno marcio e riesce a sopravvivere per raccontarla.

Non ho citato Melville a caso. Il luogo comune su Baricco vuole che sia uno scrittore bravissimo, ma non abbia una mazza da dire. Virtuoso, a volte pirotecnico, ma sterile come un divino esecutore, come quel Novecento che al pianoforte sembrava avere quattro mani, però non aveva mai scritto una riga sua. Io non sono del tutto d’accordo. Baricco mi pare uno scrittore dai due volti. Ho apprezzato molto Castelli di rabbia e Oceano mare, e ho detestato molto Seta e Senza sangue, proprio perché la stessa maestria nell’uso della parola mi conquista quando è al servizio di una storia, di personaggi e vite che spingono per essere raccontati, e mi irrita quando sotto non c’è nulla, solo uno schema narrativo su cui fare esercizi di stile. Ora mi sento di dire che Emmaus appartiene al primo gruppo. È un libro pieno, di cui ha senso discutere. Non è un saggio di violino. Anzi di arpeggi ce ne sono pochi, e Melville c’entra per questo: a chi si domanda quali siano i temi della narrativa di Baricco, a chi lo accusa di girare attorno a un buco, a me viene da dire che il centro dei suoi libri è grande come una casa, ed è l’ossessione. Che sia la pratica della pittura, l’invenzione del telefono, le corse in automobile, il commercio dei bachi da seta, la musica suonata in mezzo all’oceano, in nome di un’ossessione i suoi personaggi rifiutano le regole della loro comunità, rinunciano all’affetto degli altri, scelgono la solitudine e a volte la follia. Qui la balena bianca è Andre, ovvero l’assenza di morale religiosa. Ma a un uomo che si libera dell’unica morale che aveva, che cosa resta? Come i quattro amici scoprono ben presto, quella strada porta alla rovina. E in effetti è così che finiscono tutte le storie di ossessione.

Questa cosa in Emmaus mi piace. È raccontata in modo onesto e mi ha catturato. Poi ci sono alcune pagine sulla religione che mi convincono meno. Lo dico da ex cattolico militante. Il titolo del libro viene dall’episodio evangelico preferito dai ragazzi, quello in cui due viandanti passano una serata in compagnia di Gesù risorto e non se ne accorgono, e alla fine, quando lui si rivela e poi scompare, si chiedono: come abbiamo fatto a non essercene accorti prima? Il senso, da quanto mi pare di capire, sta nell’idea che la fede non sia la risposta luminosa a tutti i dubbi (come tende a pensare l’ateo del credente, scambiandolo sempre per un bigotto), ma che anzi la verità sia ambigua, difficile da comprendere, e la ricerca possa essere alimentata dal dubbio, perché un credente che non dubita è appunto un fanatico, che non mettendo in gioco la sua intelligenza non vale nulla. È un bel concetto, però il mio episodio preferito a sedici anni era quello di Gesù con la frusta che caccia i mercanti dal tempio, o di Gesù che dice al ricco regala tutto ai poveri e seguimi, o di Gesù che difende l’adultera dalla folla inferocita. Allo stesso modo, io da cattolico militante a sedici anni non mi sentivo molto normale, come se per me non fosse previsto altro che essere normale, anzi il contrario: essere religioso significava essere diverso, andare controcorrente rispetto ai miei amici, litigare sui principi. La religione non era una lima con cui piallare le asperità ma anzi era l’asperità più aspra di tutte, quella che mi allontanava dal gruppo. Dunque in Emmaus di chi si parla? Di ragazzi cattolici militanti, nei nostri anni e in una grande città italiana - come sembrerebbe leggendo il romanzo - o di bigotti di provincia negli anni Cinquanta, dove la pratica religiosa era una pialla di normalità? Qui ci sono ragazzi di sedici anni che vanno in ospedale a cambiare il sacchetto a vecchi moribondi. Com’è possibile che si sentano normali? Io quando facevo cose simili - distribuire il pasto ai barboni, spalare fango in città alluvionate - mi sentivo piuttosto un rivoluzionario. La religiosità di Emmaus mi sembra del tutto sbagliata in un libro sull’adolescenza, forse imposta dall’occhio cinquantenne dello scrittore, e secondo me è il difetto più grande del romanzo.

L’altro problema con Baricco è che spesso sembra copiare da qualcun altro. Non è poi una colpa tanto grave: io per esempio ho appena scoperto che uno dei miei racconti preferiti, Boys di Rick Moody, è molto simile a un racconto di Ingeborg Bachmann scritto quarant’anni prima, Adolescenza in una città austriaca. A volte penso che tutta la letteratura proceda per plagi successivi, come la macchina umana che si evolve a piccoli passi, prendendo il meglio dalle generazioni precedenti e aggiungendo qualcosa di suo. In questo caso, c’è un gruppo di ragazzi innamorati di una ragazza, che vive in mezzo a loro ma sembra di un altro pianeta. La ragazza una volta ha tentato il suicidio, e ora, quasi come antidoto a quel desiderio di morte, ha rapporti sessuali con chiunque, famelica di vite altrui. I ragazzi la osservano nell’ombra, così invisibili e simili tra loro che spesso l’io narrante diventa un noi: non importa più chi sono io, siamo noi che osserviamo, ci innamoriamo, subiamo il morso del desiderio, cediamo all’ossessione. Vi ricorda un’altra storia? A me sì: Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, 1993. Poi magari scoprirò che pure Eugenides ha plagiato qualcun altro. Pazienza. Però ho cominciato citando Baricco, e per un mio senso di giustizia letteraria voglio finire con il libro che l’ha ispirato. Se non li avete letti entrambi e siete in dubbio, ecco il mio parere: Emmaus è un buon libro, Le vergini suicide invece è un capolavoro. Viva le sorelle Lisbon e l’ossessione.

***

Non riuscivamo ad immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma. E abbiamo dovuto imbrattarci il muso nelle loro ultime tracce, orme fangose sul pavimento, bauli calciati via, respirare per sempre l'aria delle stanze dove si sono uccise. In fondo non contava quanti anni avessero, o che fossero ragazze, ma solo il fatto che le avevamo amate e che loro non avevano udito il nostro richiamo; non ci odono neanche adesso che siamo quassù, nella casa sull'albero, con i capelli radi e un pò di pancia, e le chiamiamo perché escano dalle stanze in cui sono entrate per trovare la solitudine eterna, la solitudine del suicidio, che è più profondo della morte, le stanze dove non troveremo mai i pezzi per rimetterle insieme.

venerdì 13 novembre 2009

POESIA CHE MI GUARDI

Per troppa vita che ho nel sangue
tremo
nel vasto inverno.


Nessuno, a scuola, mi aveva mai parlato di Antonia Pozzi. Eppure abitava dalle mie parti, in via Mascheroni a Milano. Frequentava il liceo Manzoni dove si innamorò del suo professore di lettere, Antonio Maria Cervi, ma il padre di lei era un uomo potente e riuscì a tenerli lontani. “E tu sei entrata nella strada del morire”, scrisse Antonia quell’anno. Era una figlia della Milano bene, altrimenti non avrebbe potuto studiare e scrivere, da donna, in Italia negli anni Trenta. Amava due cose sopra ogni altra: la montagna e la poesia. La sua famiglia aveva una casa a Pasturo, ai piedi della Grigna, dove lei si rifugiava spesso, ma esplorò le Alpi da occidente a oriente, dalla Val d’Aosta che conosceva bene alle Dolomiti ampezzane, dove arrampicava con l’amico e guida Emilio Comici. Un altro suo amico fu Vittorio Sereni, con cui studiava all’università, e a cui nel 1938 scrisse: “Forse l’età delle parole è finita per sempre”. Morì suicida quell’inverno, a ventisei anni, addormentandosi con l’aiuto dei barbiturici sul prato dell’abbazia di Chiaravalle. Il padre cercò di nascondere le cause della morte, manomettere il testamento e far sparire le lettere di Antonia, che già da qualche anno manifestava i segni di una durissima depressione. Le sue poesie, scritte a mano su alcuni quaderni e fino a quel momento inedite, vennero ugualmente alla luce: e solo allora si scoprì che Antonia Pozzi era stata una delle più grandi poetesse della sua epoca.
A Emilio Comici, che morì poco dopo di lei cadendo in montagna, scrisse:

Si spalancano laghi di stupore
a sera nei tuoi occhi
fra lumi e suoni:
s'aprono lenti fiori di follia
sull'acqua dell'anima, a specchio
della gran cima coronata di nuvole...
Il tuo sangue che sogna le pietre
è nella stanza

un favoloso silenzio.

Al suo sogno d’amore perduto, che nel ricordo si trasfigurò e da uomo di carne e sangue divenne puro rimpianto:

O velo
tu - della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita -
o nodo
lucente - di tutta una vita
che fu sognata - forse -
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano -
il ramo morto di tutti i giorni che restano,
che servono

per piangere te.

Alla scrittura, che fu ossessione e sollievo:

Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,

poesia che mi guardi.

Ora, la regista Marina Spada ha girato un documentario che, più che raccontare la vita terrena di Antonia Pozzi, cerca di catturarne lo spirito. Si intitola Poesia che mi guardi e per un po’ di tempo, dal 20 novembre in poi, sarà al cinema Mexico di Milano. Marina è una mia amica e maestra e mi sarebbe difficile parlare di questo film senza parlare delle cose che so di lei, e di tutto quello che la lega a una ragazza morta più di settant’anni fa. Ha a che fare con la poesia, con il potere della poesia di aprire varchi temporali nelle forme più imprevedibili: la prima volta che sono andato a casa sua c’erano alcuni versi di Majakovskij appesi allo sportello del frigo, probabilmente con una calamita di Paperino, che dicevano: Qui a Leningrado d’inverno non cesserò d’attenderti/ la guardia non smonterò nonostante i ghiacci/ pendano da ciglia e lacrime. Anche Marina monta la guardia da una vita, nonostante il generale inverno. Ha tratto il titolo del suo film Come l’ombra da una poesia di Anna Achmatova: Come vuole l’ombra staccarsi del corpo/ come vuole la carne separarsi dall’anima/ così adesso io voglio essere dimenticata. Ora si capisce meglio? E poi, il suo legame con Antonia Pozzi ha a che fare con la femminilità, con l’affermazione del proprio essere donna e allo stesso tempo artista, con il fare poesia o cinema invece di fare figli. E poi ha a che fare con Milano: gran parte di questo film è girato in città, ed è girato con il naso per aria. Chi è andato a spasso con Marina sa della sua tendenza a sbattere contro i lampioni, perché non bada a dove mette i piedi. Sotto ci sono le macchine, i negozi, i passanti e tutto quello che ci parla della nostra epoca. Sopra c’è un mondo in cui il tempo scorre molto più lentamente: come in montagna, alzando gli occhi si incontra lo sguardo di chi è vissuto qui prima di noi, perché vedeva le stesse terrazze e finestre, gli stessi balconi e camini, gli stessi tetti e le stesse facciate che vediamo noi. È lassù che Marina ha cercato lo sguardo di Antonia.

lunedì 2 novembre 2009

ADDIO A UNA BEAT

Ho letto diversi articoli dopo la morte di Fernanda Pivano. Erano pieni di affetto e ammirazione, ma anche terribilmente simili tra loro. Da quando ero un ragazzino conosco a memoria le sue gesta: nacque a Genova nel 1917 da un famiglia dell’alta borghesia; si trasferì a Torino dove studiò al liceo con Cesare Pavese, che fu il primo responsabile della sua passione per la letteratura americana; si laureò in Lettere con una tesi su Moby Dick, e tradusse Addio le armi quando in Italia era un libro vietato dal regime (perché descriveva in modo realistico la disfatta di Caporetto, e perché il suo autore aveva pubblicato un’intervista a Mussolini ritraendolo come un pagliaccio); fu arrestata dai nazisti e per questo più tardi divenne amica di Hemingway, oltre che sua traduttrice, assistente e forse pure amante; andò a vivere a Milano dove cominciò a lavorare nell’industria editoriale; scoprì i beat e li portò in Italia (sulla carta e in carne e ossa: memorabile è la sua intervista, in diretta Rai, a un Kerouac completamente ubriaco). Da allora divenne un mostro sacro. Se un giovane scrittore americano incontrava l’approvazione della Nanda, qui da noi aveva il tappeto rosso srotolato sotto i piedi. È accaduto a McInerney e alla sua generazione, i ragazzi prodigio degli anni Ottanta che da nessun’altra parte hanno ottenuto successo come in Italia. Questo, più o meno, oltre all’amicizia con De André, è tutto quello che si impara dalle sue agiografie. Libri famosi, nomi famosi, incontri memorabili, date e luoghi. Però Fernanda Pivano chi era, e perché diavolo si è messa a fare quello che ha fatto?

Intanto, bisognerebbe chiedersi che cosa rappresentasse la letteratura americana alla fine degli anni Trenta. Oggi per noi è la cultura dominante, allora era la voce dei nuovi barbari. All’epoca si leggevano i tedeschi, i russi, i francesi. Del Nuovo Mondo non si seppe quasi niente fino all’uscita dell’antologia curata da Vittorini, Americana, del 1942: lì dentro c’erano Hawthorne, Poe, Melville, London, la triade Hemingway-Faulkner-Fitzgerald, e poi Steinbeck, Anderson, Dos Passos, tutti i grandi scrittori emersi dall’altra parte dell’oceano dall’inizio dell’Ottocento. Questa scoperta dell’America avveniva in un ambiente culturale fortemente retorico (avete presente l’idealismo tedesco?), e in un clima politico di controllo e di censura. Erano i tempi dei libri vietati, che bisognava farsi portare da qualche corriere clandestino, e passarseli nelle zone franche delle università. Erano anche i tempi d’oro della nascita dell’Einaudi, in cui tra Torino e le Langhe si stava scrivendo l’epopea editoriale più appassionante del Novecento italiano. Mentre Vittorini curava la sua antologia, Pavese traduceva Moby Dick e un giovane Fenoglio si formava sui poeti inglesi. Di quegli anni la Nanda racconta: Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti.

Che cosa c’era a quei tempi nella letteratura americana che non si trovava qui? Io posso solo provare a immaginarlo, con la prospettiva di settant’anni dopo: la letteratura europea, all’epoca, era irrimediabilmente borghese. Era piena di giovani intellettuali, di innamorati depressi o di combattenti esaltati, ma non si parlava molto di emigranti, marinai, disoccupati, reduci di guerra, contadini travolti dalla Grande Depressione, vagabondi che saltavano sui treni, ubriaconi. Chissà che effetto faceva scoprire quel mondo durante la fase più delirante dell’ottimismo fascista, mentre qui si sbraitava sul progresso, la razza, l’impero. Era, credo, la scoperta della libertà di parola.

Non solo. Gli scrittori americani avevano la strana caratteristica di non essere intellettuali. Avevano fatto loro stessi i contadini, i marinai, i soldati, i cercatori d’oro. Erano scrittori immersi nella realtà, e osservavano il mondo che avevano intorno. Ecco, una cosa che si racconta poco di Fernanda Pivano è la sua passione per questa categoria di persone: i disadattati, i marginali, gli autolesionisti, i tossici, gli aspiranti suicidi, l’umanità alla deriva. Forse è lì che affonda le radici il suo legame con De André. La prima volta lui era andato da lei per suonarle le canzoni di Non al denaro né all’amore né al cielo, il disco tratto dall’Antologia di Spoon River, ma aveva lasciato la chitarra fuori dalla porta, perché si vergognava a entrare in casa sua così, facendo l’artista. Erano due genovesi ricchi, anarchici, irresistibilmente attratti dagli sbandati. Dal letame nascono i fiori: bisognerebbe guardare quell’intervista a Kerouac - con la Nanda tutta composta, affabile come una brava padrona di casa, e Jack stravolto dal whisky annacquato, la faccia gonfia e sudata, le risposte biascicate in una pena infinita - ripensando a quel verso. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

Credo sia questo che mi manca adesso. Questo amore libertario, del tutto estraneo ai giudizi morali, che la Nanda provava. È sopravvissuta agli scrittori che ha amato perché loro si sono ammazzati a fucilate, o bevendo, o fumando. Adesso tendiamo ad amare quelli sani. Quelli produttivi e lucidi nella loro visione del mondo. Lei preferiva i sofferenti, quelli che stanno male e quasi sempre muoiono prima del tempo.

Ieri ho rivisto A Farewell to Beat, il documentario del 2001di Luca Facchini. Verso la fine, in una strada piena di sole del Greenwich Village, il regista chiede alla Nanda che cosa vuole fare nella vita, e lei risponde: La puttana! Vi prego, fatemi fare la puttana! Ride come faceva lei, con tutto il corpo, con gli occhi che brillano e quel tintinnare di anelli e collane, e poi torna seria e dice: No, vorrei avere scritto tre righe che la gente si ricorda. Invece non le ho scritte, e forse non le scriverò mai.

giovedì 8 ottobre 2009

LA GEOMETRIA DEGLI INGANNI

Da un po’ di tempo ho in mano un libro, La geometria degli inganni di Luca Martini. Non sapevo bene come parlarne perché, se una parte lo sento molto vicino (Luca è un esordiente, scrive racconti, leggendolo ho capito che abbiamo gli stessi maestri, e il libro è molto superiore a quello che si trova in giro), dall’altra ho alcune critiche da muovergli, e non volevo farlo pubblicamente. Queste sono cose delicate. So per esperienza che l’equilibrio emotivo di uno scrittore è pari a quello di una piuma in bilico su un davanzale. Così l’altro giorno ho mandato a Luca una lettera. Mentre la inviavo, ero pronto a due o tre tipi di risposta: una offesa, una difesa, una decisamente aggressiva. Non mi importava. Mi è già successo e ho deciso che, per me, la cosa giusta da fare è dire a uno scrittore quello che penso, nei termini più chiari possibili, succeda quel che succeda (a meno che uno scrittore non sia, che ne so, molto vecchio o molto malato, nel qual caso potrei concepire i falsi complimenti). Penso che una critica onesta abbia qualche possibilità di essere utile, mentre l’adulazione no, in nessun caso. Invece è successo che Luca mi ha risposto con un’umilatà inaspettata, ha apprezzato le mie critiche e mi ha chiesto di pubblicarle qui, in modo che ne possiamo parlare pubblicamente. Lo faccio con piacere.

***

Caro Luca,

il tuo libro mi è piaciuto con qualche riserva. Il materiale c’è, sono personaggi e storie forti, tu hai letto molto e scrivi bene, insomma è un libro pieno, complesso, profondo.

I miei racconti preferiti sono "Un comunista" e "La geometria degli inganni".

Però credo ci siano alcuni difetti di cui vorrei parlarti. Il primo che mi è sembrato di trovare è anche quello che imputo al mio libro d’esordio: si sente troppo la mano dei tuoi maestri. Io, se mi guardo indietro, penso a "Manuale per ragazze di successo" come a un libro scritto soprattutto per emulazione. C’erano degli scrittori che amavo, e volevo fare come loro. Ho provato a imitarli. In fondo li conoscevo così bene. Non ci sarebbe niente di male in questo: il problema è che, rileggendo quelle storie, mi accorgo che non raccontavo la vita, ma la letteratura. Lavoravo per citazioni, variazioni sul tema, imitazione di modelli e stili. Capisci quello che intendo dire? Nei tuoi racconti sento risuonare la voce di Raymond Carver, Richard Ford, Tobias Wolff, e invece faccio fatica a capire dov’è, dietro a tutti questi maestri, Luca Martini.

Il secondo difetto riguarda la forma dei racconti. Sono tutti molto conclusi: le domande che aprono trovano risposta, le crisi in un modo o nell’altro si risolvono, i misteri vengono svelati, il cerchio si chiude sempre. Anche questo è molto letterario. La vita, a mio parere, non chiude il cerchio quasi mai, e le ferite restano aperte, le domande senza risposta, i traumi insensati non trovano un senso, ma casomai generano altri traumi, così come le violenze subite scatenano violenze inferte. Ti parlo per esempio di "Un comunista", che pure mi è piaciuto molto fino al suicidio del padre. Credo che il racconto sarebbe dovuto finire lì, un ragazzino con tutta la vita davanti e quel macigno da portarsi dietro. Invece poi scopriamo che, anni dopo, il ragazzino è diventato un padrone (e suo padre era un sindacalista: combinazione numero uno). Vede passare per strada la macchina in cui suo padre si è ammazzato (combinazione numero due). Trova il proprietario, ricompra la macchina e va a trovare sua madre, che nel frattempo si è ammalata di alzheimer e ha perso la memoria (combinazione numero tre). La madre non dà segni di riconoscere né il figlio né la macchina, ma quando lui si allontana alza una mano, come faceva tutte le mattine dalla finestra quando il marito andava al lavoro. Il finale è impeccabile, niente da dire. Tutto torna. Tutto si chiude. Però, ripeto, ho l’impressione che la vita funzioni in un modo un po’ diverso: nella vita, forse saresti andato dal vecchietto per ricomprare la macchina di tuo padre e avresti scoperto che la macchina non era davvero quella, forse ci saresti rimasto male, però ti saresti preso un caffè raccontando al vecchietto la tua storia, o ascoltando la sua. O forse la macchina era davvero quella e tu l’avresti ricomprata e poi saresti andato in clinica da tua madre, ma lei non avrebbe alzato la mano perché ha l'alzheimer, e non avrebbe riconosciuto né te né la macchina né niente, e tu saresti rimasto solo con questa cazzo di macchina e il tuo dolore, senza nemmeno la consolazione di quella mano alzata. Ecco cosa intendo quando dico che la vita non chiude il cerchio.

Invece, ti faccio i miei più sinceri complimenti per la battuta di dialogo in cui il bambino chiede al padre che cosa vuol dire essere comunista, e il padre gli risponde: un comunista è uno che non è felice se non sono felici pure gli altri. È bellissima e indimenticabile.

Ti faccio anche gli auguri perché hai talento e spero proprio di leggerti di nuovo, di sentire risuonare la tua voce sempre più forte e chiara. E sempre più tua.

Ti abbraccio

Paolo

mercoledì 30 settembre 2009

OLIVE KITTERIDGE

Nella vita di un lettore ci sono lunghi periodi bui. Apri un romanzo e lo abbandoni a pagina sei, cominci un racconto e dopo poche righe stai già pensando ad altro. Ti sembra che niente, nel gioco della narrativa, riesca più a procurarti piacere. È finita la magia, calato il sipario sulla credulità infantile; forse sei irreversibilmente cresciuto. Dovrai abituarti a nuovi riti. Niente più lunghi pomeriggi in poltrona, in cui dimenticavi tutto e quando alzavi gli occhi dal libro era già buio. D’ora in poi leggerai Vespa e Veltroni la domenica mattina. Da grande, parlerai solo di romanzi scritti cinquant’anni prima. Succede a tutti, come tagliarsi i capelli e ammucchiare i vecchi dischi in uno scatolone: ora è successo anche a te.

Poi invece capita di trovare libri che ti danno quella vecchia, cara sensazione. E così tiri un sospiro di sollievo e pensi: ma allora non era colpa mia. Era colpa loro. Con Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout, a me sembra di essere tornato ai tempi in cui leggevo L’isola del tesoro. La mattina scendo dal letto un po’ prima per leggere il prossimo racconto. La sera rinuncio perfino alla briscola chiamata online. Durante il giorno cammino a testa alta pensando: non è tutto finito. Ci saranno nuove storie da leggere, anche se forse saranno sempre meno e sarà sempre più dura trovarle. Non ho ancora tagliato i miei capelli, come cantavano Crosby Stills Nash & Young.

Intanto, dato che di questi tempi è necessario dire le cose chiare: Olive Kitteridge è una raccolta di racconti. Per confondere le acque, e illudere il lettore occasionale di trovarsi di fronte a un romanzone, sulla quarta di copertina viene paragonato a Via col vento, Furore e Il vecchio e il mare, che non c’entrano nulla uno con l’altro e nemmeno con questo, se non per il fatto che hanno vinto tutti il Premio Pulitzer. Altro colpo basso: nel libro non c’è l’indice. È una raccolta di racconti il cui editore italiano, Fazi, ha deciso di omettere l’indice, in modo che sembri un romanzo. Invece quelli del Pulitzer non si fanno problemi nella motivazione del premio: A collection of 13 short stories set in small-town Maine that packs a cumulative emotional wallop, bound together by polished prose and by Olive, the title character, blunt, flawed and fascinating.

Sono tredici racconti ambientati nella cittadina immaginaria di Crosby, Maine. In alcuni la protagonista è una donna di mezz’età, Olive Kitteridge; in altri Olive è solo una comprimaria; in altri ancora, come La pianista o Concerto d’inverno, entra in scena appena per un paio di righe, tanto per tenere insieme la raccolta. È una donna antipatica, invidiosa, maldicente, oppressiva con il marito e il figlio, e infatti il secondo a un certo punto se ne va a vivere in California, e il primo taglia la corda grazie a un ictus provvidenziale. Ci vuole del coraggio per costruire un libro intorno a un tipo così.. Eppure, miracolosamente, alla fine ti affezioni a Olive, alla storia del suo matrimonio e alle disgrazie del suo vicinato, al paesello di Crosby e ai suoi suicidi, aspiranti suicidi, depressi, accoltellatori di fidanzate, madri di accoltellatori di fidanzate, cacciatori che si fucilano a vicenda, vedove di cacciatori che non escono più di casa, pianiste in là con gli anni e alcolizzate, pretendenti timidi di pianiste in là con gli anni e alcolizzate, rapinatori di farmacie, farmacisti che si innamorano di commesse grigio-topo un po’ ingobbite. Quasi quasi, vorresti andare a viverci.

Libri che Olive Kitteridge mi ricorda:

Peter Orner, Esther Stories (in particolare la sezione intitolata “Storia di un matrimonio”. Ma i racconti della Strout sono meno fulminei, più distesi).

Ann Tyler, Un matrimonio da dilettanti (soprattutto i racconti che riguardano il rapporto tra Henry e Olive).

Alice Munro in Segreti svelati, o in Nemico amico amante: quelle strane storie in cui la vita ordinaria di persone normali prende una piega gialla, e un evento casuale basta a sconvolgere un’esistenza. Il primo racconto, Farmacia, potrebbe essere uno dei suoi per l’abilità con cui salta avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori dalla testa dei personaggi. Non tutti sono alla stessa altezza. Ma Alice Munro è la maestra del racconto, Elizabeth Strout è su un’ottima strada.

Infine, questo libro mi ha riportato dritto a un viaggio di quattro anni fa.

Cose che mi ricordo del Maine: gli astici, anche se tutti pensano che siano aragoste. Ne pescavano a tonnellate, li mangiavi ovunque. Mi ricordo un chiosco per la strada, come i chioschi delle angurie da noi, dove tuffavano gli astici in un pentolone d’acqua bollente e te li servivano con le patatine fritte su un piatto di carta. Mi ricordo l’uomo-astice che ho visto sul retro di un ristorante a Portland. Poco prima stava lavorando all’ingresso, con il suo costume da astice e i volantini e gli slogan per attirare i clienti. Poco dopo aveva fatto una pausa: sul retro del ristorante era entrato in macchina e aveva preso un pacchetto di sigarette dal cruscotto. Ora fumava una sigaretta seduto sul cofano, con la testa d’astice sfilata che gli pendeva sulla schiena, contemplando l’oceano. Per motivi noti soltanto ai lettori di Rick Moody quell’immagine mi ha commosso (“Maschera di pollo era il ritratto della tristezza, sorellina”). Mi ricordo il motel con i cottage di legno e il bosco tutt’intorno, e le penisole lunghissime tra un fiordo e l’altro. Una di queste l’ho percorsa fino al capo. In fondo non c’era un villaggio né un porto né niente, solo un vecchio faro a qualche centinaio di metri dal molo. Per la bassa marea, il pezzo di mare tra il molo e il faro era una distesa di fango. Una turista tedesca seduta su una panchina stava leggendo un libro - se mi fosse successo ora avrei giurato che fosse Olive Kitteridge. Quando la marea è salita, una barchetta a motore ha attraccato proprio davanti a me. A bordo c’erano due ragazzi con la barba e i capelli lunghi, e siccome uno aveva i capelli rossi e l’altro neri, ho pensato che potevamo essere io e il mio migliore amico, che proprio quel giorno mi mancava. I ragazzi hanno scoperto le nasse e cominciato a scaricare gli astici in certi vasconi di plastica, e io ho immaginato me e il mio migliore amico che ci trasferivamo nel Maine e facevamo i pescatori. Ho pensato al vecchio Santiago e al ragazzo, a Forrest Gump e al tenente Dan, a Santiago quando gli squali gli hanno ormai mangiato tutto il pesce e al tenente Dan aggrappato all’albero di vedetta, senza gambe sotto la tempesta, che grida a Dio non ce la fai a tirarmi giù, è tutto qui quello che sai fare? Io e il mio amico saremmo stati pescatori del genere. Dentro le nasse erano rimasti anche dei granchi, ma per qualche motivo nel Maine i granchi non si mangiano, o è vietato pescarli, e così i ragazzi li prendevano e li ributtavano in mare.

Elizabeth Strout, Olive Kitteridge

(Traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Editore)

martedì 15 settembre 2009

MAESTRE RITROVATE

Sono tortuose le strade che portano a leggere un libro. Mi ricordo bene, verso i sedici anni, la sensazione di vertigine che provavo entrando in biblioteca (allora, senza soldi, prendevo i libri in prestito o li rubavo; adesso al contrario ne compro troppi, più di quelli che riesco a leggere; forse quando sarò vecchio tornerò a fregarmene di accumulare carta, e possiederò solo il libro che sto leggendo). Migliaia di titoli, epoche e luoghi, e un esercito di scrittori morti che mi osservavano dagli scaffali, minacciando di crollarmi addosso come gli scheletri di Indiana Jones. Di certo lì dentro c’era quello che faceva per me, però come facevo a trovarlo? Il mio libro mi stava aspettando in qualche angolo di quel labirinto, e io non sapevo nemmeno da dove cominciare (credo di avere letto tutta Isabel Allende e tutto Paul Auster solo per evitare di vagare in preda al panico nella biblioteca di quartiere). Poi ho scoperto il sistema delle scatole cinesi. I libri sono pieni di indizi per arrivare ad altri libri, se uno è pronto a coglierli e a risalire la corrente. Così, a diciassette anni sono stato folgorato da un romanzo chiave per la mia generazione, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Devo averlo riletto tre o quattro volte, e poi ho cominciato a notare le tracce che gli scrittori seminano sempre, perché raccontando una storia sentono il bisogno di dire da dove vengono, di fare i nomi dei loro maestri. Anche Brizzi era stato generoso. Nel romanzo, il protagonista leggeva Due di due di Andrea De Carlo: e io sono tornato in biblioteca, ho preso in prestito Due di due, me ne sono innamorato, in qualche mese ho letto l'opera completa di De Carlo (tuttora penso che i suoi primi cinque o sei libri siano da conservare; poi ne sono arrivati un paio che mi hanno molto deluso; gli ultimi non li ho letti). Un altro indizio seminato da Brizzi: sulla prima pagina del suo romanzo c’era una dedica ad Andrea P. e T., che hanno disegnato e scritto. Questa è stata una ricerca più ardua ma alla fine ho decodificato i nomi di Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli, e così anch’io ho conosciuto le storie di Pier. E poi sono andato avanti a scoperchiare scatole: di Tondelli non solo ho letto Altri libertini, ma ho esplorato il lavoro che faceva con gli aspiranti scrittori, scoprendo che a tutti consigliava Hubert Selby Junior, Ultima fermata a Brooklyn. L’incontro con Selby mi ha spalancato le porte di un mondo in cui sono tuttora immerso. Appena tre gradi di separazione e da Jack Frusciante - quel tascabile nascosto sotto al banco di liceo tra le gomme appiccicate e le barzellette sporche - ero arrivato alla letteratura americana del dopoguerra. (A proposito di americani, di gradi di separazione e pure di banchi di liceo, vi ricordate che cosa legge Holden Caulfield prima di scappare dal collegio? Secondo me non ve lo ricordate. La mia Africa. A Holden non piace mai niente, meno di tutto quello che è finto e pretende di sembrare vero, e invece La mia Africa lo appassiona. Se ne sta lì da solo a leggere Karen Blixen quando arriva il vecchio Stradlater a pulirsi le unghie e rompere i maroni. Così l’ho letto anch’io, cercando di non pensare troppo a Meryl Streep e Robert Redford, anche se non è stato facile. Aveva ragione Holden, è un gran bel libro. Leggendolo si capisce bene come mai piacesse tanto a Salinger.)

Ora, perché ho raccontato questa storia? Perché c’è un nome che mi perseguita da più di dieci anni, cioè dai tempi in cui lessi Ballo di famiglia di David Leavitt. Nell’introduzione a quel libro, Fernanda Pivano faceva parecchi nomi. Era il testo con cui nel 1987 presentava il minimalismo letterario al pubblico italiano, citando ampiamente un saggio-manifesto di un paio d'anni prima, New Voices and Old Values, in cui lo stesso Leavitt definiva le caratteristiche del nuovo movimento. Dunque la Nanda ne individuava il padre e la madre in Raymond Carver e Grace Paley, e gli esponenti più notevoli (“autori ormai quasi tutti popolari anche in Italia, o che lo diventeranno presto”) in Marian Thurm, Peter Cameron, Meg Wolitzer, Bobbie Ann Mason, Ann Beattie, Amy Hempel, Elizabeth Tallent. Nomi di scrittori americani, acqua per mia gola arsa. Io all’epoca non ne conoscevo neanche uno. La mia biblioteca di quartiere ne era sprovvista, ma non era colpa sua: era l’editoria italiana che li aveva persi per strada. Solo in anni più recenti è cominciato un lavoro di recupero dei maestri dimenticati, e pazienza se scrivevano racconti brevi: e così anche noi abbiamo letto le storie di Eudora Welty e Kathrine Mansfield, e di John Cheever, Donald Barthelme, Mary Robinson, Richard Yates. Ora è la volta di Amy Hempel. Ecco il nome che mi perseguitava. I suoi unici testi tradotti in italiano erano fuori dalla circolazione da quasi vent’anni. In America è considerata una maestra e più di una volta, a New York, ho preso in mano uno dei suoi libri, l’ho sfogliato e alla fine l’ho rimesso nello scaffale. Non era diffidenza né altro. Semplicemente, il suo inglese era troppo difficile per il mio. Per fortuna adesso ci ha pensato Mondadori, pubblicando in un solo libro le quattro raccolte di racconti che Amy ha scritto: Ragioni per vivere (1985), Alle porte del regno animale (1990), Rientrata (1997), Il cane del matrimonio (2005). Io ci vado giù pesante con gli editori, specialmente con quelli industriali, ma questa volta mi inchino di fronte a un’operazione che non porterà nessun ritorno economico: dico grazie a chiunque, in Mondadori, abbia avuto l’idea di pubblicare questo libro. I racconti di Amy Hempel sono difficili. Spesso sono lunghi solo due o tre pagine. Per gli appassionati della questione Carver-Lish, riporto la frase che chiude la raccolta: Con uno speciale ringraziamento a Gordon Lish, editor del mio primo e secondo libro, per la conversazione durata trent’anni. Dunque pare che lo spietato aguzzino abbia fatto anche del bene. Non so se con Amy Hempel abbia usato la sua leggendaria mannaia, ma di certo queste storie sono oscure, ermetiche, ellittiche, lavorate in modo maniacale. In questo senso mi ricordano quelle di Lydia Davis. Parlano di persone normali in situazioni normali, anche se nel mondo di Amy Hempel la normalità delle persone è più vicina all’ossessione, alla nevrosi, alla malattia mentale che a una pacifica, monotona lucidità. Alcuni racconti mi hanno spiazzato, a volte anche disturbato, però senza commuovermi. Altri li ho letti più volte perché mi hanno colpito al cuore: credo che tutti siano da rileggere e meditare, senza fretta di passare al successivo, prestando attenzione alle parole. Se siete persone più pazienti di me, uno al giorno potrebbe andar bene. In fondo Amy Hempel ci ha messo vent’anni per scriverne 48. Copio qui un pezzo del quarantaquattresimo, a me è piaciuto molto, poi fate voi.

***

COS’ERANO LE COSE BIANCHE?

Queste stoviglie sono una compagnia di repertorio, recitano una parte in ogni sogno. No, non cominciò così. Disse che le stoviglie recitavano una parte in ogni quadro. L’artista proiettava diapositive delle nature morte che aveva dipinto nell’arco di più di trent’anni. Qualcuno fra il pubblico ristretto e attento chiese: “Quella tazza non era in un quadro di qualche anno fa?”. Sì, infatti, disse l’artista, e anche la caraffa, la terrina e il calice. Chi era la donna nuda appoggiata al tavolo sul quale erano disposte le stoviglie? L’artista non lo disse, e nessuno fra il pubblico ristretto e attento lo chiese.

A me bastava guardare gli oggetti su cui per tanti anni si era concentrata l’attenzione di un uomo di talento. Ero capitata alla conferenza mentre ero diretta altrove, a un appuntamento con uno specialista fissato dalla mia dottoressa. Due giorni prima mi aveva fornito il suo nome e l’indirizzo, e devo ammettere che avevo smesso di ascoltarla, anche se - o proprio perché - era importante. Così, anziché andare nello studio del radiologo, ero entrata nella chiesa sconsacrata dove si teneva la presentazione dell’artista, annunciata fuori con il titolo: “Trovare il mistero nella chiarezza”. Non era forse il contrario di quel che cercava la maggior parte delle persone?

Le stoviglie erano bianche, non smaltate, ed erano dipinte in modo realistico. I vari pezzi proiettavano ombre di lunghezza diversa in ogni dipinto, a seconda del taglio della luce. A volte erano allineati in modo da toccarsi, e a volte rimanevano spazi vuoti tra uno e l’altro. Quegli spazi vuoti erano parte del mistero che l’artista aveva in mente? Voleva che li prendessimo alla lettera, che pensassimo: assenza? Disse che la mente vuole comprendere il significato delle cose, vuole sapere quello che rappresentano. D’accordo, disse l’artista, ecco cosa ho dipinto quel settembre. Sullo schermo apparve un tavolo ben noto - perché da anni figurava nelle sue nature morte - mentre le due stoviglie più alte, la caraffa e il vaso, erano sparite; al loro posto non c’era niente.

Ahhh, fece il pubblico ristretto e attento.

Poi qualcuno chiese all’artista: “Cos’erano le cose bianche?”. Voleva dire le cose bianche negli altri quadri. Che cosa rappresentavano? E l’artista disse che non intendeva rispondere a quella domanda.

Amy Hempel, Ragioni per vivere

(Traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori 2009)


***

La seconda maestra ritrovata è Ann Beattie, di cui minimum fax pubblica il romanzo d’esordio, “Gelide scene d’inverno”, del 1976. La sua assenza dalle librerie italiane è ancora più inspegabile di quella di Amy Hempel, perché la carriera di Ann Beattie non ha nulla di ermetico e oscuro: in 33 anni ha pubblicato sette romanzi e otto raccolte di racconti. Per i racconti, in particolare, è stata più volte accostata a gente come Cheever e Salinger. Era una buona amica di Carver: io l’ho sentita descrivere il loro rapporto nell’unico documentario biografico che esista su di lui, “To write and keep kind”, del 1992 (un brutto film, ma un documento prezioso). Così incrocio le dita e spero che i miei amici di minimum fax abbiano in cantiere anche i suoi racconti, in particolare il best of che in America è uscito una decina d’anni fa con il titolo di “Park City”.

A proposito di titoli: quello originale del romanzo, “Chilly Scenes of Winter”, anticipa il film che pochi anni dopo avrebbe segnato un’epoca: “The Big Chill” (Il grande freddo). Anche in questa storia i personaggi fanno i conti con la fine delle illusioni. Ann Beattie è del ’47, perciò ha vissuto in piena adolescenza la febbre degli anni Sessanta: e infatti la colonna sonora del libro corre parallela a quella del film. Ma nel 1976 Brian, Janis, Jimi e Jim sono già morti da un pezzo, e il protagonista Charles si trova a fare i conti con un padre che non c’è più, una madre che è uscita di testa e ogni tanto prova ad ammazzarsi, un patrigno che potrebbe essere eletto come Americano Medio dell’Anno e un grande amore, Laura, donna sposata che prima va a vivere con Charles, poi torna dal marito (un ex giocatore di football soprannominato “il Bue”), poi lascia marito e figlia e prova a stare da sola, in cerca di se stessa. La storia è più o meno tutta qui. Ma più che la trama, credo che l’importanza di questo libro sia nel ritratto di una generazione: quella dei trentenni colti e benestanti che da ragazzi vissero la rivoluzione culturale e da adulti furono travolti dal riflusso, e nel frattempo avevano perso ogni riferimento riguardo alla famiglia e alla coppia. Janis Joplin canta molto spesso in Gelide scene d’inverno, ma è un passato che sembra già remoto. Il futuro prossimo, annunciato come una cappa di umidità all’orizzonte, è Reagan, lo yuppismo, il vuoto pneumatico degli anni Ottanta. C’è una domanda ricorrente che Laura fa a Charles, il quale è un innamorato all’antica, del tipo ossessivo-persecutorio: perché ti piaccio così tanto? Che cosa trovi di così irresistibile in me? Che cosa ho in fondo di speciale? Forse, Laura, è solo che sei diversa da tutto quello che c’è fuori. A me sembra che succeda così. Forse amare Laura è un modo per conservare quello che è stato, e che è perduto per sempre.

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Per un po’, quando le cose fra loro andavano a gonfie vele, parlando con Laura a Charles era capitato di dimenticarsi che non avevano passato insieme tutta la vita. Le nominava i suoi compagni delle medie e dava per scontato che li conoscesse anche lei, le raccontava di come aveva mentito per non entrare nell’esercito e si dimenticava che non le aveva mai detto una parola sull’esercito. Laura non gli raccontava mai molto del suo passato. La madre era morta quando lei andava alle superiori. Charles non ha idea di che fine abbia fatto il padre, se sia vivo o morto. E non si ricorda dov’è andata alle superiori. In Virginia, ma quale parte della Virginia? Durante le superiori ha lavorato come cameriera. Ma gli ha mai raccontato com’era, fare la cameriera? Gli ha mai raccontato un aneddoto buffo? Gli pare di no. Laura ha un fratello che gestisce un rifugio per cacciatori. Non lo vede da anni. Una volta per Natale le ha mandato una testa di cervo. E poi che altro, che altro sa di Laura?

I capelli di Laura sono sempre elettrici. Lei cosparge la spazzola di lacca spray, sperando di risolvere così il problema. Il suo Beatle preferito è George Harrison. Non ha mai dovuto portare l’apparecchio per i denti. Le piacciono i saponi costosi, dal profumo delicato. Ha i capelli lunghi e mossi. Quando si è comprata la prima macchina era esaltatissima, anche se era una macchina vecchia. All’università prendeva voti discreti. La prima volta che ha bevuto è stata a diciott’anni, un rum collins. Adesso beve scotch. Le fanno pena le giraffe. Non le importa cosa ci mettono sulla pizza, purché non siano alici. Però le piace la Caesar Salad, ed è rimasta sorpresa quando ha scoperto che dentro c’erano anche le alici tritate. Le piace Jules e Jim. Ha pensato di fare la regista. Una volta ha visto Otto Preminger per strada. Certo che è sicura che era lui. Cuoceva striscioline di carne, mandorle e verdure nel wok, coltivava violette che avevano gli stessi colori dei suoi saponi a tinte pastello, si faceva la doccia con l’acqua troppo calda per lui. Una volta gli ha chiesto perché si festeggiava il Primo Maggio. Non si ricorda bene i nomi e le date e non si sente troppo in colpa per questo. Ha i piedi lunghi. I piedi lunghi e magri. I macellai sono gentili con lei, i benzinai le puliscono il parabrezza.

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Ann Beattie, Gelide scene d’inverno

(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2009)

lunedì 7 settembre 2009

IN LETTURA

Tornato dalla spedizione al Momboso, sconfitto nel corpo ma non nello spirito, ricomincio dai miei americani. Bisognerebbe parlare di Fernanda Pivano ma vorrei farlo bene, dopo avere ordinato le idee. Per ora, ecco un po’ di libri letti e in lettura.

Jay McInerney, L’ultimo scapolo (Bompiani).

Ecco la raccolta dei racconti scritti da McInerney in una carriera di lavoro. Tra il primo (“Sono le sei del mattino. Sai dove ti trovi?”, che poi fu sviluppato per diventare Le mille luci di New York) e l’ultimo (“L’ultimo scapolo”, storia di un playboy invecchiato male che in un certo senso chiude il cerchio dello yuppismo), sono passati 25 anni. A me hanno colpito due fatti: primo, la maestria con cui queste storie sono scritte; secondo, il vuoto assoluto che c'è dentro. Qui gli uomini vogliono andare a letto con donne giovani, e le donne sposare uomini ricchi. L’esperienza umana, nel mondo narrativo di McInerney, si riduce più o meno a questo. Fanno eccezione pochi racconti, tra cui il mio preferito, “Corteo”: a New York una donna, che aveva lavorato come volontaria a Ground Zero nei giorni successivi all’Undici Settembre, si ritrova in mezzo a un corteo di protesta contro la guerra in Iraq. L’atmosfera si surriscalda, i manifestanti vorrebbero arrivare davanti al palazzo dell’ONU ma le vie d’accesso sono state transennate, volano slogan sempre più furiosi, qualcuno cerca di sfondare e interviene la polizia a cavallo. In mezzo agli scontri la donna ha questa visione: un poliziotto che lei ricorda bene, perché nel settembre 2001 avevano lavorato insieme, adesso mena manganellate alla folla dall’alto del suo cavallo. Così scopre che quei tempi, in cui la tragedia delle Torri aveva unito i newyorkesi (e forse gli americani) in un unico popolo, sono finiti per sempre. La scena è bellissima, poi però salta di nuovo fuori il chiodo fisso di McInerney: la donna fugge verso casa pensando che ha voglia soltanto di farsi scopare fino a svenire. E va bè, ognuno ha i suoi problemi.

Richard Yates, Una buona scuola (minimum fax)

Il romanzo è un gradino sotto il solito livello di Yates. Non significa che sia un bidone, ma non colpisce duro come gli altri. Il problema maggiore secondo me è nella narrazione collettiva: c’è un personaggio più o meno centrale (e infatti il primo e l’ultimo capitolo, che sembrano aggiunti su consiglio di un editor, cercano di elevarlo a protagonista), ma tutto il libro è costruito in montaggio alternato, seguendo le vicende di studenti, professori, mogli e figlie di professori, un piccolo mondo chiuso all’interno di un collegio maschile, nel New England dei primi anni Quaranta. Tecnicamente, il tentativo di costruire un affresco generazionale sconta un prezzo salato: io non sono riuscito ad affezionarmi a un solo personaggio. Per epoca e ambientazione mi è stato difficile non pensare continuamente a due modelli: uno è L’attimo fuggente, l’altro Il giovane Holden. Forse è proprio per colpa di Holden che Yates non se l’è sentita di seguire da vicino il suo alter ego, un ragazzino di New York che viene spedito in collegio, e dopo un inizio durissimo comincia a farsi strada scrivendo sul giornalino scolastico. Penso che il libro sarebbe stato migliore se si fosse concentrato su di lui.

In lettura: David Foster Wallace, Questa è l’acqua (Einaudi)

Non so, forse dovrei fondare un comitato di protesta contro le bandelle di Einaudi Stile Libero. Ormai non ne trovo una che dica onestamente che cosa c’è dentro il libro. Su questa leggo: “I sei racconti di Questa è l’acqua, scritti tra il 1984 e il 2005, offrono uno sguardo di insieme sulla straordinaria avventura artistica di Wallace, e una summa delle sue tematiche nei diversi stili con cui le ha affrontate ed esaltate”. Poi apro il libro e, per un mio vizio incurabile, vado a controllare le date dei racconti: ce n’è uno del 1984, due del 1987, uno del 1989, uno del 1991. Poi c’è la trascrizione di un discorso tenuto da Wallace nel 2005. Dunque si tratta, in realtà, di cinque racconti giovanili (Wallace esordisce nel 1987 con La scopa del sistema, e la sua prima raccolta di racconti, La ragazza dai capelli strani, è del 1989), più un saggio recente. Non sei racconti. Non sei racconti scritti tra il 1984 e il 2005. Non uno sguardo di insieme sulla straordinaria avventura artistica né una summa delle sue tematiche, ma piuttosto, come diceva dei suoi primi racconti Thomas Pynchon, un lento apprendistato, la palestra di uno scrittore che stava per diventare grande.

Dopodiché, come al solito, le balle redazionali non c’entrano nulla con la qualità del libro. Nella postfazione, il curatore Luca Briasco illustra molto chiaramente la genesi e la natura di questa raccolta. Io per ora ho letto i primi tre racconti e posso dire che mi sembrano buoni, ma assolutamente inferiori a quelli della Ragazza dai capelli strani (e infatti qualcuno, un editor o lo stesso Wallace, nel 1989 ha deciso di lasciarli fuori, e in seguito di non recuperarli per altre antologie). Invece il testo finale, “Questa è l’acqua”, è un piccolo capolavoro per chi, come me, ha il culto della scrittura raccontata dagli scrittori. Parla, credo, della consapevolezza e della lucidità, della compassione e dell’immedesimazione, dell’attenzione costante alla sostanza in cui siamo immersi, le doti necessarie a un bravo scrittore ma anche a un essere umano decente. Il testo vale da solo il prezzo esorbitante del libro (un dettaglio a cui non faccio mai caso, ma questa volta è un tascabile da 16,50 euro per 166 pagine, cioè 10 centesimi a cartella: mi sono perso qualche impennata recente dell’inflazione?).

In lettura: Ann Beattie, Gelide scene d’inverno (minimum fax)

Ma questa è un’altra storia e, come direbbe Michael Ende, la racconteremo un’altra volta. Prevede anche una sorpresa, perciò segnatevi la data del 9 ottobre e state all’occhio.

martedì 5 maggio 2009

MOBY DICK

Forse non ci crederete ma sto leggendo Moby Dick. Per lo meno, la mia amica Bo non ci crede. Dice che non è possibile, che uno come me non può farcela, che un maniaco del racconto breve cederà le armi di fronte a quelle 600 pagine di vita a bordo, all’antiquata e altisonante traduzione di Pavese, a tutti i tecnicismi sulle balene. In realtà, ho la sensazione che quello di cui ho bisogno adesso siano proprio i tecnicismi sulle balene. Ho la sensazione che, per come mi sento adesso, la cosa più giusta da leggere sia un capitolo intitolato La testa del capodoglio. Veduta comparata. Un capitolo intitolato Delle balene in dipinto, in denti, in legno, in lastre di ferro, in pietra, in montagna e in stelle. Un capitolo intitolato La grandezza della balena diminuisce? Dovrà scomparire? Forse lo pensava anche Pavese, traducendolo: e magari tuffarsi dentro questo mare avrà fatto dimenticare a Cesare, almeno per qualche tempo, il suo amore ballerina. Il romanzo ha 135 capitoli di quattro o cinque pagine ciascuno, e se ne leggo uno al giorno all’inizio di settembre avrò finito. Sarà un buon compagno per la mia estate nei boschi.

L’altra parte di verità è che ho scoperto Melville scrivendo il primo capitolo della guida a New York, e sono stato catturato dalla sua biografia. Lasciate che la riassuma qui. Herman Melvill nacque in Pearl Street a Manhattan, la strada dei pescatori di ostriche, nel 1819. La madre veniva da una dinastia di proprietari terrieri olandesi, il padre da mercanti inglesi, ed entrambi i nonni erano eroi di guerra della rivoluzione. Due famiglie ricche dell’alta società americana. Anche Herman sarebbe stato destinato a un’esistenza tranquilla, se il padre non fosse andato in bancarotta nel 1830, e morto subito dopo. Doveva aver lasciato parecchi debiti o qualche cattivo ricordo, perché a quel punto la vedova cambiò il cognome dei figli da Melvill a Melville, e li portò a vivere in campagna, nelle tenute dei nonni a nord di New York. Ma Herman era cresciuto in città. Aveva visto il porto, e forse assomigliava al padre. Appena finita la scuola, nel 1839, decise di imbarcarsi: e tra un viaggio e l’altro, tra un mercantile e una nave militare, tra una spedizione ai Caraibi e una traversata dell’Atlantico, rimase in mare per cinque anni, e quando alla fine scese ne aveva venticinque e voleva fare lo scrittore. Scrisse due romanzi, Typee e Omoo, di immediato successo e scarso valore letterario, storie d’amore e d'avventura tra marinai e indigene dei Mari del Sud. Si sposò, e con i compensi dei primi libri comprò una fattoria dalle parti di Saratoga, dove ebbe la fortuna o la maledizione di trovare un vicino eccezionale: Nathaniel Hawthorne. Era il 1851. Non sappiamo quanta parte, nella svolta letteraria di Melville, sia dovuta all’influsso di Hawthorne, ma Moby Dick è dedicato a lui: In segno della mia ammirazione per il suo genio. Dicevo fortuna o maledizione, perché il libro vendette in tutto poco più di 500 copie. Il pubblico non apprezzò il passaggio dalle sensuali danzatrici hawaiane al capitano zoppo ossessionato dalla balena bianca, e per la carriera di Melville fu l’inizio della fine. Scrisse ancora qualcosa, soprattutto e poesie e racconti brevi, tra cui il suo capolavoro Bartleby lo scrivano. Della storia di Bartleby sono state date decine di interpretazioni - potrebbe essere un’opera sul conformismo, sull’alienazione, sulla disobbedienza, sulla sovversione - ma letteralmente è la storia di uno che smette di scrivere, e poi smette di fare tutto il resto, e alla fine si lascia morire. Preferirei di no. Anche Melville preferì di no, e morì del tutto sconosciuto nel 1891, dopo che la fattoria era fallita e lui aveva lavorato per vent’anni alla dogana del porto di New York. E io sono qui, 158 anni dopo che è stato scritto, a leggere un romanzo che comincia così:

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - non importa quanti esattamente - avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e di vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e regolare la circolazione. Ogni volta che mi sorprendo con le labbra atteggiate al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo, per me, sta al posto del proiettile e della pistola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io invece mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.

Herman Melville, Moby Dick, o la Balena

domenica 22 marzo 2009

CATERINA SULLA SOGLIA

Non ci sono soltanto brutte notizie in questi giorni, ed è ancora possibile fare libri senza fare i tagliagole, i commercianti col dito sulla bilancia, i pubblicitari. Esce, per l’editore Terre di Mezzo, un libro che ho a cuore come se fosse mio: Caterina sulla soglia, di Susanna Bissoli. Non so nemmeno da dove cominciare a parlare di questa raccolta di racconti. Forse da qui: verso la fine del 2006 la Shake Edizioni, che nella sua lunga e gloriosa storia si è sempre occupata di saggistica politica, mi aveva proposto di curare e dirigere una collana di narrativa. Io avevo accettato con l’entusiasmo di un mozzo a cui viene offerto di imbarcarsi su una nave pirata. Per prima cosa, mi era sembrata una buona idea organizzare una serie di incontri per raccogliere consigli. Uno fu con Davide Musso, editor di Terre di Mezzo, che proprio allora cominciava un’avventura simile: dividendo un panino e una birra in piazza Vetra ci raccontammo le nostre difficoltà e i nostri desideri, promettendoci aiuto reciproco se ce ne fosse stato bisogno. Un altro incontro fu con Matteo B.Bianchi, questa volta a casa mia, davanti a un cosciotto d’agnello innaffiato da succo d’uva: Matteo dirige da anni una delle migliori riviste letterarie italiane, e quanto a fiuto per il talento non lo batte nessuno. Durante quella cena, tra i nomi che Matteo mi fece c’era appunto quello di Susanna Bissoli. Era il primo della lista. Il modo in cui me ne parlava era più o meno questo: è un mistero che non l’abbia ancora pubblicata nessuno, perché secondo me è bravissima.

Da allora sono successe un po’ di cose. Tra queste il laboratorio di scrittura al Circolo Malacarne di Verona, che Susanna mi ha invitato a tenere completamente al buio, senza conoscermi né avermi mai visto in faccia. È stato il luogo magico in cui è nata la nostra amicizia, oltre ad alcuni dei racconti pubblicati in questo libro. Susanna usciva da una lunga malattia, ed era in uno stato di grazia tale che bastava dirle: scrivi una cartolina a un vecchio amico, o racconta la prima bugia che ricordi di aver detto da bambina, o descrivi una foto di famiglia, e lei se ne usciva con una storia che era già pronta per la tipografia. Tra le altre cose successe in quel periodo, l’avventura con la Shake è finita ancora prima di cominciare. Non è che sono sceso dalla nave, è proprio che sono rimasto all’osteria del porto. Ho messo il naso dentro il mondo editoriale e ho capito che non era il mio mestiere. A quel punto sono tornato da Davide e, memore della vecchia promessa, gli ho detto più o meno quello che Matteo aveva detto a me: devi pubblicarla, perché è bravissima. E adesso, ragazzi, finalmente ci siamo.

Ho passato molto tempo a scrivere e riscrivere un testo che potesse accompagnare questo libro, e ora non saprei immaginarne uno diverso. Eccolo qui. Le vite delle persone non sono romanzi, sono raccolte di racconti. Frammentarie, discontinue, disseminate di buchi neri e illuminate da verità intraviste, manipolate dalla memoria che filtra, cancella, riordina, riscrive. È il modo in cui Susanna Bissoli ci racconta le soglie di Caterina. Infilando nella cordicella del suo primo libro le perline colorate di tutti gli addii e le partenze, tutte le esperienze di perdita che una vita può sopportare: dell’infanzia, della madre, dell’amore, del corpo, della terra sotto i piedi. Leggendo queste sedici storie, la voce che mi suona in testa è quella di Grace Paley. Anche la scrittura di Susanna riesce a maneggiare la malattia e il dolore, perfino a ballare con la morte restando miracolosamente gioiosa. La gioia che c’è dentro è gioia dell’incontro, di avere a che fare con altri esseri umani, di scoprirli tutti diversi e tutti strani. È gioia di ricordare, raccontare, giocare con le parole della memoria: il dialetto veneto dell’infanzia, il greco della libertà e dell’amore, l’italiano zoppo dei migranti in cui, prigioniera di casa sua, a Caterina sembra di ritrovare la voce del mondo.

A volte è difficile dire che cosa si prova, e a volte invece è facilissimo. Quando è uscito il mio primo libro ero felice e triste: felice perché il mio grande sogno si stava realizzando, e triste perché da quel momento bisognava trovarne un altro, o rassegnarsi a vivere senza. Oggi, invece, sono felice e basta. Brava Susi, non so neanche più quante volte te l'ho detto. Brava. Ti mando un enorme abbraccio.

martedì 17 marzo 2009

PRINCIPIANTI

Dieci anni fa, il 27 aprile 1999, sulle pagine culturali di Repubblica usciva un articolo di Alessandro Baricco. Il titolo: L’uomo che riscriveva Carver. Il contenuto: Baricco fa un viaggio in America, e nella biblioteca di una piccola università trova i dattiloscritti originali della seconda raccolta di Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, corretti a mano dall’editor Gordon Lish. La lettura dei testi ha un esito sorprendente. Lish ha cambiato il titolo e il finale di quasi tutti i racconti, ha tagliato interi paragrafi, ha perfino riscritto di suo pugno alcune frasi. Nell’articolo Baricco sottolinea diversi difetti dei testi originali, e tira queste conclusioni: il Carver genuino era pur sempre un bravo scrittore, ma non il maestro che credevamo noi. Il genio minimalista, quello che avrebbe influenzato tutta la letteratura occidentale, era un corpo con due teste, quelle di Raymond Carver e di Gordon Lish. Il tono in cui queste conclusioni venivano tirate era più o meno il seguente: cari lettori di Carver, sapete che cosa ho scoperto? Che siamo stati truffati. Il nostro scrittore preferito era in realtà un’abile operazione editoriale.
Fino a qui tutto bene. Il mio Carver preferito è quello di Cattedrale, e la scoperta non mi ha ferito più di tanto. Ho sempre pensato che quei racconti picchiano duro al primo colpo, ma alla distanza rivelano una certa freddezza meccanica, tradiscono il lavoro fatto a tavolino. La domanda però era questa: come mai Baricco si prende la briga di andare fino a Bloomington, Indiana, chiedere il fondo Lish a una gentile bibliotecaria, tirare giù uno scatolone pieno di dattiloscritti e perdere tutto quel tempo a studiarli, per raccontare a noi questa storia? È una cosa che ha fatto perché gli andava, o ce l’ha mandato qualcuno? Ce l’ha mandato Repubblica? E in questo caso perché?
Dettaglio numero uno. La notizia non era esattamente uno scoop. Era uscita, pari pari, sul New York Times di quasi un anno prima, nell’estate del 1998. Così la luce sulla questione comincia a cambiare: nell’aprile del 1999 la redazione culturale di Repubblica decide di rispolverare una vecchia notizia, mandando uno dei più famosi scrittori italiani negli Stati Uniti per compiere ricerche inutili, dato che tutto era già stato verificato e descritto da un giornalista del New York Times mesi prima.
Dettaglio numero due. All'epoca dell’uscita dell’articolo, la casa editrice minimum fax si era appena aggiudicata i diritti italiani dell’opera di Carver, battendo nella gara un colosso come Einaudi. Il piano editoriale prevedeva di pubblicare uno alla volta tutti i suoi libri, una decina circa, in una collana progettata apposta per lui. E sapete quando uscì il primo di questi libri (Racconti in forma di poesia)? I più cinici di voi l’avranno già indovinato. Marzo 1999. Appena prima dell'uscita dell'articolo.
Insomma la teoria del complotto è formulata così: Einaudi perde l’asta per pubblicare Carver e decide di compiere un’azione di sabotaggio. Prende un vecchio articolo del New York Times. Assolda il sicario Baricco. Si compra la pagina culturale di Repubblica (che non dovrebbe essere in vendita, non essendo una pagina pubblicitaria, ma questo è un altro discorso; e un altro discorso ancora è come mai Baricco si presti a questa roba). E spara la bordata del 27 aprile: Carver è una truffa, un’operazione commerciale.
Ora mi chiederete: come mai salti fuori con questa storia a dieci anni di distanza? Perché, come raccontavo tempo fa, i diritti editoriali a un certo punto scadono. La durata dipende dal contratto che era stato firmato, e in questo caso era proprio di dieci anni. Nel 2008, scaduto l'accordo con minimum fax, la vedova di Carver ha rivenduto tutto a Einaudi, immagino cedendo a un’offerta economica che non si poteva rifiutare. In questi giorni esce il primo libro, e sapete che libro è? Si intitola Principianti e non risulta nella bibliografia ufficiale di Raymond Carver. Sono le versioni originali dei suoi racconti, ancora intatte dall’accetta-bisturi di Gordon Lish. Le cartelline che quel giorno del 1999 Baricco era andato a cercare nella biblioteca dell’università di Bloomington, Indiana. Proprio loro.
Ora, io sono contento che questo libro esista. Stamattina, appena ho saputo che era uscito, sono corso in libreria a comprarmelo, e nel viaggio in treno verso casa mi sono letto il primo racconto, Perché non ballate?, che nella versione ufficiale so quasi a memoria (In cucina si versò un altro bicchiere e guardò i mobili della camera da letto sistemati nel giardino. La parte di lui, la parte di lei). È sempre un bel racconto, solo un po’ meno secco e tagliente di quello che conoscevo. Per adesso do ragione a Baricco: la versione ritoccata da Lish è migliore. Quando li avrò letti tutti, magari ne riparleremo. Intanto però sto sogghignando, perché mi chiedo questa cosa: come lo recensirà Repubblica? Gli dedicherà un paginone domenica prossima? Parlerà di capolavoro ritrovato o tirerà fuori quel suo vecchio giudizio, per cui questo libro è un Carver incompiuto, materia prima ancora grezza, mancante del lavoro geniale del suo editor? E se cambieranno opinione, si vergogneranno almeno un po’? Io non ho dubbi su come andrà a finire. Accetto scommesse e aspetto seduto in riva al fiume, in attesa che passi il cadavere del mio nemico.

domenica 15 marzo 2009

L'AMICO DEL PAZZO

Certi libri fanno una brutta fine. Il nome di questa fine evoca, a scelta, i roghi delle streghe o l’inferno a cui credevamo da bambini, e io preferisco pensare che sia una metafora, che non esista davvero il locale caldaie con l’operaio che spala il carbone. L’uomo in canottiera che riceve carriole di libri non venduti e non rubati, forse nemmeno sfogliati da una mano curiosa in libreria, o proprio mai esposti sugli scaffali - i libri che hanno passato la loro misera vita dentro uno scatolone, libri a cui è stata negata perfino la possibilità di realizzare il proprio senso sulla terra - l’operaio, dicevo, che vedendo arrivare un altro carico sputa una bestemmia e appoggia la pala al muro, si asciuga la fronte con un fazzoletto sporco, e poi materialmente prende queste carriole di libri non letti e le butta nel fuoco. In ogni caso, di qualunque forma di distruzione sia metafora la parola macero, la cosa funziona più o meno così. A un certo punto un editore decide di liberarsi di un titolo. Sarà perché ha venduto poco, oppure ai suoi tempi ha venduto bene ma ormai non lo chiede più nessuno: e ci sarà una segretarietta secca, per citare il vecchio Bianciardi, che a un certo punto va dal capo e riferisce che fare il rendiconto annuale di quelle poche copie in movimento costa più che ritirarle dalla circolazione. E così il capo mette la firma su un foglio contenente la parola macero. Vuol dire che, da quel momento in poi, il titolo in questione è fuori catalogo. Non più in ristampa. Esaurito.

È appena successo a Marco Drago e al suo libro d’esordio, L’amico del pazzo (Feltrinelli 1998). Siccome Drago, dietro quella scorza da cinico, è un inguaribile sentimentale, mi ha proposto di organizzare un reading che faccia da funerale al pazzo, per non lasciarlo finire nella fossa comune del cimitero di Vienna in un grigio pomeriggio piovoso ma dirgli addio in grande stile - un reading che sia l’equivalente letterario della barchetta di giunchi su cui si allontanava il cadavere di Nicholas Ray, o della palla di cannone con cui furono sparate in orbita le ceneri di Hunter Thompson. E così mi ha passato il libro che ho qui sul tavolo in questo momento. E io, che per qualche motivo me l’ero perso (nel ’98 chissà cosa leggevo, sarò stato nella fase di transizione tra Herman Hesse e Bukowski), prima ho dato un’occhiata al racconto per il reading, e poi l’ho lasciato sul tavolino dell’oblio dove sono ammucchiati i libri in corso, e poi invece la settimana scorsa da lì mi ha chiamato, si è fatto raccogliere e sfogliare, e in una lunga notte di passione me lo sono letto tutto.

Adesso posso dire che L’amico del pazzo è un bellissimo libro. Più che racconti sono monologhi deliranti, il flusso di coscienza di una mente pericolosa.

È un libro in cui un figlio racconta la vita dei suoi genitori, cominciando dalla fine: Gli ultimi anni mia madre metteva La Vestaglia. Dopo un po’ tutti finiamo così, che lo si voglia o no. Tutti così. Ad avanzare tempo per fermare il tempo. A non voler più curarsi di cose fastidiose e superflue come l’aspetto esteriore. Come dire: devo affrontare la devastazione dentro di me, non m’importa della devastazione fuori di me.

È un libro in cui un operaio piemontese, dopo essere stato licenziato dal supermercato in cui lavora, accetta l’offerta di fare l’attore porno a Verona. Lui dà per scontato che non ci sia più posto per lui in un certo mondo normale che aveva frequentato fino a poco prima. Pensa che, una volta in quelle stanze, si debba dire addio alle piccole minchiatine tipo amici, cene in compagnia, famiglia, progetti, progetti, progetti. Una volta che vedi una donna adulta, istruita almeno fino alla quinta superiore, bellina, discretamente intelligente, prendere un pesce rosso vivo e usarlo dentro e fuori il suo buco preferito. Una volta che vedi anche cose come quella, pensa lui, rimane inutile darsi una ragione, spiegarsi, giustificare la propria presenza. Entrasse di colpo un ceffo con un fucile automatico e iniziasse a sparare alla cazzo, nessuno si azzarderebbe a stupirsi.

È un libro ambientato tra le dolci colline delle Langhe, quelle dei vini nobili e delle sagre del tartufo: Ci sono posti che non vorrei mai vedere e uno di questi posti è Alessandria. I primi palazzi alla periferia sud di Alessandria mi atterriscono, e poi anche questa strada per Alba. Ci sono persone che lavorano nelle vigne alle undici di sera. Cani che escono abbaiando dai cancelli e puntano alle caviglie di chi guida (hanno la speranza di trapassare coi denti la lamiera della macchina). Ci sono ragazzini ai bordi della strada, e paesi così brutti da far male.

E poi è un libro che fa ridere, come quando l’amico del pazzo perde la carta del bancomat, il feticcio che lo teneva aggrappato alla vita e agli ultimi residui di lucidità: Alla banca mi dicono che è stato un malinteso e che zero problemi per riavere la carta. In una quindicina di giorni. Come in una quindicina di giorni? Dio madonna, ma questa è la periferia dell’impero, allora. Dove abito? A Karatobe nel Kazakistan interno o in una città italiana? Mentre chiedo quello a una specie di cassiere, la tipa dietro di me dice: “È stato a Karatobe? Mio fratello fa il parroco lì”. Al che io la guardo e le dico che era una battuta e che dire Karatobe per me era come dire Kizil Irmak nel Turkmenistan. Lei mi dice: “È stato anche lì, lo conosce? Padre Romeo, lo conosce?”

E ora tutte queste parole andranno perdute come lacrime nella pioggia. Quando sei andato a letto, quella notte, con il tuo primo libro sotto il cuscino, pensando che il tuo desiderio più grande si era appena realizzato, non immaginavi che sarebbe finita così, non è vero?