lunedì 27 dicembre 2010
CARO GIORGIO
Ma non ci raccontiamo balle, il problema della lettura ce l’ho. Per lunghi periodi, la maggior parte dei libri in cui m’imbatto non mi piace. Certe volte mi sento un lettore finito: diventerò come quelli che dicono “io non leggo romanzi”, e se ne fanno un vanto? Conosco diverse persone così, e alcune le stimo pure. La narrativa a loro non interessa. È come se ci vedessero il trucco, come quando diventi grande e smetti di farti fregare dai prestigiatori, e allora leggono soltanto libri che dicono qualcosa di vero sul mondo. A me sembra un destino tristissimo a cui sono condannato. Ma per fortuna, un paio di volte all’anno, arriva un nuovo scrittore a sconvolgermi la vita, farmi sentire come la prima volta in cui ho scoperto Hemingway o Salinger. Prego che continui a succedere per sempre.
E poi ho scritto, che cosa ho scritto? Ho finito un racconto che mi portavo dietro da un bel po’. Ne ho cominciato e finito un altro. E ne ho cominciato un altro ancora. Non sono un grafomane come te: aver lavorato a tre racconti per me è un primato, visto che in 14 anni ne ho scritti una ventina. Anche questo mi dà da pensare. Sarò diventato meno rigoroso, o finalmente la scrittura comincia a venirmi facile? Sinceramente, propendo per la prima. Sento che sto perdendo colpi. Una volta un racconto non era finito finché non lo trovavo perfetto (non vuol dire che lo fosse, ma io dopo mille riscritture non avrei più spostato una virgola). Ora sono sceso a compromessi con l’imperfezione. Sono diventato indulgente. La scrittura - la mia e quella degli altri - mi sembra difettosa in modo inevitabile, dunque perché impazzire cercando la parola giusta? Facciamo quello che riusciamo a fare e passiamo oltre. Allo stesso tempo, sono convinto che arrendersi ai propri limiti equivalga a decretare la propria morte di scrittore. Perciò resisto. Riscrivo. Faccio un viaggio di due ore in macchina tormentandomi su una frase che non torna. Dal primo gennaio ricomincio a cercare la perfezione, lo giuro.
Quanto al problema del tempo che passa, quest’anno ne ho compiuti trentadue. Lavoro da dieci, anche se non ho mai avuto cose come un ufficio o uno stipendio. Diciamo che da dieci anni ho la partita Iva. Da otto sto con la stessa donna. Da sei possiedo una casa e sono ufficialmente uno scrittore. Questi numeri si accumulano alle mie spalle, mi strappano via dalla giovinezza (l’età in cui non sai cosa vuoi fare, con chi vuoi stare, dove vuoi vivere) e mi catapultano nell’età adulta (in cui hai una famiglia, un lavoro, un posto nel mondo). Comunque adesso, con un po’ di distanza critica, posso dire che il primo libro pubblicato è stato il passaggio più importante della mia vita. Se dovessi trovare una soglia, sceglierei quella. Il giorno in cui il libro è uscito sono andato a rifarmi la carta d’identità, per correggere la voce professione. Prima sentivo di essere uno scrittore, però lo sapevo soltanto io. Poi il mondo l’ha riconosciuto. Il conflitto tra quello che ero dentro, e quello che gli altri vedevano da fuori, si è risolto di colpo. È stata una gran fortuna. Immagino ci sia gente che si porta dietro quel conflitto per tutta la vita. Però, è stata anche una condanna. Voglio dire: ora che sono uno scrittore, posso ancora sentirmi un essere umano puro e semplice? Oppure sono (sento di esistere) in quanto scrivo? Ho paura che per me sia così. E non mi piace mica tanto come idea.
Insomma quest’anno ho passato sei mesi in una baita in mezzo ai boschi, gli altri sei in un’osteria della Bovisa che tu conosci bene. È un’immagine perfetta della mia vita, spaccata in due tra quando scrivo e quando non scrivo. Quando non scrivo, come diceva Tondelli, io non mi sento una persona che sta facendo qualcosa, come guidare, cucinare, incontrare un amico: mi sento uno scrittore che non scrive. E non sono per nulla contento di sentirmi così, definito da una negazione. Non mi sembra giusto nei confronti degli altri, né delle potenzialità della mia vita. Preferirei, posando la penna, smettere di essere uno scrittore, tornare una persona pura e semplice, essere uno che prepara la polenta o incontra un amico. Invece sono lì e non ci sono. Sento sempre nelle orecchie la voce fuori campo di Willard, mentre scruta le strade di Saigon tra le asticelle della veneziana: “Quand’ero qui volevo essere a casa. E quand’ero a casa, pensavo soltanto a ritornare nella giungla”. Anche per me è così. Quando sono davanti al mio quaderno mi manca immensamente il genere umano, però poi, se mi ritrovo in mezzo agli altri, ho l’ossessione di isolarmi e scrivere. Anche per te è così? Nell’anno che arriva, se posso esprimere un desiderio, vorrei affrontare questo problema. Oppure andare alla ricerca di Kurtz, e farmi accogliere una volta per tutte nel suo cuore di tenebra.
sabato 11 dicembre 2010
QUESTO BACIO VADA AL MONDO INTERO
Un racconto parla di Corrigan, un frate irlandese innamorato dei poveri della terra, che parte da Dublino e trova nel Bronx il luogo in cui erigere la sua missione. Va ad abitare in una topaia, comincia a prendersi cura delle prostitute che battono sotto casa. Viene pestato e cacciato più volte dai loro protettori, ma ogni mattina torna e infine riesce a farsi accettare. Porta caffè d’inverno, procura eroina a chi non può farne a meno, offre il suo appartamento come riparo. Si affeziona molto a una ragazza di vent’anni, Jazzlyn, prostituta nera dalla sensualità dirompente, madre di due bambine.
Un altro racconto ancora parla di Tillie, madre di Jazzlyn e prostituta lei stessa, che è andata in carcere al posto della figlia confessando un furto mai commesso. Dopo l’incidente è angosciata per le nipotine, e la sua necessità immediata diventa uscire di prigione e occuparsi di loro. Ma Tillie non è una persona diplomatica: ha insultato il giudice durante il processo, si è beccata una pena ulteriore per aver mollato un calcio in faccia a una sorvegliante. Un giorno riceve una visita da una sconosciuta: è Lara, divorata dai sensi di colpa, che ha lasciato Blaine e si è messa sulle tracce della ragazza morta, cercando un modo per espiare i suoi peccati.
E via così. Sono tredici racconti intrecciati dalle vite dei personaggi, tutti diversamente falliti eppure pieni di passione, nella New York sporca, violenta e tossica degli anni Settanta. E non solo si incontrano tra loro. Tutti quanti, a un certo punto della propria storia, attraversano quella mattina e quel luogo, il 7 agosto 1974, alzano gli occhi al cielo e per un breve istante sono toccati dalla grazia. Perché quella del funambolo non è una provocazione, è un’opera d’arte. La città lì sotto sta toccando il fondo della miseria umana. E lui, sospeso per aria in una tuta nera, ha deciso di mostrarle che cos’è la bellezza.
Si ritrovarono in capannelli accanto ai semafori di Church e Dey Street; o raccolti sotto la tenda del negozio di Sam il barbiere o accalcati all’ingresso di Charlie’s Audio. Un piccolo teatro di uomini e donne si stringeva contro l’inferriata della cappella di St. Paul, altri sgomitavano per farsi spazio alle finestre del Woolworth Building. Avvocati. Ragazzi d’ascensore. Medici. Addetti alle pulizie o camerieri. Commercianti di diamanti. Pescivendoli. Puttane in jeans tristissimi. Ciascuno rassicurato dalla presenza del vicino. Stenografe. Operatori finanziari. Fattorini. Un fabbro nel suo furgone all’angolo tra Dey e Broadway. Un portalettere in bicicletta appoggiato a un lampione sulla West. Un alcolista paonazzo alla ricerca del primo goccio del mattino.
L’uomo si era sollevato dall’inchino e reggeva tra le mani una lunga barra sottile, la scuoteva soppesandola, facendola oscillare su e giù nell’aria, una lunga barra nera, così flessuosa che le estremità ondeggiavano, e aveva lo sguardo fisso sulla torre di fronte, ancora fasciata nelle impalcature, come un ferito in attesa di soccorso, e finalmente il cavo ai suoi piedi acquistò un senso agli occhi di tutti, e da quel momento niente al mondo li avrebbe potuti allontanare da lì, nessun caffè del mattino, nessuna sigaretta in sala riunioni, nessun passo felpato sulla moquette. L’attesa era diventata magica, e tutti lo osservavano mentre sollevava il piede fasciato in una scarpetta nera come un uomo in procinto di entrare nell’acqua calda e grigia. Sotto, gli spettatori inspirarono all’unisono.
L’aria parve improvvisamente condivisa. L’uomo lassù era come una parola a tutti nota, sebbene nessuno l’avesse mai udita.
E lui entrò nel vuoto.
***
Traduzione di Marinella Magrì, Rizzoli 2010
giovedì 25 novembre 2010
I PADRI DEGLI ALTRI
“Qui”, hanno risposto tutti.
“Perché qui?”, ha chiesto lui.
“Perché qui ci piace”, hanno risposto.
Trattandosi di un laboratorio di urbanistica, sono stati invitati a rifletterci meglio e argomentare. Dopo un po’, qualcuno ha detto che per andare via servono tanti soldi. E perdi tutto quello che avevi prima. E se fai dei bambini, ha aggiunto un altro, chi te li tiene? Un terzo ha affermato deciso: i bambini devono stare con i nonni.
“E perché?”, gli abbiamo chiesto.
“Perché i nonni trasmettono i valori che contano, la tradizione”.
La discussione poi è proseguita, ma a quel punto con la testa ero già altrove. Stavo facendo due conti: quelli erano ragazzi nati nel 1990. Erano cresciuti vicino ai loro nonni? Probabilmente sì, mi sono detto. In classe c’erano anche due ragazze arabe, e diversi studenti orientali: chissà che cosa ne pensavano loro. Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma erano tutti raggruppati in fondo all’aula, timidi, vagamente perplessi. Sentivo di capirli in qualche modo.
Quando negli anni Novanta è saltata fuori la Lega noi abbiamo pensato: ma questi di chi stanno parlando? Di certo non di noi (e infatti poi abbiamo avuto il primo sindaco leghista della storia). Crescendo ho continuato a incrociare la stessa razza meticcia: alle superiori i miei migliori amici erano un mezzo rumeno e un mezzo siciliano, tornavano dalle vacanze parlando di Bucarest e di Palermo (ma sempre con il nostro accento della fabbrichetta). Con la mia prima ragazza scherzavamo, lei mezza lombarda e mezza piemontese, io mezzo veneto e mezzo emiliano, che insieme avremmo coperto tutto il corso del Po. Per incontrare una purosangue della mia età, milanese di padre e di madre, ho dovuto aspettare i venticinque anni, e per ironia della sorte adesso è la mia compagna (però, a proposito di nonni, la sua le diceva sempre: ti te parl milanés come ‘na teruna. Saranno state le cattive compagnie). Quando mi racconta delle sue domeniche di bambina, la pasticceria con la nonna, il bianchino al bar con il nonno, mi sembra un’infanzia degli anni Trenta. Pensavo che tutti noi passassimo le domeniche alla finestra, davanti alla televisione oppure in macchina, con un vetro eternamente davanti alla realtà, a guardare questa città e chiederci di chi fosse davvero.
Ecco, per dire che oggi mi sono ritrovato a scoprire come sono cambiati i tempi. I ragazzi del 1990 sono figli di padri sedentari, hanno avuto compagni di classe cinesi e arabi, e ritengono che la tradizione sia una cosa importante. Vogliono vivere dove sono cresciuti. È evidente che hanno, avranno, idee diverse dalle mie, che saranno cittadini diversi da me. Però diversi come?
E poi volevo dire un’altra cosa, nel cuore la tua città resta sempre quella che hai conosciuto da bambino. La mia Milano è ancora piena di uomini in canottiera sui balconi. Gente che aveva detto addio a suo padre e sua madre, ed era venuta qui a rifarsi una vita. Allora sembravano buffi e chiassosi, adesso li ammiro. Spero tanto che ne arrivino ancora.
(P.S. del giorno dopo. Stamattina leggo Repubblica e trovo questo articolo: "I figli sorpassano a destra i genitori, la spinta da maschi e regioni rosse". Uno studio interessante. Era quello che stavo cercando di dire, non di fare nostalgia a buon mercato)
mercoledì 10 novembre 2010
ZELEZNY
(Tanto per riconciliarmi con la città, pubblico anche qui il pezzo uscito questo mese nel magazine di minimum fax. Naturalmente è dedicato a Gabbole, mai nessuno fu più bello da vedere.)
***
Era di nuovo autunno, quello del 1993. Noi lanciatori di città ci allenavamo tre volte alla settimana in un campo sportivo vicino all’aeroporto, tra le piste d’atterraggio e il luna park. Dopo la scuola prendevamo la metropolitana, cambiavamo un autobus e poi un altro, e schiacciati contro il finestrino osservavamo la città diradarsi, dall’architettura fascista di piazza San Babila ai viali dai nomi risorgimentali ai palazzi degli anni Sessanta in cui eravamo cresciuti anche noi, fino ai viadotti ferroviari, i cantieri aeronautici dismessi, le baracche e gli orti abusivi, il grande specchio d’acqua dell’idroscalo. Erano tutte parole di una lingua morta. L’anno prima, a Barcellona, Jan Zelezny aveva vinto l’oro scagliando il suo giavellotto oltre i novanta metri: ogni racconto su di lui sembrava scritto per diventare leggenda, qualcosa a cui pensare durante quei lunghi viaggi verso Linate. Zelezny veniva da una famiglia povera. Zelezny era sopravvissuto facendo il cuoco, il soldato, il meccanico. Zelezny aveva tentato e fallito la fuga, cercando fortuna nel campionato americano di baseball, tornando indietro a mani vuote. Nessuno di noi aveva mai visto la Cecoslovacchia, ma sopra il nostro cielo c’erano nebbia d’inverno, zanzare d’estate e rombi d’aereo durante tutto l’anno: l’Europa dell’est non doveva essere tanto diversa.
Gli allenamenti erano duri e monotoni come esercitazioni militari. Tecnica di lancio, scatti su pista, potenziamento in palestra, esercizi con l’elastico e la palla medica. L’atletica leggera è una disciplina ossessiva, in cui lo stesso gesto viene ripetuto all’infinito alla ricerca della perfezione: ogni passo, salto, lancio, è scomposto in unità di movimento, e ogni movimento va studiato, corretto, calibrato, fino al massimo dell’efficienza, e infine questa sequenza meccanica, eseguita in concentrazione, dev’essere disimparata dalla testa e imparata dal corpo, e diventare fluida, facile, come andare in bicicletta o nuotare. Forza e velocità sono questione di lavoro, ma cosa c’è di più difficile che raggiungere la grazia? Per noi ragazzi allora era un’impresa esistenziale. Avevamo quattordici o quindici anni e corpi che non sembravano più nostri. Ogni gesto ci usciva goffo, le cose cadevano e si rompevano, le dichiarazioni d’amore venivano fraintese. Invidiavamo gli studenti dell’ultimo anno, a cui bastava accendere una sigaretta e soffiare il fumo verso l’alto, scompigliandosi il ciuffo sulla fronte, per illuminare la scena. Noi avevamo capelli tagliati in casa, ossa doloranti per la crescita repentina. E più il corpo si allungava, inciampava e disobbediva, più il perfezionamento del lancio diventava la nostra rivincita, un assalto all’arma bianca contro la crudeltà della natura.
Eravamo in cinque a Linate quell’anno. I pesisti erano due dell’istituto tecnico, entrambi alti, grossi, sopra il quintale, uno moro e loquace e l’altro biondo e taciturno, che stavano sempre tra di loro. Grandi pacche sulle spalle dopo una buona misura, prese di lotta libera a tradimento. Il martellista era il figlio del custode, un ragazzo obeso che per qualche mese aveva cazzeggiato a bordo pedana, fumando e sbeffeggiando i nostri tentativi, prima di unirsi al gruppo. Andava in giro per il campo sportivo con una di quelle biciclette dalle ruote minuscole, che abbandonò dopo essere diventato un atleta: arrivava prima di tutti, se ne andava per ultimo, bestemmiava in pugliese stretto quando la palla di sette chili moriva impigliata nella gabbia. Il discobolo era il mio migliore amico. Indolente, spaccone, sempre in ritardo, preferiva le chiacchiere dello spogliatoio e le sedute in palestra, a sfidarci io e lui alla panca, piuttosto che i noiosissimi esercizi di tecnica e il freddo umido che inzuppava le ossa. Però era un esteta degno di Mirone. Altri lanciavano più lontano, lui era convinto di lanciare meglio. Sosteneva che gli sarebbero bastati un po’ più di chili e muscoli, per sbaragliare i muratori bergamaschi che erano i suoi avversari abituali. Ma come in tante altre cose non aveva la costanza di applicarsi. La fatica lo annoiava. Forse avrebbe dovuto allenarsi davanti allo specchio, come i pugili e le ballerine, rapito dalla contemplazione del suo talento sprecato.
A me avevano dato il giavellotto perché ero leggero e veloce, e tra tutti è l’attrezzo che richiede meno forza bruta. È anche quello che va più lontano: Zelezny lo scagliava a novantotto metri, in pratica dall’altra parte dello stadio. Io puntavo a meno della metà per essere ammesso ai campionati italiani. Per un po’ fu il mio attrezzo del mestiere, l’oggetto più familiare per il mio corpo in piena metamorfosi: e ancora adesso, se mi concentro, sento nel palmo della mano l’impugnatura di corda, la lunga lancia in equilibrio sulla spalla prima della rincorsa, le punte del pollice e dell’indice che si toccano, l’odore dell’erba.
Per ognuno di noi, l’allenatore aveva recuperato il video dell’oro olimpico, stampato ogni fotogramma su un foglio A4 e appeso i fogli in fila sul muro dello spogliatoio. Un secondo perfetto, frammentato in una ventina di istantanee, come un’esplosione al rallentatore. Così cambiandomi studiavo i gesti di Zelezny a Barcellona, li mimavo uno per uno, cercavo di impararli a memoria per poi rimettere insieme l’intero movimento. I passi fondamentali del lancio del giavellotto sono gli ultimi tre, ed è una specie di balletto che sapevo danzare a occhi chiusi. Li ripetevo alla fermata dell’autobus, nel corridoio di casa. Piede sinistro, destro, sinistro. Il braccio è teso indietro, in linea con le spalle; la schiena leggermente arcuata. Quando il piede sinistro si blocca, l’energia cinetica accumulata nella rincorsa percorre la gamba destra, sale attraverso la rotazione del ginocchio e dell’anca, fa scattare la schiena come una fionda e poi arriva alle spalle, e poi bum, l’esplosione. C’era il sibilo del giavellotto nell’aria, e quel tempo che sembrava infinito prima che si conficcasse per terra, quaranta metri più in là, vibrando come un diapason.
Non ho mai trovato un gesto che mi venisse più naturale. Anche da bambino non facevo che lanciare le cose. C’erano certi pomeriggi in cortile in cui nessun sasso o ramo o lumaca poteva sfuggire alla cattura e al decollo. O domeniche di silenzi cupi, il mormorio della televisione in salotto, il tintinnio dei piatti in cucina, ma il bambino sul balcone, quello che bombardava uccelli e macchine e qualsiasi oggetto in movimento nella città addormentata, quel bambino taciturno e spietato ero sempre io. Ero cresciuto in un palazzo di otto piani sulla circonvallazione: bastava sporgere una mano e aprirla e tutto cadeva giù, nel fiume stanco di auto dai fanali accesi.
L’aerodinamica e la trigonometria, studiate la mattina a scuola, in pedana diventavano argomento di dibattito. Uno tende a lanciare troppo in alto se nessuno gli insegna la giusta inclinazione. Poi bisognerebbe considerare la direzione del vento, e anche in questo caso il buon senso inganna: nelle gare di velocità, nei salti, le misure vengono annullate quando c’è troppo vento a favore; con i lanci succede l’opposto, è il vento contrario a far decollare un aeroplano. Dunque si trattava di prendere un giavellotto dal mazzo - e c’era sempre il tuo preferito, quello blu, appena più lungo e sottile, spuntato per essere atterrato sul cemento chissà quante volte - e percorrere la pedana fino al punto segnato col gessetto. Lì cominciava la rincorsa misurata tante volte, quei venti metri che erano l’unico spazio al mondo soltanto tuo. Sentire il vento: se soffia sulla nuca bisogna lanciare più in alto, se soffia in fronte più in basso. Respirare. Non pensare più ai gesti a quel punto, fidarsi del corpo, lasciarlo fare. Pensare a Zelezny e ai cieli di Jena in Cecoslovacchia e partire. Tutto il lancio durava un niente. Il giavellotto saliva su, sempre più su, nel vento contrario.
martedì 26 ottobre 2010
ULTIMA BEVUTA
Rambo sostiene che scenderà quando finisce il vino. Molto divertente, ma non ci casco. Stamattina è passato di qua per invitarmi a pranzo, ha detto: però non aspettarti niente, ho solo patate e formaggio, invece quando sono arrivato c’era il bollito che andava. E il vino era di bottiglia, un rosso appena stappato. Quello delle damigiane è finito da un pezzo. La verità è che, senza bisogno di consultarci, abbiamo deciso di andar via tutt’e tre verso il primo novembre, Rambo, Remigio e io. Uno ha trovato una stanza in paese, la sta svuotando dai vecchi mobili per metterci dentro una stufa, una branda e un tavolo; uno si sposta nella casa d’inverno, anche se è l’ultimo che passerà lì; l’altro torna in città, dove guarderà le montagne dal finestrino, facendo la coda in macchina sul ponte della Ghisolfa, e la mattina saprà se in giardino ha nevicato o no. Vorrei vedere un cervo prima di andare via. Durante la settimana, al tramonto, l’ultima curva della strada è un ritrovo di cacciatori: i cervi escono a quell’ora e brucano al margine dei pascoli, dove l’erba è più ricca che in mezzo al bosco. Per sei giorni i cacciatori li tengono d’occhio con il binocolo, ne memorizzano movimenti e orari. I cervi non sanno che il settimo sarà fatale, dovrebbero starsene nascosti la domenica, santificare le feste.
Lassù ormai è difficile andare, di mattina la montagna è coperta da una crosta di ghiaccio. Io approfitto di un pomeriggio di sole, parto subito dopo pranzo, so di avere cinque o sei ore prima del buio. Poi è come registrare un nastro da portarsi via. Salire fino al colle e scoprire ancora, dopo tanti mesi, un versante sconosciuto, percorrere un sentiero mai preso. Scendere dall’altra parte fino a una conca in ombra. Spiare dalla finestra dentro un alpeggio chiuso: il tavolo, le sedie, i barattoli allineati sul piano della cucina, i piatti impilati, le lattine delle conserve, come se qualcuno fosse appena partito e avesse riordinato prima di uscire. Ignorare il sentiero che scende a valle e scegliere una linea logica, bella per chi coglie la bellezza di salire tra i salti di roccia e il bosco fitto, e attraversare in alto, dove passano i camosci. Trovarne le tracce, fidarsi del loro senso d’orientamento. Superare le tane deserte, i tronchi spezzati, i larici in fiamme, attraversare una lunga pietraia facendosi strada tra i rododendri spogli. Raccogliere due pigne di cembro da mettere nella grappa. Assaggiare i mirtilli d’ottobre, le piante ormai senza foglie ma ancora cariche di bacche, ghiacciate dal gelo notturno, avvizzite, scure, dolci come uva passa.
La facevo anche da bambino questa cosa, un ultimo giro per salutare i sassi e gli alberi. Scrivevo dei biglietti e li nascondevo nelle rocce spaccate, nelle fessure della corteccia. Così le mie parole sarebbero restate lì anche dopo di me: proprio come queste, gettate al vento. Poi tirava aria di neve, ed era l’ora di tornare in città. Conosco già il sogno che farò d’inverno.
martedì 28 settembre 2010
DESARPA
In alto ha cominciato a nevicare. In questi giorni le mandrie scendono dagli alpeggi, non per il freddo ma perché l’erba è finita. La montagna non ha più un goccio d’acqua, i prati sono gialli come distese di fieno. Nei letti dei torrenti il ghiaccio vela le rocce umide, si scioglie in macchie scure. Salendo per il sentiero oggi incrocio una lunga fila di mucche lente, cani e bambini intorno a badare che nessuna si attardi, l’allevatore in testa e sua moglie in coda, alla guida di un fuoristrada carico di cose. È la desarpa. Li ricordo tutti, bambini e cani e mucche, all’inizio di giugno, appena arrivati quassù e pazzi di gioia. Ora che la stagione è finita le mucche tornano in stalla, i cani alla catena, e i pastori stagionali dovranno trovarsi un lavoro nei cantieri.
Così faccio un giro intorno agli alpeggi chiusi, dove fino a ieri risuonavano i campanacci. Porte e finestre sbarrate, i letamai vuoti. Le piccole rogge e i canali, che dai torrenti portavano acqua agli abbeveratoi, ora sono chiuse. Vasche da bagno arrugginite e rovesciate restano a languire nei pascoli. Per terra lo sterco secco, i segni delle ruote dei trattori, il paletto a cui stava legato il cane. È una strana sensazione di fuga, come se fosse scoppiata una guerra o un’epidemia. Solo le ortiche sono ancora rigogliose, ma quelle crescono dove non c’è più nessuno, segnano l’abbandono.
Salendo oltre gli ultimi pascoli ripenso alla scena incredibile che ho visto alla fine di agosto, l’allattamento degli stambecchi. Era un branco di venti esemplari su una morena glaciale, con otto cuccioli non ancora svezzati. Chissà cosa provano in questi giorni, assistendo alla loro prima neve? Supero con un salto il torrente che una volta ho dovuto guadare togliendomi calze e scarpe: ora è ridotto a una serie di pozze in cui le trote sono imprigionate, non provano neanche a nascondersi al mio passaggio, potrei raccoglierle con le mani. Poco più su, scollinando a nord, trovo la conca dei laghi completamente imbiancata. La neve copre le tane delle marmotte, il tracciato dei sentieri. L’acqua è increspata dal vento e diventa scura, tetra, con tutto quel bianco intorno; ora non vedrà un raggio di sole per molto tempo. È un’incursione nell’inverno che lascia anche me di un umore cupo, e mi sento sollevato nel tornare giù a balzi, nel calpestare di nuovo l’erba.
Gli alpeggi bassi, verso i duemila metri, resisteranno ancora qualche giorno, forse un mese se il tempo sarà mite. Rambo non ci pensa alla desarpa, non ha un granché a cui tornare e ha deciso di restare qui fino a quando ce la fa. Per questo davanti alla baita ha una catasta di legna alta due metri, che un po’ alla volta sta spaccando a mano. Ascia, cunei e mazza, ma il vecchio larice a quanto pare era cresciuto ritorto, e non vuole saperne di aprirsi in due. Intorno c’è un silenzio insolito. Lupo, anziché fare la guardia al pascolo, è lì che osserva il suo padrone lavorare. Rambo scrolla le spalle quando gliene chiedo il motivo. Tra una mazzata e l’altra mi racconta che stamattina ha aperto la stalla come sempre, ma le mucche hanno messo fuori il muso, hanno annusato l’aria, hanno visto la neve e sono tornate dentro. Cazzi loro, mi dice. Le lascio un giorno a digiuno e poi domani vediamo se non corrono come vitelli. Siccome ormai è mezzogiorno, le mucche sono in castigo e il ceppo di larice non si spacca nemmeno con tre cunei in corpo, Rambo butta la mazza per terra e mi chiede se mi va di andare giù in paese a mangiare. Perché no, dico io. Andiamo in macchina? Lui si gratta la testa, guarda il rottame della Punto lì di fianco e mi confessa che ha finito la benzina. Questi sono i suoi classici casini quotidiani. Prendiamo il trattore, mi fa: ci mettiamo un po’ di più ma ti immagini l’ingresso in scena?
domenica 12 settembre 2010
MASCHI (due)
Tra gli umani, si fa grande attenzione alla forza di gravità. Ogni cosa ha un peso e ogni cosa - che sia foglia, pietra o goccia d’acqua - tende a rotolare a valle. Prima di costruire una casa bisogna vedere se a monte c’è una sorgente, e da che parte cadono le valanghe. Se c’è da fare un lavoro in cui si trasportano carichi, lo si organizza in modo da avere il punto di partenza in alto, e la destinazione in basso. Nella preparazione dello zaino, come nella scrittura, togliere è più importante che aggiungere, e la leggerezza di Calvino è una qualità molto apprezzata per salire in cima a una montagna. Insieme al paesaggio cambiano le parole. Avanti e indietro sono roba da pianura, qui si dice su e giù. Sud e nord diventano dritto e rovescio (e in barba ai mappamondi il sud è il dritto, perché prende più sole). In città se una cosa ti cade la raccogli, che c’è di strano? Qui da noi, rischia di essere persa per sempre.
Rambo lassù ne sa qualcosa. L’invenzione della rotoballa, quell’enorme cilindro di fieno che ha sostituito le vecchie balle quadrate, sarà stata un gran vantaggio in mezzo ai campi di frumento e alle risaie, ma a lui è bastato appoggiare la prima per vederla partire, giù per i pascoli, attraverso la strada, nel bosco e infine per aria, dove il pendio precipita sul torrente, qualche quintale di fieno che è andato a nutrire i cervi cinquecento metri più in basso. Rambo di solito se ne frega. Lui spacca tutto, tira un paio di bestemmie et voilà. Compra solo auto usate molto vecchie e le distrugge correndo su e giù per le sterrate, dal bar del paese all’alpeggio: quando le sospensioni sono andate, il parabrezza incrinato, la marmitta ridotta a uno strascico sferragliante lui le parcheggia dietro la stalla e lì le abbandona. In quel piccolo cimitero, che la forestale più volte gli ha intimato di sgomberare, ci sono già due carcasse che arrugginiscono sotto temporali estivi e nevi invernali: una Ritmo e una Volvo (la sua preferita per il ruggito del motore, tanto che le aveva dipinto dei denti di squalo sul cofano: "Quando accendevo la Volvo", mi ha detto una sera, "tutto il paese sapeva che Rambo portava giù il latte"). A fine stagione le raggiungerà la Punto che ormai sta tirando le cuoia.
Quanto a me, verso ferragosto mi sono svegliato dopo una notte di pioggia, e ho scoperto che aveva nevicato appena cento metri più in alto. Il telone di plastica sotto cui dorme Rambo era coperto da due o tre centimetri di neve ghiacciata, e io ho pensato al mio amico che si scaldava con la sua tazza di caffè, burro d’alpeggio, zucchero e vino, un intruglio infernale che un paio di volte, per questioni di ospitalità e d’orgoglio, ho dovuto assaggiare anch’io. Più tardi è uscito il sole, e all’ora di cena soltanto le cime più alte erano ancora imbiancate. Io avevo passato in casa tutto il giorno, a leggere, scrivere, finire un testo che forse prima o poi mi avrebbero pagato, così ho deciso di concedermi una serata di lusso: scendere in paese, bere un paio di birre scure, leggere un giornale per vedere che cosa succedeva nel mondo. Ma quando ho raggiunto la strada ho avuto una brutta sorpresa. La macchina non partiva più. Girando la chiave d’accensione si illuminavano le spie, ma il motore non dava nessun segnale: in effetti non la muovevo da una settimana, e ultimamente aveva piovuto tutti i giorni. La macchina era parcheggiata in curva con il muso verso il prato, faceva buio e in giro non c’era nessuno, così ho deciso di arrangiarmi da solo. Ho messo il cambio in folle e cominciato a spingerla in retro - ventre a terra, sangue che pompa nei muscoli delle cosce, entrambe le mani sul parafango anteriore - ma mi è stato chiaro in fretta di aver sopravvalutato le mie forze. Anziché obbedirmi e arretrare lungo la strada, la macchina ha cominciato a scendere verso di me. Le scarpe scivolavano sull’erba bagnata e io ho fatto appena in tempo a correre a tirare il freno a mano, per poi contemplare impotente il triste spettacolo. Ora la macchina si trovava in mezzo al pascolo, affondata nel fango di una settimana di piogge. Poco più giù c’era il bosco e poi il dirupo, quello da cui è volata la rotoballa di Rambo. Così mi sono rassegnato a bloccare le ruote con due grosse pietre, tornare su per il sentiero e andare a bussare a una casa amica.
Sempre a proposito di maschi, qui c’è qualcosa che bisogna sapere. Nel mio modello virile di riferimento - diciamo boscaiolo canadese - davanti a un’auto in panne un uomo apre il cofano e ci mette le mani dentro. Allo stesso modo ripara i rubinetti che perdono, e se non si sente bene aspetta che passi, o al limite butta giù una grappa e si mette a letto. La differenza tra questo boscaiolo ideale e il me reale è che lui ci riesce, mentre io produco sempre mensole un po’ storte, rubinetti che dopo un giorno ricominciano a gocciolare, febbri croniche lunghe tutto l’inverno. So usare il trapano, la smerigliatrice e il seghetto alternativo, e se c’è un luogo che mi rilassa anche più della libreria è il negozio di ferramenta, ma faccio tutto con un’ansia di fondo, mostrando sicurezza da fuori e tormentandomi da dentro sulla tenuta di un tassello a espansione, o l’esatta sequenza dei gesti necessari a smontare una presa di corrente. Ho un’ammirazione sconfinata per i veri tuttofare, e questa categoria, nella lista degli uomini che vorrei diventare, viene forse al terzo posto (al primo c’è un bravo scrittore, al secondo una brava persona, anche se temo che queste due si escludano a vicenda). Per il momento almeno ne conosco uno. “Oh bè”, mi ha detto Remigio, sulla porta di casa sua, mentre da dentro uscivano il tepore della stufa e la musica dei Pink Floyd. “Se è solo per partire la facciamo partire”. Siamo tornati insieme giù al parcheggio. Lui ha preso il suo fuoristrada, ha agganciato la macchina con il cavo di traino e l’ha tirata fuori dal pascolo. Poi l’ha portata in cima alla salita, in modo da avere a disposizione una bella rincorsa. Da lì è stato un gioco da ragazzi: giù in folle per qualche decina di metri, dentro la seconda e via. Prima di salutarmi mi ha dato un consiglio che non dimenticherò molto in fretta: “Quando parcheggi lasciala sempre in discesa. Così, male che vada, sei sicuro che in qualche modo riparti”.
E io ho passato la serata al bar, birre scure, vani giornali d’agosto, la cameriera russa di cui tutti parlavano tre mesi fa, i cenni fiacchi di saluto dei bevitori abituali, a pensare alle volte in cui ho parcheggiato in salita. E a quanto ho dovuto spingere per ripartire.
mercoledì 25 agosto 2010
MASCHI (uno)
Prima però devo dire un’altra cosa. Quand’ero piccolo e imparavo ad andare in montagna, avevo una guida alpina. Una guida, per un bambino, è qualcosa di più di un maestro di scuola. Ti insegna a guardare e a muoverti, a sopportare la fatica, a mantenere la calma nelle situazioni difficili. Quando cominci ad arrampicare su roccia, e soffri di vertigini, ti tremano le gambe, hai paura di morire, la guida è la persona che sta dall’altra parte della corda, e ti tiene quando cadi. Sei letteralmente nelle sue mani. Io poi, anche se fa un po’ ridere, soffro da sempre di mal di montagna, e appena mi avvicino ai 4000 metri comincio a vomitare. Dunque ecco chi era la mia guida: l’uomo adulto con cui mi trovavo, a dieci o dodici anni, in mezzo ai ghiacciai, a volte sotto la neve e il vento, piangendo e vomitando. Era la persona che mi parlava con dolcezza e mi convinceva ad andare avanti. Ho anche provato a scrivere un racconto su di lui, in cui l’ho chiamato Tito. Ma come succedeva in quella storia, c’era un problema insormontabile nel nostro rapporto: io non ero suo figlio, lui non era mio padre. Quando alla fine di una scalata ce ne andavamo ognuno per conto suo, io per qualche giorno provavo a parlare come lui (poco), camminare come lui (con leggerezza, come senza peso), avere il suo stesso atteggiamento di fronte al pericolo, tipo un temporale in parete (fischiettare). Lui invece, appena io non c’ero più, ripartiva con qualcun altro. Dunque a pensarci bene avevo un problema molto simile a quello degli ubriachi che si innamorano delle bariste. Di qua c’è amore e di là mestiere, al massimo un po’ di cortesia. Ho fatto anch’io le mie scenate al banco, alle due di notte, con il cuore spezzato e il bicchiere vuoto; invece, non sono più andato in montagna con una guida alpina.
Adesso c’è Rambo, che pascola le mucche nei prati sopra casa mia. Ha un’età tra i quaranta e i cinquanta, è difficile capirlo per via delle mani enormi, il fisico da peso massimo, i maglioni laceri, la barba rossa e la pelle bruciata. Il suo vero nome è Gabriele, ma pare che da giovane si cacciasse sempre nei guai: gli mancano i due incisivi superiori, e zoppica sulla gamba sinistra per essere finito sotto un trattore. Nonostante i denti sorride spesso. Da giugno a settembre vive in una piccola stanza rivestita di legno, tre metri per tre, una brandina, una stufa, un tavolo. Alle pareti campanacci di mucche e i collari di cuoio lavorato, un telo di plastica sopra la testa perché il tetto è crollato qualche inverno fa. Intorno un villaggio fantasma, sei o sette baite abbandonate e cadenti, le ortiche che infestano i vecchi letamai. A giugno quassù c’eravamo soltanto io e lui: io ogni mattina passavo accanto al suo pascolo e gli facevo un cenno con la mano; dopo una settimana, Rambo ha deciso di ricambiare il saluto. Ma la nostra amicizia è cominciata tutta in una volta. Una sera ero in casa a fare le tagliatelle, ho sentito un suono di campanacci, mi sono affacciato e ho fatto appena in tempo a vedere due vitelli che scappavano in giù, verso la strada. Le bestemmie di Rambo risuonavano per la valle. Per colpa della gamba zoppa non era riuscito a inseguirli, e io ho pensato: ora! Mi sono slacciato il grembiule, ho preso il mio bastone, ho spento il fornello sotto l’acqua della pasta e sono partito, tutto infarinato com’ero. Il ritorno coi fuggiaschi è stato il mio momento di gloria.
L’altro mio grande amico è Remigio, che ha costruito questa casa. Anche suo padre costruiva case. Ma a quanto pare era un uomo scontroso, avvelenato da una buona dose di rancore, e non ha mai nascosto a suo figlio che lo considerava un buono a nulla. Così, quando il padre è morto, Remigio ha preso la vecchia baita di famiglia, l’ha smontata un pezzo alla volta e l’ha rimontata come nuova. Siccome era una questione privata tra loro due, ha dovuto fare tutto da solo. Ha abbassato il pavimento della stalla di un metro e mezzo, scavando a mano con pala e piccone, per trasformarla nella camera da letto dove adesso dormo. Per il tetto ha tirato su a braccia cinque tronchi di larice lunghi sei metri. Infine ha smontato il tavolato interno, incrostato di letame e nero della fuliggine di due o tre secoli, ha pulito le assi una per una e le ha portate da un falegname, e adesso sono l’armadio, il cassettone, le panche, il tavolo dove scrivo. Il lavoro gli ha portato via due lunghe estati, e non so se sia stato sufficiente a chiudere i conti in sospeso, ma ha prodotto una casa di cui mi sono innamorato. Perché anche se non conosci la sua storia senti che in ogni pezzo c’è un pensiero, e il bisogno di fare ogni cosa nel modo più giusto possibile. Così adesso lo vedi, vecchio, se sono un buono a nulla.
Dunque ormai dovrebbe essersi capito: questa è una storia di maschi. Di maestri invecchiati male e padri che tornano dall’aldilà. Quello di Rambo era un pastore come lui. La sera dei vitelli ho scoperto che una delle baite abbandonate gli fa da cantina, e molto più tardi, quella notte, sono tornato verso casa barcollando al buio. Anche a lui il villaggio mette malinconia: si ricorda di quando ci veniva con il padre e i fratelli, e in tre famiglie passavano qui la stagione dell’alpeggio, da metà giugno a fine settembre. Da San Bernardo a San Michele, si diceva una volta. Ora è rimasto solo lui. Tra le foto appese al muro ce n’è una con moglie e figli, ma ho paura che sia un tasto dolente e forse è meglio chiedere della mucca pezzata, che Rambo abbraccia per il collo lì di fianco: quella è Morgana, la sua preferita, andata al macello ormai molti anni fa. E poi c’è Lupo che è il suo compagno inseparabile. L’uomo e il cane trascorrono l’anno in diverse case, salendo di quota con l’avanzare della stagione: in aprile a 1000 metri, in giugno a 1800, in agosto a 2400. D’inverno Rambo lavora in una stalla in pianura oppure agli impianti. È l’uomo alla stazione d’arrivo della seggiovia. E ci sono intere settimane di nuvole basse in cui non passa uno sciatore per giorni, e lui sta lassù nel gabbiotto a guardare la seggiovia che gira e gira, a vuoto fino a quando fa buio.
Anche Remigio d’inverno lavora da quelle parti, come gattista. Da quello che ho capito, si tratta di una specie di battaglione di arditi. Perché il gatto delle nevi non serve solo a spianare le piste: è anche l’unico mezzo in grado di andare su e giù d’inverno con qualsiasi situazione atmosferica, perciò viene usato per i soccorsi. Ma Remigio non è il tipo d’uomo che entra in un bar di montagna alle dieci di sera, dopo avere effettuato un recupero sotto la tormenta, e offre da bere a tutti. Anzi è riflessivo, introverso. Io e lui abbiamo cominciato a fare amicizia quando ha scoperto che scrivevo, gli ho dato qualcosa da leggere e poi ne abbiamo parlato a lungo, falciando i prati qui intorno, caricando balle di fieno sul trattore che mi ha lasciato guidare e impilandole nel fienile di sua madre. Poi in casa sua ho visto una macchina da scrivere e mi è sembrato di capirci qualcosa di più. Nel rullo c’era un foglio, e sul foglio una frase vecchia di qualche anno: chissà se riuscirò mai a scrivere come prima. Mi si è stampata a fuoco nella memoria. Quando gliene ho chiesto il senso, mi ha spiegato che risale alla morte di suo padre. Lì accanto ci sono due lunghi scaffali di libri sotto le teste di stambecchi e camosci, le piume di aquila reale, l’ermellino e la volpe a cui quell’uomo, bracconiere a tempo perso, sparava per placare la rabbia. Qui dovrei dire che anche Remigio aveva una moglie, però adesso vive solo. Questa, come dicevo, è una storia di maschi.
Gli spiriti abitano la mia casa. Di sera esco spesso sul prato, perché col buio il bosco cambia odore, e sto lì per un po’ a respirare a pieni polmoni. Raggiungo un dosso da cui si apre la vista sulla valle. Se guardo in su vedo il filo di fumo che dalla stufa di Rambo esce attraverso il telone; in giù la finestra di Remigio è illuminata. Uno ascolta la radio aspettando di prendere sonno, l’altro sta leggendo un libro. E io mi sento finalmente al mio posto: come potrei vivere altrove?
mercoledì 21 luglio 2010
CAPRE
Ho continuato a salire, ormai chi mi fermava più? Adesso ero in cresta tra le due valli della mia vita e camminavo su lastre di pietra rotte dal ghiaccio, e su quel muschio morbidissimo che si forma a tremila metri. Da un lato dello spartiacque, quello dell’età adulta, il cielo era limpido, di un azzurro così pieno che sembrava avere massa e volume. Dal lato dell’infanzia salivano sbuffi di nuvole che si arricciavano dissolvendosi ai miei piedi. Di là ho passato vent’anni, di qua gli ultimi tre: sono contento che siano posti diversi ma vicini (mai tornare dove sei stato felice, diceva il poeta, però dà un certo conforto sapere che i tuoi ricordi sono lontani solo un paio d’ore a piedi). Poi ho visto alcune sagome scure, forme inconfondibili sulla roccia frastagliata. Mi era successa la stessa cosa proprio un anno fa, e oggi questo era il mio piano segreto: speravo che i loro movimenti obbedissero a qualche calendario, e che li avrei ritrovati all’appuntamento. Quando sono arrivato in cima ero in mezzo a un piccolo branco di sei stambecchi. Gli stambecchi non sono prudenti come i camosci, né ingenui come i caprioli: hanno un’aria maestosa e indifferente, come se per loro l’uomo fosse una minaccia da poco. Stanno lassù, sulle creste e le vette sopra i tremila, perché hanno caldo e perché amano controllare il mondo dall’alto. Lì non c’è niente, solo muschio e qualche filo d’erba, vento a tutte le ore e luce abbagliante. Il branco era composto da un maschio adulto, bello come un dio delle capre, il pelo lucido e le corna da re; due femmine più giovani e i loro cuccioli nati da pochi mesi; e un caprone così vecchio e stanco da diventare subito il mio preferito. Aveva il manto spelacchiato e il collo completamente bianco, e due corna di cui non riusciva più a reggere il peso. Arrancava con la testa china in fondo al gruppo. Appena sono stato avvistato il capo stambecco si è messo tra me e gli altri, fissandomi dritto negli occhi. Faceva un verso di battaglia, come una F prolungata e soffiata a pieni polmoni. Aveva corna lunghe un metro e almeno mezzo quintale di muscoli a sostenerle, e gli sarebbe bastato poco per cacciarmi da casa sua, se non dal mondo. Ma io cercavo di fargli capire che ero venuto in pace. Femmine e cuccioli sono saltati su un sasso mettendosi al sicuro dietro di lui, mentre il vecchio per raggiungerli ha dovuto compiere un lungo giro.
Io mi sono seduto per terra e non ho più fatto una mossa, finché il capo stambecco ha deciso che ero un nemico noioso, ha sbuffato un’ultima volta e si è messo a rosicchiare il muschio tra le rocce. I due cuccioli hanno cominciato a prendersi a cornate, mentre le madri li tenevano d’occhio. Ora il vecchio era l’unico che badava a me: mi si è seduto di fronte, a quattro o cinque metri di distanza, e mi ha fissato masticando, e grattandosi ogni tanto la schiena con le corna. Chissà quanti anni aveva. Chissà se questa è la sua ultima estate o riuscirà a superare gli acciacchi ancora per un altro inverno. Erano le otto di mattina e il mondo tremila metri più in basso sembrava un pianeta alieno: e io ho pensato al mio amico Jose, morto quassù mentre andava a caccia di questi animali, caduto perché nessuno è agile quanto loro. Jose, eri una brava persona e un magnifico alpinista, ma come facevi a sparare agli dei e pensare di farla franca? Ho guardato giù in fondo la casa in cui sono stato bambino, che adesso è stata ristrutturata e dipinta di giallo. Quella dei miei ricordi è perduta per sempre, per fortuna. Prima di andarmene ho promesso al vecchio che, se il prossimo quindici luglio non avrà ancora reso l’anima al diavolo, io sarò qui all’appuntamento, lo giuro.
lunedì 14 giugno 2010
CANI
Ma il cambiamento più grande, nella mia vita quotidiana, è stato provocato dai cani. Siccome metto via per loro le croste di formaggio, vengono a trovarmi diverse volte al giorno (a dire la verità, anche se non è da montanaro, ogni tanto sostituisco alle croste qualche biscotto, di quelli che ho in casa per gli ospiti che fanno colazione, e che tra me chiamo i biscotti degli amici). Hanno un campanello appeso al collo e così li sento arrivare da lontano. Per qualche accordo sindacale uno dei tre rimane sempre al pascolo, mentre gli altri due sono liberi di gironzolare finché arriva il momento di riportare le bestie nella stalla. Allora, richiamati dal pastore figlio, agiscono come un sol uomo: accerchiano la mandria abbaiando, mordono ai fianchi le mucche più pigre e inseguono quelle indisciplinate, le spingono in gruppo verso l’alpeggio. È uno spettacolo vederli all’opera.
Si chiamano Black, Billy e Lampo. Black è il più vecchio, un gran bastardo nero con sei dita nelle zampe posteriori e l’orecchio destro sbranato in chissà quale rissa. Per questo ho deciso di non chiamarlo Black, ma Mozzo. Si vede che ormai è a fine carriera: alle mucche preferisce l’ombra degli abeti, o gli odori dei selvatici che pigramente segue nel sottobosco. Mozzo non ama le carezze ma ama molto la ciotola di plastica che lascio fuori dalla porta ogni sera. Billy è un cane lupo e un lavoratore infaticabile, per questo io e lui ci conosciamo meno. Se la mandria è tranquilla, riposa accanto ai piedi del pastore figlio. Quando viene da me sembra sentirsi un po’ in colpa: prende la crosta di formaggio e scappa via, però ho notato che gli piacciono le ragazze. Lampo è il più giovane, un border collie con una passione per i rametti di larice lanciati a grande distanza. Ama farsi grattare dietro le orecchie e mi lascia un buon odore di stalla sulle mani. Sta imparando il mestiere da Billy, ma si vede che è alle prime armi e ogni tanto fa casino: ieri mattina, sotto il diluvio, i sette vitelli si sono ammutinati e tutti insieme hanno superato il confine del pascolo, lanciandosi nell’erba alta come su una tavola imbandita. Allora il pastore figlio ha emesso un gran fischio. Billy è partito subito, Lampo l’ha visto da casa mia e gli è andato dietro, Mozzo è rimasto a osservare la scena da sotto il tavolo che ho in giardino, all’erta ma defilato, come al suo solito. Billy e Lampo hanno riportato i fuggitivi in gruppo ma poi Lampo se l’è presa troppo con il vitello capo, ha continuato a morderlo e abbaiargli addosso e così quello è scappato di nuovo, e gli altri sei dietro. Billy è andato a riprenderli, e la scena si è ripetuta uguale. Lampo li ha spaventati e loro sono scappati di nuovo. Billy a quel punto era fradicio di pioggia: ha guardato i vitelli, ha guardato Lampo, ha guardato il pastore figlio che bestemmiava agitando il suo ombrello, poi ha girato i tacchi e se n’è andato verso il bosco. Il pastore figlio gridava: Billy! Ma Billy ormai era entrato in sciopero. È sparito tra i larici e non si è visto più. Lampo scodinzolava vicino al padrone, per lui sarà stato un gioco. I vitelli banchettavano nell’erba che avrebbe dovuto essere il loro pasto di domani. Veniva giù un’acqua da spazzarci via tutti, lavarci via dalle montagne come foglie secche, e Mozzo ha finito il suo terzo biscotto, si è stiracchiato la schiena e ha brontolato sotto il tavolo come un vecchio stanco, rassegnandosi all’idea che adesso toccava a lui.
martedì 8 giugno 2010
QUATTRO ALBERI
Provo rispetto per l’abete rosso, come per l’abitante di un paese buio. Cresce nei versanti umidi, a nord, e nelle valli in ombra. È un rispetto formale il mio, per un albero che non capirò mai fino in fondo. Mi turba la sua indifferenza alle stagioni, perché una pianta sempreverde è come un volto che non cambia espressione. Diffido della chioma dalla forma perfetta, che rende difficile distinguere un esemplare dall’altro. Ma una volta, in luglio, mi sono arrampicato su un sasso e ho visto qualcosa che non dimenticherò più: la punta di un abete, solo gli ultimi rametti esposti al sole, coperta di fiori azzurri, spettacolo privato degli uccelli del cielo.
Ammiro il pino uncinato come uno schiavo ribelle, che ha lottato per alzarsi in piedi. Il mugo, suo fratello maggiore, ha il titolo di specie pioniera: è il primo arbusto a colonizzare le pietraie, i canaloni spazzati dalle valanghe. Affonda le radici tra i sassi e con i suoi artigli di rampicante tesse una rete che li tiene insieme. A volte scavando trova del buon terreno, e condizioni accettabili di neve e vento, e allora dalla forma prostrata passa a quella arborea, e diventa il pino uncinato. Per qualche motivo mi ricorda il sud e il mare: forse perché il sole picchia sulle pietraie, e la resina di altri pini profuma la macchia mediterranea. Il bastone con cui cammino viene da lui. Ha un legno bianco che non ingiallisce con il tempo, elastico e leggero nelle corse sui sentieri.
Amo il larice come un fratello. Il larice è l’odore di casa e il fuoco del mio camino. Davanti alla finestra ho un bosco coltivato, nel senso che fino agli anni Cinquanta era un pascolo, strappato da antichi pastori alla montagna, o bruciato dagli eserciti, chissà. Poi, nel dopoguerra, diverse zone delle Alpi furono rimboschite. Il bosco di questo tipo si riconosce perché è poco vario, e perché i larici hanno tutti la stessa età, altezza e dimensioni del tronco. Nei giorni di vento ondeggiano come spighe. D’inverno la neve provoca schiocchi improvvisi di rami che cedono, ed è la legna che raccoglierò in primavera. Il larice trascorre lunghi mesi come morto, prima di mettere le gemme in aprile, e poi cambia colore con l’avanzare dell’estate: dal verde pieno di giugno a quello stinto d’agosto, fino al giallo e al rosso di ottobre. Ama il sole e il vento, i versanti sud delle montagne, i terreni secchi. A duemila metri è l’ultimo bosco prima dei pascoli. Un bosco rado, dove la luce del sole filtra liberamente, e cresce l’erba.
Venero il pino cembro come un dio. Da queste parti è un albero solitario dai rami duri, nodosi, contorti. Ha semi che gli uccelli nascondono nelle loro dispense segrete, le crepe dei massi ad alta quota. Poi basta un po’ di terra, una vena d’acqua piovana: gli arbusti di pino cembro crescono lassù, sul ciglio dei dirupi, tra gli spuntoni di roccia, in luoghi impossibili. Siccome odiano l’ombra, vivono soli. Assumono forme tormentate per le acrobazie che devono fare crescendo, per la neve che li torce e li flette, per il fulmine che li spezza. Il pino cembro è un monumento alla lotta per la vita, nessun esemplare è simile a un altro: e io ormai riconosco tutti quelli che incontro lungo il sentiero, ogni volta mi fermo a osservarli, a ciascuno vorrei dare un nome.
giovedì 3 giugno 2010
SEYMOUR GLASS
***
Seymour Glass
Mi ricordo ancora della bicicletta nichelata di Joe Jackson, l’acrobata, e della volta in cui mi fece fare il giro del palcoscenico sul suo manubrio. Avevo cinque anni e non sono più sceso da lì, vi dico. Se volete, posso elencarvi simultaneamente tutti i numeri d’Arte Varia della mia vita. Volteggiavo in spericolato equilibrio su quel manubrio il giorno in cui non andai al mio matrimonio perché ero troppo felice e dovevo calmarmi i nervi; mi ci misi in piedi tutti i mercoledì sera compresi tra il 1927 e il 1934 nei quali divenni una celebrità nazionale con il nome di Billy Black al quiz radiofonico “Ecco un Bambino Eccezionale”; vi restai in posizione yoga e leggendo racconti taoisti come il più giovane ordinario di inglese del mio college e su una gamba sola nelle stanze di un ospedale psichiatrico militare, con i gradi di caporale degli Air Corps, alla fine della guerra. Da lì sopra potevo riconoscere l’odore di minestra che prendeva New York, la sera, in certi quarti d’ora, o giocare magistralmente a biglie, o scrivere haiku in giapponese di 6 versi e 34 sillabe. Non sono mai stato un esibizionista, ma la mia smodata sensibilità ha sempre avuto un Motivo Sufficiente su cui concentrarsi.
Del resto, sono il primogenito di un circo di sette figli: il mio bisnonno era un clown ebreo polacco che si tuffava da altezze vertiginose dentro tinozze minuscole e i miei genitori portavano in giro un famoso spettacolo di tip tap. So che per i miei fratelli fui una specie di unicorno, un saggio dai pigiami gialli, con il naso ricurvo, una immateriale ragnatela sugli occhi e un tono di voce incredibile. Nessuno mi vide mai sbadigliare. Se un argomento mi interessava, come i pericoli della pesca, potevo diventare irrimediabilmente verboso per settimane. Ma le mie mani erano larghe e leali, appena sporche di nicotina. Mi davano fastidio solo i portacenere troppo pieni e la gente che ti guarda i piedi negli ascensori, e una volta sola tirai un sasso senza motivo a una ragazza mentre accarezzava un gatto nel mezzo di una strada. La parola che amavo di più nella Bibbia era Guardate; lo dissi pure alla radio, ma nessuno ci prestò attenzione.
Ero su quella bicicletta anche nel luminescente 1948 della Florida quando, sul letto di un albergo che sapeva di acetone e valigie nuove, mi sparai alla tempia destra con una Ortgies automatica calibro 7,65. Nascondevo in una sacca 184 poesie inedite e una malattia che non si può spiegare, mia moglie mi guardava e sui calendari il mese di marzo contava 19 giorni e io 31 anni. Poco prima, in mare, assieme a una bambina, avevo inutilmente cercato di catturare un pescebanana.
J.D. Salinger, Nove racconti.
(testo di Fabio Stassi, pubblicato per generosità dell'autore)
lunedì 24 maggio 2010
DUE STAGIONI
Per la cultura inuit, non c’è niente di peggio che essere soli. La solitudine è una condanna e un anticipo di morte. Si vive in comunità, con gli altri si mangia, si dorme, si va al gabinetto, si passeggia, si pesca e si caccia, a volte ci si ubriaca, con gli altri si vive, insomma, e senza altri non c’è vita. Le case groenlandesi sono composte da un’unica grande stanza comune e in quella stanza vivono a volte fino a dieci o dodici persone, adulti e bambini, anziani e neonati, tutti insieme: la privacy è un concetto che proprio non esiste. D’altra parte, gli eschimesi credono che l’isolamento sia segno d’infelicità. È quindi bizzarro che sia proprio qui, a Tasiilaq, in questo posto letteralmente in capo al mondo, in cui una persona sola è vista come una persona irrimediabilmente infelice, che io mi metta a scrivere di solitudine.
Oltre che riparo, la solitudine può essere anche ebbrezza, una concentrazione tesa, senza interruzioni, in cui il pensiero può svolgersi in tutta la sua completezza, come un filo da pesca che si srotola dalla superficie ghiacciata del fiordo, entra nel foro e sprofonda giù, trascinato dall’amo e dal peso, fino a raggiungere il fondo dell’Oceano senza incontrare nessun ostacolo.
Ma non è necessario essere artisti per desiderare, di tanto in tanto, qualche momento di solitudine. Ognuno ha bisogno di un luogo in cui essere solo, lontano dalle richieste e persino dagli sguardi degli altri, che anche quando sono sguardi animati dall’affetto e dalle migliori intenzioni, sono pur sempre sguardi, e gli sguardi prendono le misure, soppesano, anche involontariamente esprimono giudizi. C’è bisogno di un luogo che sia soltanto proprio. Perché essere soli è stare alla presenza di se stessi. Per qualcuno può essere un’esperienza meravigliosa e per qualcun altro, forse, un incubo. A qualcuno basta un giorno, o una settimana, a qualcuno servono mesi, forse anni. A qualcun altro, è sufficiente un solo istante per essere colto dallo sgomento. Ma non avercelo proprio mai, questo bisogno, nel corso della vita, a me pare sospetto: come fidarsi di chi non si fida di se stesso? Perché avere paura della solitudine vuol dire avere paura di quello sconosciuto che si cela dietro il nostro stesso volto.
giovedì 13 maggio 2010
NEBBIA
Pensavo che il senso di solitudine aumentasse con il tempo, invece è successo il contrario: dopo giorni interminabili davanti alla finestra, adesso sono pieno di cose da fare. Leggere, scrivere, raccogliere legna, pulire il prato intorno alla casa. Odio gli sciatori. D’inverno buttano fazzoletti, lattine, sacchetti, mozziconi di sigarette: fanno un buco nella neve e lo ricoprono, pensando che i loro rifiuti scompaiano nel nulla. Invece li trovo io tre mesi dopo. Ieri ho fatto un mucchio di cartacce e l’ho bruciato insieme all’erba vecchia. Mi sono legato uno straccio sulla bocca sentendomi come il tenente Dunbar, quando arriva all'avamposto deserto. Forse anche a me, tra un po' di tempo, qualcuno darà un nome nuovo.
La neve che si scioglie regala sorprese. Il teschio di una marmotta, la corteccia del mio bastone dell'anno scorso. L’arbusto di pino uncinato che trovai tra i detriti di una valanga, e trapiantai vicino a casa: ora che è sopravvissuto all’inverno, l’ho battezzato Capitan Uncino. Se ce l’ha fatta lui, sei mesi sotto la neve, il mio è un gioco da ragazzi.
Leggo Richard Yates, Cold Spring Harbor. La conferma di avere incontrato un grande scrittore. L’altro ieri ho finito Truman Capote, L’arpa d’erba, e ora leggere Yates è come bere acqua di fonte dopo un vino corposo. Il senso di meraviglia e di verità che si prova, leggendo cose difficili dette con parole facili. Ho copiato questa frase: La ragazza, però, stava crescendo in fretta. Se uno fosse riuscito a portarla via da quel buco schifoso, a tirarla fuori, alla luce fortificante del sole, e a farla crescere e ad averla e a tenersela abbastanza a lungo, niente di più facile che lei si trasformasse in una donna per cui sarebbe valsa la pena di dare il sangue, la vita e tutto il resto. E se non altro, sarebbe valsa la pena di provarci. Ringrazio la mia amica Andreina per la traduzione, e le mando un saluto se passa di qua.
Mentre scrivo si alza una nebbia densa, che da queste parti arriva all'improvviso. È quando dalla valle si vedono le nuvole avvolgere la montagna. Dalla montagna invece le nuvole appaiono così.
giovedì 6 maggio 2010
NEVE FRESCA
Frase del giorno: Non ho nessuna particolare religione stamattina. Il mio Dio è il Dio dei Camminatori. Se cammini abbastanza, probabilmente non hai bisogno di nessun altro dio. (Bruce Chatwin)
lunedì 3 maggio 2010
NEL BOSCO
Ecco i libri che mi porto, da leggere o rileggere:
- Tuman Capote, Altre voci altre stanze (1948) e L'arpa d'erba (1951)
- Bruce Chatwin, Le vie dei canti (Adelphi 1988)
- Aleksandar Hemon, Nowhere Man (Einaudi 2004)
- Denis Johnson, Jesus' Son (Einaudi 2000)
- Cormac McCarthy, Trilogia della frontiera (Einaudi 2008)
- Grace Paley, Begin Again: Collected Poems (in lingua originale, 2000)
- Wells Tower, Tutto bruciato, tutto devastato (Mondadori 2010)
- Richard Yates, Cold Spring Harbor (minimum fax 2010)
- Tobias Wolff, Our Story Begins (in lingua originale: sono tutti i racconti di Wolff, 2008)
Se trovo qualcosa di bello ve lo dico.
Immaginatemi alla fine della strada, mentre scompaio tra gli alberi.
lunedì 26 aprile 2010
UN LABORATORIO DI SCRITTURA (continua)
Catturare il senso di un’esistenza osservandola con una sola lente: il rapporto con una persona, la pratica di un mestiere, il legame con una città o una casa?
Un oggetto posseduto da anni, un’azione che si ripete e diventa un rito, il continuo ritorno a un luogo o a un libro. Per qualcuno di noi, non potrebbero essere la migliore biografia possibile?
È quello che proveremo a scoprire nella prossima sessione del laboratorio di scrittura, che comincia lunedì prossimo alla Scighera. Con me lo conduce Giorgio Fontana. Questa volta avremo un testo ispiratore, le Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia. Partiremo da lì, e poi che ognuno trovi la sua strada. Il gruppo ormai è solido ma c’è sempre posto per i nuovi ingressi: se volete sapere quello che facciamo, ecco i migliori racconti degli ultimi mesi.
Buona scrittura.
martedì 13 aprile 2010
RITORNO A GOTHAM
il nostro nobile Hudson che scorre lento.
“È il nostro nobile Hudson che scorre lento”,
disse, “tra le sue sponde verdi”.
Sta’ calmo, cuore! Nessuno chiede
il tuo sostegno appassionato a questa gloria,
è il nostro nobile Hudson che scorre lento
tra le sue sponde verdi.
“Autista, ha forse un pari in Europa o in Oriente?”
“No, no!”, disse lui. Casa! Casa!
Sta’ calmo, cuore! È il nostro nobile Hudson
e non ha pari in Europa o in Oriente.
È il nostro nobile Hudson che scorre lento
tra le sue sponde verdi
e non ha pari in Europa o in Oriente.
Sta’ calmo, cuore! Casa! Casa!
(Paul Goodman)
sabato 10 aprile 2010
HOLDEN, LOLITA, ZIVAGO E GLI ALTRI
Negli ultimi due giorni sono stato in giro. Su treni ad alta velocità e sferraglianti carri bestiame, dentro divani letto profumati di whisky e ville di campagna infestate dai fantasmi, mi ha fatto compagnia un libricino. Si intitola Holden, Lolita, Zivago e gli altri - piccola enciclopedia dei personaggi letterari (1946-1999). L’autore è Fabio Stassi: scrittore, bibliotecario e pendolare. Io ho avuto la fortuna di incontrarlo nel suo elemento, non corridoi fitti di scaffali ma la banchina di una stazione. Mi ha raccontato di avere accumulato appunti per quindici anni, per mettere insieme questo indice di duecento nomi. Se lo aprite a caso potreste trovarci il ritratto di Sarah, la ragazza zoppa con cui Fast Eddie Felson finisce a letto, dopo l’epica sconfitta a biliardo con Minnesota Fats: Quando hai perso tutto, ma solo quando hai perso veramente tutto, ti può capitare di incontrarmi, di sponda, in piena notte, nel bar di una stazione di autobus, tra donne che non partono, e non riescono a dormire, e hanno voglia di bere. Io sono lì perché quello è l’unico bar aperto prima delle sei. Oppure quello di Mardou Fox, la perla nera di tutte le stanze ammobiliate di Frisco: Chiamatemi Mardou cuorefragile. Mardou piedevagabondo. Mardou che si mangia le unghie mentre ascolta Gerry Mulligan. Mardou ciglia nere e sciarpa rossa. Mardou sinuosa, intima, segreta. Mardou nevrotica. Oppure quello di Holly Golightly, la seduttrice eternamente in transito: Dovevo avere l’aria di chi si mastica le punte dei capelli bagnati e piange nel sonno e non sa conservare nulla né riconoscere cosa sia suo. Non volevo possedere niente. Cercavo solo un posto come Tiffany, l’unico luogo che mi facesse passare le paturnie, e l’ansia, e la paura, e questo senso d’essere effimeri. Soltanto chi si è innamorato di donne che non esistono, fatte d’inchiostro, carta ingiallita, parole di uomini morti, può avere scritto un libro come questo. Soltanto chi ha vissuto le sue più grandi avventure sul sedile lacero di un treno locale. Quella nostalgia bruciante che si prova chiudendo un libro, Fabio Stassi la conosce bene. Non a caso la sua piccola enciclopedia comincia con un verso dell’Antologia di Spoon River. Dire addio a personaggi che abbiamo amato è come veder partire gli amici, dal molo di un traghetto o tra le lapidi di un cimitero: in queste pagine tornano tutti alla vita.
Fabio Stassi, Holden, Lolita, Zivago e gli altri (minimum fax 2010)