mercoledì 15 agosto 2018

Per l'Alpe Devero

Cari amici del Comitato Tutela Devero,
sono con voi nella difesa del vostro splendido territorio di montagna dalla costruzione dell'ennesimo e distruttivo comprensorio sciistico.
So di cosa parlo perché vivo in mezzo a pascoli che, d'inverno, diventano piste da sci: lo sci di discesa richiede una trasformazione profonda del paesaggio, la costruzione di strade, edifici, impianti di risalita, la presenza costante di mezzi a motore, il disboscamento e il livellamento di interi versanti della montagna. Non solo: lo sci senza neve artificiale non è più immaginabile, e questo significa la costruzione di grandi bacini idrici a monte delle piste, lo spreco d'acqua e di energia elettrica, lo scavo di lunghe condutture e l'installazione di cannoni su tutto il percorso. Alla fine di questi lavori (che poi si riveleranno infiniti, perché una pista richiede continua manutenzione) la vostra montagna sarà irriconoscibile. Come capita dalle mie parti, immagino che la maggioranza degli abitanti della vostra valle sia a favore del progetto. Succede perché sono male informati e credono alle promesse di amministratori e imprenditori interessati solo al loro tornaconto. Progetti come questo danno lavoro, sì, ma solo a breve termine: qui a Estoul si discute da anni della convenienza del nostro impianto che, come in tanti piccoli comprensori, è sempre in perdita, prima o poi smetterà di essere sostenuto dal denaro pubblico e chiuderà. Allora nessuna amministrazione spenderà i soldi necessari a smantellarlo: ci terremo i piloni, le stazioni in cemento, le vasche dell'acqua, i versanti spianati, le strade, e la montagna impiegherà secoli a riprendersi quello che era suo, a rigenerare la propria bellezza. Agli abitanti della valle dovete spiegare questo: si stanno giocando una grande ricchezza, cioè la bellezza della loro montagna, per avviare un'attività economica che è in perdita in tutta Italia. Quella ricchezza la stanno togliendo a se stessi e ai loro figli, che non potranno riaverla indietro. Ciò che rovinate in questo modo, lo rovinate per secoli e secoli a generazioni di discendenti.
Poi parlate ai montanari delle persone che arrivano sulle Alpi da ogni parte del mondo per vedere boschi, torrenti, rocce, animali selvatici, un paesaggio non toccato dall'uomo che è sempre più raro sulla terra. È un bisogno diffuso, in un'umanità sempre più urbana, e lo dimostrano i dati del turismo dolce che sono in crescita dappertutto. Una crescita lenta, che non porterà le effimere invasioni di sciatori delle domeniche d'inverno, però solida, radicata, rispettosa del vostro territorio, non a rischio di fallimento. È quello il futuro. La conservazione della vostra montagna non è solo ecologia: è anche il vostro futuro economico, un paesaggio integro varrà sempre di più nei prossimi anni e ancora di più per i vostri figli, varrà oro.
Un abbraccio
Paolo

lunedì 6 agosto 2018

TRE SEDIE

Il momento più difficile è quando vanno via tutti. I tavoli vuoti, l'erba piegata dove c'erano le tende, lo striscione nell'aria che minaccia pioggia. Allora i boschi intorno alla baita tornano al loro silenzio, io alla mia solitudine. È la stessa di prima ma è dura abituarsi di nuovo a lei, dopo tre giorni in cui migliaia di persone hanno popolato questa montagna: hanno dormito, mangiato, bevuto, discusso, cantato, ballato nei boschi in cui di solito cammino solo. Sono i luoghi in cui vado a scrivere, o meglio a osservare e pensare, che è l'inizio della scrittura: questo per me è il camminare. È un rapporto silenzioso con il paesaggio e per questo sono sempre stato un camminatore solitario. A lungo ho praticato la montagna come allontanamento, un andar via dagli altri, una forma di eremitaggio, di immersione nel mondo interiore.
Però, a un certo punto, qualcosa è cambiato. È successo quando in montagna ho cominciato ad abitarci. La solitudine è buona se dura un giorno, un mese, un anno, se è una stanza tutta per te in cui sei libero di entrare e uscire, non se è una condanna di cui non vedi la fine. Nemmeno il vecchio Thoreau aveva davvero la stoffa dell'eremita, se della sua capanna sul lago Walden scrisse: “In casa mia avevo tre sedie: la prima per la solitudine, la seconda per l'amicizia, la terza per la società.” Dopo un po' di solitudine era tornato anche a me il desiderio di amicizia e società, però non volevo scendere in città per ottenerle. Volevo vedere se, a mettere le tre sedie nel bosco, qualcuno ci si sarebbe seduto.
Questa è l'origine dell'associazione culturale di cui faccio parte, “Gli urogalli”, del festival che organizziamo e dell'ostello che stiamo costruendo a Estoul, la frazione di Brusson dove abito da dieci anni. Abbiamo battezzato il festival “Il richiamo della foresta” con l'idea che, prima che un programma culturale, proponesse alle persone un luogo e un tempo da condividere: si sta per tre giorni nei boschi, si fondano relazioni, si sperimenta una comunità effimera perché poi magari i giorni si trasformino in settimane e mesi, l'effimero in duraturo. Dovrei aggiungere che siamo persone di idee libertarie (alcune preferiscono dire anarchiche, altre tenersi le idee ma non definirsi in alcun modo). Per questo, tra i tanti modi di parlare di montagna, più che la chiave naturalistica, alpinistica, antropologica, letteraria, che pure ci interessano, abbiamo scelto quella sociale e politica. Che significa chiedersi: a quali bisogni risponde il nostro andare in montagna? Che relazioni genera? Che cosa vogliamo, noi che ci andiamo ad abitare? Come possiamo costruirlo insieme?
Non siamo certo i primi a farci queste domande, ed è bene sapere cos'è successo a chi ci ha preceduti. Enrico Camanni ha inaugurato il festival raccontando del movimento del Nuovo Mattino e di quando, negli anni Settanta, dai ragazzi della contestazione nacque un nuovo modo di scalare, un atto di gioia, amicizia, ribellione, libero dalla retorica della conquista. Linda Cottino ha parlato di alpiniste, delle loro storie sconosciute, della necessità di riempire quel vuoto che è la narrazione della montagna femminile, e Irene Borgna dei montanari tra cui lei stessa, donna e cittadina, è andata ad abitare, riuscendo con pazienza a esserne accolta. I villaggi di Urupia, Granara, Agape e Paraloup hanno portato esperienze di ripopolamento e vita collettiva sulle Alpi e sugli Appennini e mostrato come la montagna possa essere luogo non di arretratezza e chiusura, ma di diversità, tolleranza, sperimentazione; o di resistenza e di lotta, in Val Susa come in Kurdistan, nei racconti di Michela Zucca, Ezel Alcu, l'editore Tabor, la rivista Nunatak. Infine Nives Meroi e Romano Benet hanno raccontato del loro matrimonio di montagna, di come nasce l'amore sulle rocce della Carnia e di cosa diventa sui ghiacciai dell'Himalaya e del Karakorum, ed Erri De Luca ha chiuso il festival (o aperto il prossimo, dice lui) parlando di geografia e di migrazioni, e descrivendo un grande sud del mondo che si estende molto al di là dell'emisfero australe: è il sud delle periferie, dei mari solcati dagli uomini, delle coste lungo cui si mescolano, delle montagne che attraversano. “Le montagne, bordi della terra, prove della sua forza d'elevazione, margini in cui l'umanità si incontra”: ecco gli appunti che ho preso durante il discorso di Erri. C'è un'altra forza d'elevazione nel nostro paese, contraria a quella di gravità che lo tira verso il basso, e in questi tre giorni a duemila metri ha dato una piccola prova di esistere.
Ora il bosco tace e io sono tornato alle mie letture e camminate, ai rari incontri e ai piccoli lavori. Salgo per i vecchi sentieri e il silenzio della montagna mi sembra vibrare di echi. So che, se li ascolto abbastanza a lungo, presto prenderanno corpo, diventeranno scrittura.