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martedì 5 novembre 2013

BALLANDO A NOTTE FONDA

    (Racconti, sempre racconti: esce in questi giorni l'ultima raccolta di Andre Dubus, pubblicata nel 1996 e finalmente portata in Italia da Mattioli 1885, come il resto della sua opera. Dubus è un maestro dimenticato e per fortuna riscoperto, il cui lavoro è vicino a quello di Richard Yates, o di Tobias Wolff, o di Charles D'Ambrosio - scrittori di ritratti, mi verrebbe da definirli, ma mi propongo di riparlarne in un discorso più lungo. Per il momento è stato un onore scrivere la prefazione a questo libro.)

     Andre Dubus amava molto un racconto di Hemingway, ambientato in Italia nel 1917 e intitolato "In un altro paese". E' la storia di un gruppo di reduci ricoverati a Milano, dopo essere stati feriti sul fronte austroungarico. A un soldato americano è saltato per aria un ginocchio, e la sua gamba non si piega più; un altro ha il volto sfigurato e nascosto sotto un velo nero; un altro ancora è un maggiore italiano con una mano ridotta a un moncherino. Vengono curati con metodi sperimentali, alla cui efficacia nessuno sembra credere davvero, ma è un modo come un altro per ammazzare il tempo: di sera vanno in osteria, dove gli italiani stanchi della guerra insultano loro e le loro medaglie, e di giorno si ritrovano in ospedale. Qui il soldato americano stringe amicizia con il maggiore, che si mette in testa di insegnargli la grammatica facendo conversazione. Finché un giorno il maestro va su tutte le furie dopo avere scoperto che l'allievo ha intenzione di sposarsi, una volta tornato in patria: se un uomo non vuole perdere qualcosa, gli ripete ossessivamente, non dovrebbe mettersi nella condizione di poterla perdere; altrimenti è sicuro che la perderà. Ma perché dovrebbe perderla?, chiede il soldato. Perché la perderà!, grida il maggiore. Non sta parlando di una mano né di un ginocchio né di un naso: è appena rimasto vedovo, come leggiamo poco dopo, e non riesce a darsi pace. Per un momento cede perfino al pianto. Alla fine si ricompone e chiede scusa per essersi lasciato andare. Da quel giorno continua a presentarsi in reparto ma senza parlare più, solo limitandosi a guardare fuori dalla finestra. E' l'ultima riga del racconto: dove capiamo che l'altro paese del titolo non è l'Italia ma un diverso tipo di terra straniera, quella desolata e buia in cui ci inoltriamo dopo avere subito una grave ferita dello spirito.
     E' lo stesso paese in cui abitano i personaggi di Dubus. Tutti, uomini e donne, si portano dietro una mutilazione. Se la sono procurata in guerra, o nel matrimonio, o durante l'infanzia. Alcuni la nascondono bene, e solo osservandoli attentamente si riesce a notare una leggera zoppia, una mano sempre tenuta in tasca; altri girano con un velo sul volto e allora è proprio impossibile non chiedersi quale ferita ci sia sotto. I più disperati sono quelli che stanno scontando i loro peccati - un adulterio, un atto di violenza, una vigliaccheria, una scelta sbagliata che poi si è rivelata cruciale - e perciò vivono nel rimorso e non riescono a smettere di guardarsi indietro. Noi però li incontriamo quando tutto è già successo, e questo a me pare il più serio motivo per cui Dubus è sempre rimasto fedele alla forma racconto, che è una forma aperta e permette di cominciare dopo che una tragedia si è ormai consumata, lasciarla indietro, occuparsi piuttosto di ciò che rimane. A lui interessava quel dopo, l'altro paese in cui vivono i suoi personaggi smarriti, che hanno perso tutto o quasi.
     Come si curano, o provano a curarsi, questi uomini e queste donne? Di solito con un nuovo amore. Che è un amore guardingo e sospettoso, un amore che ha imparato la lezione del maggiore: se non vuoi perdere non metterti nella condizione di farlo, se non vuoi altro dolore stai lontano dal campo di battaglia. Naturale che non regga, un amore così. Alcuni allora decidono di tagliare prima, non presentarsi all'appuntamento: sempre meglio una ferita pulita, disinfettata e nascosta dalle bende, che una ferita offerta a chi può riaprirla e farla sanguinare. Oppure no? Non è la fiducia il principio di ogni possibile guarigione?
     Dubus non dava risposte certe. Diceva di aver pensato per anni, e di averlo spiegato mille volte ai suoi studenti, che il racconto di Hemingway parlasse dell'impossibilità della cura. Poi gli era accaduto di restare invalido lui stesso, e aveva cominciato a leggerlo in un modo un po' diverso. A notare cose che prima non notava. Per esempio il rapporto tra i soldati: è vero che nessuno di loro crede nella terapia, però almeno si danno ascolto a vicenda, e quanto vale un compagno disposto a ricevere la tua storia? E poi il maggiore: un uomo così potrebbe facilmente tirarsi un colpo in testa, è quello che ci aspetteremmo da lui; invece ogni mattina si alza, va in ospedale e fa gli esercizi che un medico gli dice di fare. Perciò forse, pensò Dubus, è un racconto che parla di gente che prova a guarire. Ci prova come può, però ci prova. E con quell'idea in testa scrisse i suoi ultimi racconti, contenuti in questo libro. Se c'è chi scrive per turbare i giusti e chi per consolare gli afflitti e i peccatori, io direi che Dubus scriveva per dare coraggio a chi ha paura. A quelli terrorizzati da tutti gli sbagli che devono ancora fare. Ogni sua riga mi sembra piena d'affetto verso di loro.
     C'è un finale ricorrente nelle sue storie, che a noi lettori di racconti ricorda Salinger più che Hemingway, e un altro soldato ferito che non chiudeva occhio da giorni. Era il Sergente X, distrutto da ciò che aveva visto in guerra. Poi la lettera di una ragazzina, la sua inaspettata dolcezza, gli faceva venire un gran sonno come per incanto. E lui lo accoglieva pensando: prendi un uomo che abbia veramente sonno, Esmé, e avrai un uomo che ha ancora la possibilità di guarire. Così si addormentano gli insonni di Dubus, come deponendo le armi con cui non smettono di torturarsi, chiudendo gli occhi sul male commesso e affidandosi finalmente alla vita che deve ancora arrivare.


sabato 12 ottobre 2013

TOO MUCH HAPPINESS


Sono giorni di festa per noi lettori di racconti. Chi l'avrebbe mai detto: il Nobel per la letteratura a una narratrice che, in vita sua, non ha scritto nemmeno un romanzo. Certo che per ottenerlo Alice Munro ha dovuto lavorare parecchio: circa centocinquanta racconti scritti in quarantacinque anni di carriera, al ritmo di tre o quattro all'anno, senza fermarsi mai. Nel più vecchio, "Walker Brothers Cowboy", parlava di suo padre e di se stessa bambina, proprio come negli ultimi usciti l'anno scorso, nel libro che ha dichiarato essere il suo addio alla scrittura. Ma in fondo per tutta la vita ha scritto di fughe e ritorni. E ora mi piace ricordare che quando ha esordito lei, nel 1968, Raymond Carver faceva le pulizie di notte in un ospedale, il più delle volte ubriaco, e Grace Paley manifestava contro la guerra in Vietnam per le strade del Village, e adesso che entrambi sono morti da tempo questo premio è anche per loro due, che della Munro sono stati fratelli. E per le sue maestre del sud, Flannery O'Connor e Carson McCullers, e tutti quelli che hanno scelto di scrivere storie di poche parole. "Spero che questo premio faccia vedere alla gente il racconto come una forma importante d'arte", ha detto la Munro, "non solo qualcosa con cui giocare in attesa di avere per le mani un romanzo". Come gli altri, ha sempre sostenuto di essere stata costretta a scrivere racconti, perché non aveva tempo. Che è una battuta ma suggerisce quale sia il suo rapporto col mondo: c'è troppa vita là fuori per chiudersi in una stanza a meditare, e di quella vita i suoi racconti traboccano come bricchi del latte lasciati sul fuoco. Un critico americano ha detto che, più che nei quattordici libri in cui sono stati raccolti, stavano bene sulle riviste in cui via via uscivano, sulle colonne del New Yorker: tra un reportage da un paese in guerra e un'inchiesta di costume, come se il racconto non fosse solo un brano di prosa ma un altro tipo di informazione sul mondo, un modo di capirlo meglio; e che tra le informazioni respirasse, le nutrisse e ne fosse nutrito. E' proprio così: un buon racconto ci informa su come si sta sulla terra. "L'obiettivo della mia scrittura è sempre stato offrire una rivelazione su cos'è davvero la vita. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così. Perché è la reazione che ho io davanti alla scrittura che amo di più. Una sensazione di meraviglioso sbalordimento. E di gratitudine per aver visto la vita in modo così intenso, attraverso la scrittura". Forse per questo la sua ultima raccolta si intitola "Dear Life", come la lettera d'addio di qualcuno che l'ha amata molto.

Osservata dalla fine, è la coesione del suo lavoro che fa impressione. Si parla a volte di "romanzi di racconti", e anche tra le raccolte della Munro ce n'è qualcuna che potrebbe esser letta così (tanti citano un titolo, "Lives of Girls and Women", che in certe sue bibliografie passa per romanzo; io ci aggiungerei "Chi ti credi di essere?" e "La vista da Castle Rock"), però a me sembra che qui la questione perda di significato. Tutti i racconti di Alice Munro dialogano tra loro. Quelli vecchi aiutano molto nella comprensione di quelli nuovi, quando ritrovi per esempio un padre allevatore, una matrigna efficiente e volgare, una figlia divorziata ed eternamente in crisi, un paese che è sempre lo stesso pur cambiando ogni volta nome, e ti sembra di rincontrare dei vecchi amici nelle loro vecchie case. E' come un unico enorme edificio: centocinquanta racconti connessi in un mosaico, al punto che distinguere tra le tante raccolte un giorno non avrà più importanza, com'è successo con Cechov, con la O'Connor, con tutti i bravi scrittori di racconti. Faulkner aveva fondato la contea di Yoknapatawpha, cuore di un immaginario stato del sud, per avere un luogo in cui ambientare racconti e romanzi, e nel caso di Carver fu un critico a ribattezzare Carver Country quella parte di midwest tutta villette, motel e disperazione; con altrettanta legittimità oggi potremmo prendere una mappa d'America, guardare a nord e trovare il paese di Alice Munro. A me non pare molto importante definirne i confini politici (è Canada, ma se fosse Michigan o Minnesota cambierebbe qualcosa? La lingua, la cultura, il paesaggio, le storie delle persone? Ha senso parlare di letteratura canadese, o non è piuttosto un'unica tradizione nordamericana?). E' un territorio sterminato fatto di laghi e boschi, e campi, fattorie, silos di cereali, ogni tanto un paese e molto più raramente una città, che sono sempre Toronto, all'est, e Vancouver all'ovest. Questo paesaggio nei racconti non è scenografia ma personaggio: vivo, misterioso, generatore di conflitti e movimenti narrativi. La campagna è l'infanzia da cui scappare e molto più tardi il ritorno alle origini, un ritorno che non dà pace ma pone domande, scoperchia segreti, riapre ferite. La città è una liberazione in gran parte fallita, come falliscono i matrimoni e certe lotte personali, lotte per cambiare se stessi prima che il mondo intorno. Detto per scherzo ma poi neanche troppo: il primo marito di Alice Munro faceva il libraio, il secondo invece era un geografo. E di geografia, geologia, botanica sono fitti i suoi racconti, le sue donne tese a osservare il paesaggio che hanno intorno, a interrogarlo, a cercar di capire dove sono e come ci sono arrivate. Ogni volta che ricominci, che leggi la prima riga di una delle sue storie ti ritrovi lì. Preferibilmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, perché Munro Country non è solo un luogo ma un'epoca - anch'essa fatta di rivoluzioni e restaurazioni, fughe e ritorni. Io non sono mai stato da quelle parti e sono nato subito dopo, eppure, come mi succede con pochi grandissimi scrittori, sento che quello è anche il mio mondo, lo conosco così bene che potrei partire adesso e andare ad abitarci.

In questi due giorni ho letto moltissime inesattezze, diverse contraddizioni e qualche bugia bella e buona. Immagino sia normale se uno scrittore vince il Nobel e un giornalista che lo conosce poco deve buttare giù un articolo in fretta e furia. La lingua di Alice Munro è ridotta all'osso oppure elaborata ed elegante? (la seconda) Ha scritto, incredibilmente, centocinquanta racconti della stessa lunghezza oppure uno è di quindici pagine, un altro di settanta? (la seconda) Il narratore è sempre onnisciente, il protagonista sempre una donna, il Canada sempre sorveglia immenso e glaciale? (va be', avete capito) Non importa. A chi l'ha amata da quando ha imparato a leggere starà per forza sulle balle chi ne sa poco e parla troppo, però un paragone è giusto, e infatti prima dei giornalisti l'ha proposto Cynthia Ozick quando ha detto che "Alice Munro è il nostro Cechov" (tra l'altro la Ozick è un'ebrea statunitense, dunque anche per lei non è un problema chiamare "nostra" una scrittrice canadese). Come per Cechov, anche per la Munro un racconto è sempre il tentativo di arrivare a una verità, far luce in una zona buia. Capire un po' meglio com'è fatta la vita. Sbalordirsi di fronte alla sua meraviglia segreta.

Infine, da appassionato sostenitore dell'editoria indipendente, mi pare doveroso ricordare chi ha portato Alice Munro in Italia. La prima fu la casa editrice Serra e Riva: fondata nel 1977, e dedicata ad autori di lingua inglese sconosciuti o dimenticati, pubblicò "Il percorso dell'amore" nel 1989. Ma soprattutto fu La Tartaruga, storico editore femminista milanese, a diffondere la Munro qui da noi negli anni Novanta: "La danza delle ombre felici" (1994), "Stringimi forte, non lasciarmi andare" (1998), "Segreti svelati" (2000). In mezzo ci fu anche un'edizione e/o di "Chi ti credi di essere?" (1995). Poi dal 2001 Einaudi ha intrapreso un percorso di ripubblicazione dell'intera opera, tutta tradotta magnificamente da Susanna Basso, la cui lingua è per noi lettori di Alice Munro un po' come la voce di Ferruccio Amendola per i fan di Robert De Niro. Ne mancano ancora tre - due vecchie raccolte e l'ultima - e speriamo di vederle presto in italiano. Non so se ce ne saranno altre. La Munro aveva detto basta la prima volta nel 2010, poi ci ripensò, riprese a scrivere e da allora ha pubblicato ben due libri. Nel 2012, dopo "Dear Life", ha ribadito con più convinzione che quelle sono le sue ultime storie. Non è che a ottantadue anni si senta stanca: è che, ha detto, non è più disposta alla solitudine necessaria alla scrittura. Ha perso da poco il marito, e ha voglia di passare gli anni che le restano in compagnia delle persone che ama. Come non capirla? Solo chi non le vuole bene potrebbe rammaricarsene. Auguriamole piuttosto buona vita, e grazie per tutte quelle bellissime storie.

martedì 16 luglio 2013

SETTE PADRI AMERICANI


per Alice, Charles,
Ernest, Peter, Ray,
Richard e Toby

Tuo padre e la sua macchina sembravano una cosa sola. Preferiva le Chevrolet. Parlava dell’Ovest in cui era cresciuto come dell’unica America ancora intatta: dove un uomo poteva avere tutto lo spazio che gli serviva, e una macchina per attraversarlo da parte a parte. Conservi una foto di lui a ventidue anni, appoggiato al cofano di un furgoncino Ford, una sfilza di persici gialli in una mano e una bottiglia di birra nell’altra: fissa l’obiettivo con aria di sfida, come se facesse a gara con qualcuno, ma è il sorriso che lo tradisce, l’impacciata spavalderia di quell’età. La birra è una Bud. Per tutta la vita, senza troppo successo, tuo padre ha cercato di sembrare un duro.
Tuo padre e le sue chiacchiere da imbonitore. Discorsi seri, da uomo a uomo, su argomenti che magari eri troppo piccolo per capire, ma un giorno eccome se gli avresti dato ragione. Ogni tanto ti chiedevi se non stesse parlando da solo. Se accennava a tua madre la chiamava proprio così: tua madre. L’umore di lei oscillava tra il poco arrabbiata e il molto arrabbiata con lui. Una volta che era poco arrabbiata lasciò che tuo padre ti portasse a sciare, alla vigilia di Natale, a patto di essere a casa per cena: soltanto che, nella neve del pomeriggio, lui trovò una qualità rara e preziosa che lo spinse a un’ultima discesa, e poi a un’ultima ancora, e poi a un’ultimissima. Nel frattempo nevicò così tanto che la polizia chiuse la strada. Questa tua madre non me la perdona, disse tuo padre davanti alle transenne. Dovevamo partire prima, commentasti tu, piccolo petulante. E allora come ne uscì, tuo padre, vedendosi preso in mezzo tra una donna e un ragazzino, entrambi convinti di essere più saggi di lui? Oltrepassò il cartello di divieto, spostò le transenne e si fece tutta la discesa nella neve fresca. Tu non lo fare mai, ti disse, capace di darti una lezione anche mentre infrangeva la legge. I bordi della strada non si vedevano più. Sulla neve sembrava di planare. Magari era un irresponsabile, però bisogna ammetterlo, che guidatore: sensibilissime le dita sul volante, leggerissimi i piedi sui pedali.
Tuo padre, l’affilatore di lame. Ricordi il gesto di pulirsi la mano sui calzoni, prima di stringerla ad altri. La bottiglia di whisky da quattro soldi nascosta sotto il lavandino. Davanti alle bizzarrie del mondo, lo stecchino di tuo padre passava da un angolo all’altro della sua bocca mentre lui considerava i modi in cui la gente si rovina. Aveva un amico giù alla segheria che possedeva uno stagno, e si era comprato un barile di trotelle con l’idea di allevarle e rivenderle ai pescatori: solo che a quelle trote finì per affezionarsi troppo. Era uno la cui moglie si vedeva spesso in giro, e forse questo c’entrava. Cristo, guarda che roba, disse tuo padre, quando ti portò a pescare allo stagno del suo amico, e l’acqua ribolliva di pesci. Gli consigliò di tirarne fuori un po’ se voleva far crescere gli altri, e quello in risposta prese il fucile e vi cacciò da casa sua. Tuo padre scosse la testa e non ne parlò mai più - erano le cose che non capiva, oltre al whisky cattivo, quelle che alla fine l’avrebbero ammazzato.
Tuo padre e suo padre: eccone un’altra di cui non parlava mai. Hai una foto di loro due di spalle sulla riva del lago Michigan. Lì tuo padre non è che un ragazzino. Tuo nonno invece è appena tornato dalla guerra, quella grande, e ora indica qualcosa all’orizzonte: forse spiega a tuo padre quant’è profondo il lago, forse gli elenca le città dal nome indiano sull’altra sponda. In casa ha ripreso subito il suo trono a capotavola. Con la mano sinistra indica, ma con la destra stringe il collo di tuo padre, e quella stretta è una morsa. Non sa che, mentre lui era nel Pacifico, suo figlio ha segretamente sperato che non tornasse. Anche se a scuola disegnava suo padre a bordo di una corazzata e scriveva: Giapponesi attenti, arriva papà! Anche se adesso resiste alla stretta di quell’uomo, osserva il lago e si sforza di vedere quello che vede lui.
Tuo padre, il venditore porta a porta. Quale mestiere migliore per uno con la sua parlantina? Ricordi il giorno che ti portò con sé e allungò il solito giro per andare a salutare una vecchia amica: lei abitava in una fattoria, era sola in casa, fu stupita di vederlo e anche un po’ offesa, come per un’antica questione tra loro due. Disse be’, chi non muore si rivede. Benché tu non ti ricordassi affatto di quella donna, lei giurò di averti preso in braccio che eri grande così, e non riusciva a credere quanto fossi cresciuto. Dopo che si fu ammorbidita vi invitò dentro a bere qualcosa di fresco. Era estate. Loro due ne avevano di cose da raccontarsi. Quando la radio passò una certa canzone tuo padre si alzò da tavola e prese la sua amica per i fianchi, e lei accettò di ballare, rise, le si arrossarono le guance, poi però successe qualcosa e il ballo si interruppe a metà, e ve ne andaste dopo non molto, nell’imbarazzo generale. Per una volta, durante il viaggio di ritorno tuo padre non canticchiava. Questo non lo raccontare a tua madre, disse. Non capirebbe.
Tuo padre senza lavoro. Tuo padre che sosteneva di avere un affare per le mani. Tuo padre, l’ottimista: diceva sempre che era l’ora di svoltare, darsi una mossa, traslocare, lasciare quel buco di città e andare dove giravano i soldi, allungare la mano e cogliere una buona volta la maledetta mela americana. Da anni sognava di rapinare una banca. Il piano lo conosceva nei dettagli, avendo rapinato quella banca, nella sua testa, già un milione di volte o due. Più di tutto si era studiato le battute. Tuo padre e la sua convinzione che il punto stesse nel saperci fare, la sua incapacità fisiologica di prevedere i contrattempi, la sua arte di scovare all’ultimo una via di fuga. Quando fu ora di scegliere tra la sua amica e tua madre, entrò nel servizio forestale e se ne andò in montagna a domare gli incendi.
Tuo padre e la guerra che aveva fatto, quella sporca. Le lettere che mandava da laggiù, lettere per tua madre giovane che tu leggesti molto tempo dopo. Era già tornato a quel punto, e da qualche parte ogni tanto riusciva ancora a ripescare quella sua allegria, il sorriso a cui le ragazze non resistevano. Ma nelle lettere aveva perso perfino le parole. Cominciava a raccontare dei villaggi, dei bambini, e poi si fermava di colpo come se ci avesse ripensato, e scriveva di te e di tua madre e diceva che se una cosa gli dava un po’ di sollievo era sapere che c’eravate voi due, in un posto lontano lontano, che non ne sapevate nulla e non ve lo potevate nemmeno immaginare. Però alla fine non ti negò l’esperienza di trovarlo con la testa spappolata, nella sua macchina - e dove altro? - accasciato sul volante coi tergicristalli che andavano, solo che non riuscivano a pulire niente perché tutto lo schifo era all’interno.
Tuo padre il cacciatore, il pescatore. Qualche anno prima di farsi saltare le cervella. Ti insegnò a infilare una cavalletta nell’amo, e per tutta la vita avresti ripensato a lui ogni volta che quel sugo color tabacco ti macchiava le dita. Una notte l’avevi visto praticare un cesareo. Tuo padre il medico degli altri, la malattia di se stesso: al ritorno, sulla barca, lui remava in silenzio e tu accarezzavi la superficie dell’acqua con la mano. Gli chiedesti se era difficile morire, lui ci pensò un po’ su e poi disse: dipende. Ci mettesti del tempo a capire quella risposta evasiva. Il fatto che c’erano cose di cui tuo padre non era per niente sicuro, eppure si sentiva in dovere di fingere di sapere anche quelle. Perché fosse così importante non dire mai: non lo so. E che tuo padre non avrebbe mai ceduto i remi della barca ad altri, né il volante della Chevy, né il comando delle operazioni, perché magari quella strada non portava da nessuna parte, ma finché stavi nella sua macchina si andava dove diceva lui.



(Questo testo è liberamente tratto da due romanzi, sei racconti e una poesia. Chi li trova tutti vince un libro a sorpresa.)

mercoledì 13 giugno 2012

LE CASE DEGLI ALTRI

   (Quest’anno ricorre il centenario della nascita di John Cheever, e l’editore Feltrinelli lo celebra ripubblicando tutta la sua opera. O pubblicandola per la prima volta, come nel caso di molti dei 61 racconti usciti in questi giorni. Per l’occasione sono stato invitato a tenere una lezione su Cheever alla Scuola Holden di Torino, che ringrazio di cuore per l’ospitalità. Eccone qui un estratto.)

   Che cos’è una casa? È una scatola che divide il mondo in due spazi: un dentro e un fuori. La sua sola esistenza genera un conflitto, materia prima ideale per costruire una storia. Per cominciare a immaginarla potremmo chiederci: che cosa sta dentro la casa e che cosa rimane fuori? In quale rapporto sono questi due spazi, e come comunicano tra loro? Esistono porte e finestre per passare da uno all’altro? Quanto sono permeabili i muri? Quali tracce conserva una casa di chi ci vive o ci ha vissuto, che notizie dà dei suoi abitanti?
   Come scrittore credo di esserne ossessionato. Solo dopo aver finito i racconti della mia nuova raccolta mi sono accorto che parlano tutti di case. E di case parlano i miei racconti preferiti. Ne rileggo spesso uno di Rigoni Stern, Le mie quattro case, in cui Mario ricostruiva la propria storia attraverso le case abitate. Una memoria legata ai luoghi che tutti possediamo, e che compone una biografia possibile di ognuno di noi, ma il bello del racconto è che una di quelle case era andata distrutta prima che lui nascesse, e un’altra non era mai esistita se non nella sua testa. Era la baita che Mario aveva progettato mentre era prigioniero nel lager, un sogno di casa che gli aveva occupato la mente e salvato la vita. Sarebbe stata appartata, lontana dagli uomini e vicina al bosco, essenziale, calda, adatta a curarsi dalle ferite della guerra e a far pace col mondo.
   Quel rifugio ideale di Rigoni Stern me ne ricorda un altro a cui sono affezionato, la Casa di Chef messa in scena da Carver nel racconto omonimo. Il protagonista, Wes, era uno dei suoi soliti ubriaconi. Aveva perso il lavoro ed era stato lasciato dalla moglie, ma adesso era sobrio da qualche tempo e un tizio conosciuto agli alcolisti anonimi, questo Chef, gli aveva prestato una casa per l’estate. Era piccola e vicina all’oceano. In quella casa a Wes era sembrato di poter ricominciare, tanto che dopo un po’ aveva telefonato alla moglie, chiedendole perdono e invitandola a passare l’estate lì con lui. Le case nuove hanno questo di buono, ci illudono di poter rinnovare anche la nostra vita.

   Così, come quegli studiosi dell’Ottocento che smontavano le favole cercandone i meccanismi ricorrenti, ho inaugurato uno studio che sta a metà tra architettura e narrativa: quante cose si possono fare con una casa in una storia? Ci ho riflettuto per un po' di tempo e ne ho trovate alcune. Ho provato ad abbinare a ogni situazione una funzione narrativa, ed ecco qui qualche proposta per un immaginario manuale (accetto suggerimenti per ampliarlo):

- Costruire una casa (fondare una dinastia)
- Comprare casa (diventare adulti)
- Cambiare casa (cambiare vita)
- Scappare di casa (conquistare la libertà, partire per l’avventura)
- Essere cacciati di casa (subire uno sradicamento)
- Avere la casa distrutta, bruciata, allagata (perdere tutto)
- Distruggere, bruciare, allagare casa propria (suicidarsi)
- Avere i ladri in casa (subire una violazione)
- Avere un inquilino in casa (condividere la propria intimità con un estraneo)
- Abitare in casa d’altri (introdursi nell’intimità altrui)
- Avere la casa pericolante (perdere le certezze)
- Avere la casa infestata da topi, scarafaggi, tarli (sentirsi minacciati)
- Avere la casa infestata dai fantasmi (scoprire segreti del passato)
- Chiudersi in casa (essere depressi)
- Sostare davanti alla finestra di casa (aspettare un cambiamento)
- Uno sconosciuto bussa alla porta di casa (novità in arrivo)
- Un poliziotto bussa alla porta di casa (guai in arrivo)
- Una casa in costruzione (la nascita)
- Una casa trascurata (la malattia, la solitudine)
- Una casa illuminata nella notte (la felicità domestica)
- Una casa disabitata (la morte)

   A Cheever piacevano particolarmente queste due: Introdursi in casa d’altri e Subire un’intrusione. A partire dal suo racconto più celebre, Una radio straordinaria, in cui una giovane sposa, Irene, una ragazza sulla cui fronte “nulla ancora era stato scritto”, riceve in regalo dal marito una radio difettosa, in grado di captare le conversazioni nelle case dei vicini. Scoprirà che coppie apparentemente felici nascondono segreti di ogni tipo, ne sarà sconvolta e perderà ogni illusione sulle gioie del matrimonio, compreso il suo. Nel racconto Stagione di divorzio succede un po’ il contrario: una moglie di mezz’età, Ethel, riceve l’inaspettata dichiarazione d’amore di un conoscente a sua volta sposato, il dottor Trencher. Questo dottore è così ossessionato da Ethel da abbandonare il tetto coniugale per appostarsi sotto casa di lei e seguirla ovunque, rinnovando le sue proposte di fuga romantica. Il bello del racconto è la reazione della donna, che dopo un grande turbamento si accorge di non essere mai stata così desiderata in vita sua, ha la tentazione di scappare con il dottore, ma poi sceglie di restare con il marito e allo stesso tempo si condanna all’infelicità. Le case di Cheever non contengono un io, ma quel noi che lo scrittore ha usato spesso come voce narrante: ogni coppia ha una vita apparente e una vita segreta, e questi sono il fuori e il dentro separati dalle mura domestiche. A volte il dentro può essere origliato da una radio speciale, spiato attraverso una finestra, confessato al bancone di un bar grazie a qualche bicchiere, rivelato dall’incuria del giardino o dalla cronica assenza di ospiti, o semplicemente raccontato dagli oggetti che troviamo nelle case degli altri, se siamo abbastanza bravi a capire la loro lingua. Di questo parla quello che è probabilmente il mio racconto preferito di Cheever. Ne ricopio qui l’inizio, sperando che per qualcuno sia il benvenuto nel mondo di un grande scrittore.

   LE CASE AL MARE

   Ogni anno affittiamo una casa in riva al mare e all’inizio dell’estate ci trasferiamo lì con i bambini, il cane, il gatto e la cuoca. Arriviamo in quel luogo che non conosciamo poco prima che faccia buio. Il viaggio verso il mare ha un eccitamento cerimonioso tutto suo - sono tanti ormai gli anni che lo viviamo - con quella consapevolezza di chi siamo, ciò che nei sogni abbiamo sempre saputo di essere - girovaghi e migranti - viaggiatori, insomma, con la tipica sensibilità del viaggiatore. Il vicino ti dà un mazzo di chiavi mezzo arrugginite dalla salsedine, tu apri la porta ed entri in un corridoio buio o pieno di luce, pronto a iniziare la vacanza: un mese che si preannuncia senza preoccupazioni. Ma altrettanto forte, se non addirittura più forte di questa piacevole sensazione di ritorno alle origini, è la sensazione di essere finito nel bel mezzo della vita di qualcun altro. Io tratto con gli agenti immobiliari e non mi capita mai di conoscere i proprietari delle case che prendiamo in affitto, ma la loro capacità di lasciarsi alle spalle il senso della loro presenza fisica ed emotiva è straordinaria. La storia della nostra vita non è di certo scritta nell’aria o nell’acqua, eppure sembra che possa venir raccontata dai battiscopa graffiati, dagli odori, dal gusto nello scegliere quadri e mobili, e il clima che respiriamo in ogni casa è caratteristico quanto gli improvvisi stravolgimenti del tempo in spiaggia. A volte in quel lungo corridoio si prova una sensazione di benevolenza, una purezza e limpidezza di sentimenti verso cui non si può restare insensibili. Qualcuno lì ha passato momenti veramente felici, e si ha la sensazione di aver preso in affitto pure la sua felicità insieme alla sua casa. A volte l’atmosfera del posto sembra misteriosa, e rimane tale fino ad agosto, quando ce ne andiamo. Chi è, viene da chiedersi, la donna nel ritratto al piano di sopra? Di chi è l’opera completa di Virginia Woolf? Chi ha nascosto la copia di Fanny Hill nella vetrina, chi suonava lo zither, chi dormiva nella culla? E chi era la donna che ha dipinto con lo smalto rosso le unghie delle zampe di leone della vasca da bagno? Com’era la sua vita in quel momento?
   Mentre il cane e i bambini corrono giù in spiaggia, noi portiamo dentro le nostre cose: ci sembra di vagare attraverso le dense storie di questi estranei. Calato il buio ci prepariamo un drink, mandiamo i bambini a dormire e, dopo aver preso tutte le misure per esorcizzare la presenza dei proprietari e assicurarci il pieno possesso del posto, facciamo l’amore in una stanza estranea che odora del sapone di qualcun altro. Ma nel bel mezzo della notte la porta del terrazzo si apre e sbatte, sebbene sembra che non ci sia vento, e mia moglie, mezzo addormentata, esclama: “Ma perché sono tornati? Perché sono tornati? Che cos’hanno dimenticato?”

John Cheever, I racconti
(Le case al mare è tradotto da Leonardo Giovanni Luccone)
Feltrinelli 2012




venerdì 25 maggio 2012

RAY NE FA 74

   In principio fu Bukowski. Il mio incontro con Hank: Storie di ordinaria follia, preso in prestito in biblioteca e letto invece di studiare Foscolo e Leopardi. Sesso e whisky da quattro soldi, stanze pulciose e corse dei cavalli al posto degli interminati spazi, i sovrumani silenzi, il greco mar ove vergine nacque Venere: fu una folgorazione. Gli altri romanzi e racconti seguirono in ordine sparso, nelle edizioni Guanda e Feltrinelli che possiedo ancora - Donne, Factotum, Post Office, Confessioni di un codardo, il Taccuino di un vecchio sporcaccione. Era l’estate tra la quarta e la quinta superiore. In settembre sperimentai per la prima volta quel senso di perdita che ogni lettore conosce bene: quando esaurisci i libri del tuo scrittore preferito è come se fosse morto un’altra volta, e solo a te, quel giorno, il mondo sembra un luogo triste e più vuoto. Passai a John Fante proprio per alleviare il lutto. Fu Hank in persona a indicarmi la strada. Era stato lui a riscoprire Fante, a salvarlo dall’oblio e convincere il suo editore a ripubblicarlo. Mi buttai nelle avventure di Arturo Bandini come se fosse un compagno di bevute del vecchio Chinaski. La strada per Los Angeles, Sogni di Bunker Hill, Aspetta primavera Bandini. Ora personaggi e titoli si confondono nella mia memoria, e io provo per loro l’affetto riservato agli amori giovanili. Avrei un po’ di timore a rileggerli, come a incontrare un certa ragazza insieme al marito e ai figli. E se la trovassi sformata dalle gravidanze, instupidita da biberon e pannolini? Magari invece scoprirei una donna affascinante, e due scrittori del tutto nuovi: l’alcol e il sesso mi colpirebbero meno, apprezzerei dettagli che ai tempi non notavo. Il rapporto di Bandini con il padre. L’Abruzzo trapiantato in California. Chinaski dietro uno sportello postale con i postumi della sbornia. I gesti delle ubriacone sfatte raccattate al bar.

   Poi venne Raymond Carver, ramo dello stesso albero genealogico: avevo letto una sua poesia su una serata passata con Bukowski. Quella in cui Hank afferma che può bere birra a volontà, ma di non dargli whisky se no diventa cattivo. E poi attacca a parlare della sua nuova ragazza e dice: voi non sapete che cos’è l’amore. In un’intervista Carver disse che Hemingway era il suo maestro, ma Bukowski il suo eroe. Bastava questa dichiarazione per leggermelo tutto. Mi ricordo bene le vecchie edizioni dei libri di Ray, prima che minimum fax lo rilanciasse: i Garzanti gialli, la collana degli Elefanti; l’edizione Serra e Riva di Cattedrale che poi mio padre mi ha regalato; gli introvabili Pironti che a volte scovo nelle librerie dell’usato, me li porto via per pochi soldi e mi sento come quelli che scoprono un Picasso in un mercatino. Questo per dire che anche la memoria di un lettore è una raccolta di storie: che copertina aveva quel libro, dov’ero quando l’ho letto; c’è stato quello che ho rubato ficcandolo nei pantaloni, e ora che ho tanti amici librai me ne vergogno ma non avevo soldi; quello leggendario perché risultava nelle bibliografie, tutti ne avevano sentito parlare ma non si trovava da nessuna parte; e poi quel libro fotografico, Carver Country, in cui miracolosamente personaggi e luoghi diventavano reali, e potevi vedere con i tuoi occhi la segheria di Yakima, la casa di Chef, la clinica per alcolisti in California, la faccia della moglie di Ray rovinata dalle botte, lo spazzacamino e perfino il cieco di Cattedrale. Ora di quel libro possiedo tre versioni: una americana, una francese e una italiana. La mia collezione di Carver comprende pure la prima edizione autografata di Where I’m Calling From. Penso a lui ogni volta che arriva il 25 maggio perché è il suo compleanno: sembra passato un secolo da quando è morto eppure oggi festeggerebbe i 74 anni, non molti in fondo, di certo non troppi per scrivere buoni racconti. L’anno di nascita, 1938, me lo ricordo sempre perché è lo stesso di mia madre. Gli faccio tanti auguri brindando a whisky e latte come in Vitamine, quando è quasi mattina, la festa è finita e tutti sono ormai crollati, e l’uomo invece di andare a dormire si siede al tavolo della cucina, pensa all’amica della moglie e al mezzo bacio che è riuscito a strapparle, e poi si versa un altro bicchiere deciso a tenere duro.

   In un racconto indimenticabile - Otto scrittori - Michele Mari parlava di Verne, Defoe, Stevenson, Conrad, Melville, Poe, London e Salgari come di un’unica voce senza tempo, una specie di dio narratore di storie marinaresche, incarnato di volta in volta in nomi diversi. Provo lo stesso sentimento per Fante, Bukowski e Carver. È la voce di un bianco americano, un uomo con pochi talenti e qualche sogno infranto, che va su e giù per il paese non a caccia di fortuna, ma in fuga da debiti e matrimoni falliti. Da bere c’è whisky allungato con acqua, oppure birra in confezione da sei. I lavori cambiano sempre, i soldi non bastano mai, le donne bevono quanto gli uomini e comunque, come diceva Hank, sono donne di altri: quando gli altri le scaricano le raccogliamo noi.
   La firma di Carver che ho sotto gli occhi non assomiglia a quelle degli scrittori americani che ho incontrato di persona, che sono grandi, tonde, a tutta pagina, e al collezionista danno soddisfazione. La sua è uno scarabocchio tremolante. Ray diceva di non amare la sua firma: gli ricordava le cambiali, i debiti e i due processi per bancarotta che aveva dovuto subire. Avrebbe preferito non firmare più niente in vita sua. Del successo raggiunto negli ultimi anni non apprezzava tanto la fama, quanto la stima di se stesso che aveva ritrovato. Era stato, secondo le sue parole, un fallito, un alcolista, un imbroglione, un violento, un bugiardo, un ladro. Una faccia nello specchio che preferivi non guardare, un nome che non ti andava di vedere scritto. Una volta era quasi morto, e poi era rinato.
   La sua tomba si trova a Port Angeles, in un piccolo cimitero in cima a una scogliera. Poco più in basso si infrangono le onde del Pacifico, oltre lo stretto si vede Vancouver Island. Lì finiscono gli Stati Uniti e comincia il Canada. Sulla lapide c’è una delle ultime poesie di Ray:

E hai avuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E che cosa volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.



sabato 2 luglio 2011

UN CUORE DA BAMBINO

Ma avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere, preferibilmente e saggiamente, con le probabilità a suo favore, ma in caso di necessità deve combattere anche contro qualunque probabilità e senza preoccuparsi dell'esito. Deve seguire i propri usi e le proprie leggi tribali, e quando non può, deve accettare la punizione prevista da queste leggi. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un'onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino.


Il 2 luglio di cinquant'anni fa, all'alba, il più grande scrittore americano del Novecento diceva addio al mondo. È una delle poche date che mi ricordo ogni anno. Ho idea che non scriverei come scrivo, anzi forse non scriverei per nulla, se il vecchio ubriacone non fosse passato per questa terra. Grazie di tutto Hem. Non vedo l'ora di bere un bicchiere e incrociare i guantoni con te.

lunedì 11 gennaio 2010

ALICE MUNRO

(Come ormai i lettori sanno, tre anni fa Alice Munro dichiarò di aver smesso di scrivere. Il senso di morte incombente nella Vista da Castle Rock, l’autobiografismo esplicito di quelle storie facevano pensare a un libro-testamento, ma poi qualcosa dev’essere cambiato. C’è stata di mezzo una malattia, e c’è il rapporto delicato con la vita di una donna ormai ottantenne. Oppure, come ogni scrittore, Alice Munro è solo una grandissima bugiarda. Lo scorso autunno ha pubblicato la sua tredicesima raccolta di racconti, Too Much Happiness, che speriamo di vedere presto qui da noi. Magari invece è la volta buona per cominciare a leggere in inglese. Per il momento ho trovato un’intervista sul Wall Street Journal del novembre scorso, e ho tradotto qualche risposta per chi passa di qua)

Parecchie storie della nuova raccolta sono impregnate di violenza. Da dove viene?

Non me ne sono accorta finché il libro non è stato finito. Sapevo che la prima storia era una mazzata, infatti non sono stata capace di rileggerla. È troppo inquietante. Non ho deciso di usare la violenza come tema ricorrente, ma so che c’è, e può succedere di farlo senza rendersene conto.

Per quanto tempo lavori a un singolo racconto?

Su alcuni mi capita di lavorare per un anno, lasciandoli e riprendendoli. Due mesi è il minimo.

Come cominci una storia?

Comincio scrivendo a mano su un quaderno. La scrivo dall’inizio alla fine, ma quella non è la versione definitiva. Poi prendo un altro quaderno e la riscrivo daccapo, e questa volta si avvicina parecchio alla versione definitiva. Poi straccio queste prime due storie e, senza riguardarle, comincio a lavorare al computer. A questo punto ottengo qualcosa di sensato.

È facile per te lavorare al computer?

Sono un disastro con la tecnologia. Se smetto per un po’, mi dimentico come si usa il computer e mio marito deve rispiegarmi tutto di nuovo. E poi sono stata malata, ho avuto un tumore. La terapia lesiona pezzi di cervello, e pare che le ultime cose imparate siano le prime a partire.

Perché sei così legata alla forma del racconto?

Ho provato a scrivere romanzi e non sono arrivata da nessuna parte. Mi interrompevo sempre a metà, perdevo interesse nella storia, mi sembrava che non ci fosse niente di buono e lasciavo perdere. Ora mi sembra di scrivere sempre cose a metà. La gente li chiama racconti brevi, ma spesso non sono brevi e forse non sono nemmeno racconti, nel senso della compattezza. È una combinazione di linee che si diramano dalla storia o si sviluppano dentro la storia. Non so se esiste una parola giusta per definire una forma a metà strada tra il racconto e il romanzo. C’è una cosa chiamata novella, ma non ho mai capito esattamente cosa sia, e se io ne abbia scritta qualcuna oppure no.

In un’intervista alla Paris Review, hai parlato della paura di lasciarti dietro frammenti di storie non finite. Sei ancora preoccupata di questo?

No. Devo dire che ci sono stati dei cambiamenti. Da quando sono stata malata sono soltanto felice di essere qui, non mi preoccupo più delle cose che mi lascerò dietro. E penso che uno sarebbe molto fortunato a lasciarsi dietro qualcosa, per esempio una storia. Come se Cechov avesse scritto solo “La signora col cagnolino”, se fosse l’unica cosa che avesse mai scritto, ne sarebbe valsa comunque la pena, sarebbe valsa la pena di aver vissuto. Non penso più molto alla mia carriera.

Da dove arrivano le tue trame?

Alcune cose sono accadute realmente, ma per la maggior parte si tratta di cose quasi accadute, o che avrebbero potuto accadere. Cose della mia vita intorno a cui giro, per vedere “come sarebbe andata se”. È una specie di investigazione sul modo in cui le persone si comportano, o sul modo in cui alcune persone in particolare si comporteranno. Ma così suona più brutale di quanto sia in realtà. Dovrei essere capace di descrivertelo meglio, perché sono stata seduta qui tutta la mattina a lavorare a una storia appena cominciata.

Molti personaggi in “Too Much Happiness” riflettono sullla vecchiaia. È una questione che ti preoccupa, e invecchiare rende più urgente il tuo lavoro?

Avevo previsto di andare in pensione. Pensavo che a una certa età sarei stata soddisfatta del mio lavoro, e in pensione non fai nient’altro che goderti te stessa. Non hai nessun bisogno particolare e non ti svegli la mattina con il pensiero di infilarti la vestaglia e metterti a scrivere. Invece non mi è capitato. Per niente. È una cosa che mi ha sorpreso, pensavo che smettere fosse possibile e forse per alcuni scrittori lo è davvero, ma a me succedono ancora delle cose e penso sempre “Questa è l’ultima. Dopo questa mi riposo”. Ma finora non è andata così.

Puoi dirci qualcosa del tuo prossimo libro?

Ho un po’ di storie finite. Sono storie di una parte lontana della mia vita. E poi ci sono alcune altre storie che sto scrivendo adesso.

sabato 2 gennaio 2010

HAPPY BIRTHDAY MR. SALINGER

Da parecchio tempo ormai, il mio modo di cominciare l’anno è fare gli auguri a J.D. Salinger. Lo faccio tra me e me quando finisce il conto alla rovescia, e tutti brindano e si baciano. Ieri il vecchio matto ha compiuto 91 anni. Ha pubblicato il suo ultimo racconto nel 1965 e poi è sparito dalla circolazione: da allora tace e non si fa vedere, ma non sembra che abbia smesso di scrivere, anzi dice la figlia che in casa ha abbastanza inediti da riempire una biblioteca. Lui non sarebbe per niente contento di saperlo, ma a mezzanotte io lo penso per un po’ e mi sento meglio. Penso a lui, a Holden, a Buddy e Seymour, a Esmé e Sybil e penso: vivete ancora a lungo, dovunque voi siate. Nelle vostre celle monastiche, nelle vostre capanne sull’albero, nelle vostre grotte bananifere, nei vostri taxi e camere d’albergo e vasche da bagno. Poi torno nel luogo in cui mi trovo, e mi dedico anch’io a brindare e baciare.

***

Finalmente presi una decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuola. Quello che dovevo fare, pensavo, era andare all’Holland Tunnel e farmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro passaggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei trovato un lavoro. Pensai che potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifornimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro. Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere sordomuto. Così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po’ ne avrebbero avute piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei boschi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato una bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri, e insegnargli a leggere e scrivere.

J.D. Salinger, Il giovane Holden, 1951

venerdì 13 novembre 2009

POESIA CHE MI GUARDI

Per troppa vita che ho nel sangue
tremo
nel vasto inverno.


Nessuno, a scuola, mi aveva mai parlato di Antonia Pozzi. Eppure abitava dalle mie parti, in via Mascheroni a Milano. Frequentava il liceo Manzoni dove si innamorò del suo professore di lettere, Antonio Maria Cervi, ma il padre di lei era un uomo potente e riuscì a tenerli lontani. “E tu sei entrata nella strada del morire”, scrisse Antonia quell’anno. Era una figlia della Milano bene, altrimenti non avrebbe potuto studiare e scrivere, da donna, in Italia negli anni Trenta. Amava due cose sopra ogni altra: la montagna e la poesia. La sua famiglia aveva una casa a Pasturo, ai piedi della Grigna, dove lei si rifugiava spesso, ma esplorò le Alpi da occidente a oriente, dalla Val d’Aosta che conosceva bene alle Dolomiti ampezzane, dove arrampicava con l’amico e guida Emilio Comici. Un altro suo amico fu Vittorio Sereni, con cui studiava all’università, e a cui nel 1938 scrisse: “Forse l’età delle parole è finita per sempre”. Morì suicida quell’inverno, a ventisei anni, addormentandosi con l’aiuto dei barbiturici sul prato dell’abbazia di Chiaravalle. Il padre cercò di nascondere le cause della morte, manomettere il testamento e far sparire le lettere di Antonia, che già da qualche anno manifestava i segni di una durissima depressione. Le sue poesie, scritte a mano su alcuni quaderni e fino a quel momento inedite, vennero ugualmente alla luce: e solo allora si scoprì che Antonia Pozzi era stata una delle più grandi poetesse della sua epoca.
A Emilio Comici, che morì poco dopo di lei cadendo in montagna, scrisse:

Si spalancano laghi di stupore
a sera nei tuoi occhi
fra lumi e suoni:
s'aprono lenti fiori di follia
sull'acqua dell'anima, a specchio
della gran cima coronata di nuvole...
Il tuo sangue che sogna le pietre
è nella stanza

un favoloso silenzio.

Al suo sogno d’amore perduto, che nel ricordo si trasfigurò e da uomo di carne e sangue divenne puro rimpianto:

O velo
tu - della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita -
o nodo
lucente - di tutta una vita
che fu sognata - forse -
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano -
il ramo morto di tutti i giorni che restano,
che servono

per piangere te.

Alla scrittura, che fu ossessione e sollievo:

Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,

poesia che mi guardi.

Ora, la regista Marina Spada ha girato un documentario che, più che raccontare la vita terrena di Antonia Pozzi, cerca di catturarne lo spirito. Si intitola Poesia che mi guardi e per un po’ di tempo, dal 20 novembre in poi, sarà al cinema Mexico di Milano. Marina è una mia amica e maestra e mi sarebbe difficile parlare di questo film senza parlare delle cose che so di lei, e di tutto quello che la lega a una ragazza morta più di settant’anni fa. Ha a che fare con la poesia, con il potere della poesia di aprire varchi temporali nelle forme più imprevedibili: la prima volta che sono andato a casa sua c’erano alcuni versi di Majakovskij appesi allo sportello del frigo, probabilmente con una calamita di Paperino, che dicevano: Qui a Leningrado d’inverno non cesserò d’attenderti/ la guardia non smonterò nonostante i ghiacci/ pendano da ciglia e lacrime. Anche Marina monta la guardia da una vita, nonostante il generale inverno. Ha tratto il titolo del suo film Come l’ombra da una poesia di Anna Achmatova: Come vuole l’ombra staccarsi del corpo/ come vuole la carne separarsi dall’anima/ così adesso io voglio essere dimenticata. Ora si capisce meglio? E poi, il suo legame con Antonia Pozzi ha a che fare con la femminilità, con l’affermazione del proprio essere donna e allo stesso tempo artista, con il fare poesia o cinema invece di fare figli. E poi ha a che fare con Milano: gran parte di questo film è girato in città, ed è girato con il naso per aria. Chi è andato a spasso con Marina sa della sua tendenza a sbattere contro i lampioni, perché non bada a dove mette i piedi. Sotto ci sono le macchine, i negozi, i passanti e tutto quello che ci parla della nostra epoca. Sopra c’è un mondo in cui il tempo scorre molto più lentamente: come in montagna, alzando gli occhi si incontra lo sguardo di chi è vissuto qui prima di noi, perché vedeva le stesse terrazze e finestre, gli stessi balconi e camini, gli stessi tetti e le stesse facciate che vediamo noi. È lassù che Marina ha cercato lo sguardo di Antonia.

lunedì 2 novembre 2009

ADDIO A UNA BEAT

Ho letto diversi articoli dopo la morte di Fernanda Pivano. Erano pieni di affetto e ammirazione, ma anche terribilmente simili tra loro. Da quando ero un ragazzino conosco a memoria le sue gesta: nacque a Genova nel 1917 da un famiglia dell’alta borghesia; si trasferì a Torino dove studiò al liceo con Cesare Pavese, che fu il primo responsabile della sua passione per la letteratura americana; si laureò in Lettere con una tesi su Moby Dick, e tradusse Addio le armi quando in Italia era un libro vietato dal regime (perché descriveva in modo realistico la disfatta di Caporetto, e perché il suo autore aveva pubblicato un’intervista a Mussolini ritraendolo come un pagliaccio); fu arrestata dai nazisti e per questo più tardi divenne amica di Hemingway, oltre che sua traduttrice, assistente e forse pure amante; andò a vivere a Milano dove cominciò a lavorare nell’industria editoriale; scoprì i beat e li portò in Italia (sulla carta e in carne e ossa: memorabile è la sua intervista, in diretta Rai, a un Kerouac completamente ubriaco). Da allora divenne un mostro sacro. Se un giovane scrittore americano incontrava l’approvazione della Nanda, qui da noi aveva il tappeto rosso srotolato sotto i piedi. È accaduto a McInerney e alla sua generazione, i ragazzi prodigio degli anni Ottanta che da nessun’altra parte hanno ottenuto successo come in Italia. Questo, più o meno, oltre all’amicizia con De André, è tutto quello che si impara dalle sue agiografie. Libri famosi, nomi famosi, incontri memorabili, date e luoghi. Però Fernanda Pivano chi era, e perché diavolo si è messa a fare quello che ha fatto?

Intanto, bisognerebbe chiedersi che cosa rappresentasse la letteratura americana alla fine degli anni Trenta. Oggi per noi è la cultura dominante, allora era la voce dei nuovi barbari. All’epoca si leggevano i tedeschi, i russi, i francesi. Del Nuovo Mondo non si seppe quasi niente fino all’uscita dell’antologia curata da Vittorini, Americana, del 1942: lì dentro c’erano Hawthorne, Poe, Melville, London, la triade Hemingway-Faulkner-Fitzgerald, e poi Steinbeck, Anderson, Dos Passos, tutti i grandi scrittori emersi dall’altra parte dell’oceano dall’inizio dell’Ottocento. Questa scoperta dell’America avveniva in un ambiente culturale fortemente retorico (avete presente l’idealismo tedesco?), e in un clima politico di controllo e di censura. Erano i tempi dei libri vietati, che bisognava farsi portare da qualche corriere clandestino, e passarseli nelle zone franche delle università. Erano anche i tempi d’oro della nascita dell’Einaudi, in cui tra Torino e le Langhe si stava scrivendo l’epopea editoriale più appassionante del Novecento italiano. Mentre Vittorini curava la sua antologia, Pavese traduceva Moby Dick e un giovane Fenoglio si formava sui poeti inglesi. Di quegli anni la Nanda racconta: Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti.

Che cosa c’era a quei tempi nella letteratura americana che non si trovava qui? Io posso solo provare a immaginarlo, con la prospettiva di settant’anni dopo: la letteratura europea, all’epoca, era irrimediabilmente borghese. Era piena di giovani intellettuali, di innamorati depressi o di combattenti esaltati, ma non si parlava molto di emigranti, marinai, disoccupati, reduci di guerra, contadini travolti dalla Grande Depressione, vagabondi che saltavano sui treni, ubriaconi. Chissà che effetto faceva scoprire quel mondo durante la fase più delirante dell’ottimismo fascista, mentre qui si sbraitava sul progresso, la razza, l’impero. Era, credo, la scoperta della libertà di parola.

Non solo. Gli scrittori americani avevano la strana caratteristica di non essere intellettuali. Avevano fatto loro stessi i contadini, i marinai, i soldati, i cercatori d’oro. Erano scrittori immersi nella realtà, e osservavano il mondo che avevano intorno. Ecco, una cosa che si racconta poco di Fernanda Pivano è la sua passione per questa categoria di persone: i disadattati, i marginali, gli autolesionisti, i tossici, gli aspiranti suicidi, l’umanità alla deriva. Forse è lì che affonda le radici il suo legame con De André. La prima volta lui era andato da lei per suonarle le canzoni di Non al denaro né all’amore né al cielo, il disco tratto dall’Antologia di Spoon River, ma aveva lasciato la chitarra fuori dalla porta, perché si vergognava a entrare in casa sua così, facendo l’artista. Erano due genovesi ricchi, anarchici, irresistibilmente attratti dagli sbandati. Dal letame nascono i fiori: bisognerebbe guardare quell’intervista a Kerouac - con la Nanda tutta composta, affabile come una brava padrona di casa, e Jack stravolto dal whisky annacquato, la faccia gonfia e sudata, le risposte biascicate in una pena infinita - ripensando a quel verso. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

Credo sia questo che mi manca adesso. Questo amore libertario, del tutto estraneo ai giudizi morali, che la Nanda provava. È sopravvissuta agli scrittori che ha amato perché loro si sono ammazzati a fucilate, o bevendo, o fumando. Adesso tendiamo ad amare quelli sani. Quelli produttivi e lucidi nella loro visione del mondo. Lei preferiva i sofferenti, quelli che stanno male e quasi sempre muoiono prima del tempo.

Ieri ho rivisto A Farewell to Beat, il documentario del 2001di Luca Facchini. Verso la fine, in una strada piena di sole del Greenwich Village, il regista chiede alla Nanda che cosa vuole fare nella vita, e lei risponde: La puttana! Vi prego, fatemi fare la puttana! Ride come faceva lei, con tutto il corpo, con gli occhi che brillano e quel tintinnare di anelli e collane, e poi torna seria e dice: No, vorrei avere scritto tre righe che la gente si ricorda. Invece non le ho scritte, e forse non le scriverò mai.

martedì 15 settembre 2009

MAESTRE RITROVATE

Sono tortuose le strade che portano a leggere un libro. Mi ricordo bene, verso i sedici anni, la sensazione di vertigine che provavo entrando in biblioteca (allora, senza soldi, prendevo i libri in prestito o li rubavo; adesso al contrario ne compro troppi, più di quelli che riesco a leggere; forse quando sarò vecchio tornerò a fregarmene di accumulare carta, e possiederò solo il libro che sto leggendo). Migliaia di titoli, epoche e luoghi, e un esercito di scrittori morti che mi osservavano dagli scaffali, minacciando di crollarmi addosso come gli scheletri di Indiana Jones. Di certo lì dentro c’era quello che faceva per me, però come facevo a trovarlo? Il mio libro mi stava aspettando in qualche angolo di quel labirinto, e io non sapevo nemmeno da dove cominciare (credo di avere letto tutta Isabel Allende e tutto Paul Auster solo per evitare di vagare in preda al panico nella biblioteca di quartiere). Poi ho scoperto il sistema delle scatole cinesi. I libri sono pieni di indizi per arrivare ad altri libri, se uno è pronto a coglierli e a risalire la corrente. Così, a diciassette anni sono stato folgorato da un romanzo chiave per la mia generazione, Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Devo averlo riletto tre o quattro volte, e poi ho cominciato a notare le tracce che gli scrittori seminano sempre, perché raccontando una storia sentono il bisogno di dire da dove vengono, di fare i nomi dei loro maestri. Anche Brizzi era stato generoso. Nel romanzo, il protagonista leggeva Due di due di Andrea De Carlo: e io sono tornato in biblioteca, ho preso in prestito Due di due, me ne sono innamorato, in qualche mese ho letto l'opera completa di De Carlo (tuttora penso che i suoi primi cinque o sei libri siano da conservare; poi ne sono arrivati un paio che mi hanno molto deluso; gli ultimi non li ho letti). Un altro indizio seminato da Brizzi: sulla prima pagina del suo romanzo c’era una dedica ad Andrea P. e T., che hanno disegnato e scritto. Questa è stata una ricerca più ardua ma alla fine ho decodificato i nomi di Andrea Pazienza e Pier Vittorio Tondelli, e così anch’io ho conosciuto le storie di Pier. E poi sono andato avanti a scoperchiare scatole: di Tondelli non solo ho letto Altri libertini, ma ho esplorato il lavoro che faceva con gli aspiranti scrittori, scoprendo che a tutti consigliava Hubert Selby Junior, Ultima fermata a Brooklyn. L’incontro con Selby mi ha spalancato le porte di un mondo in cui sono tuttora immerso. Appena tre gradi di separazione e da Jack Frusciante - quel tascabile nascosto sotto al banco di liceo tra le gomme appiccicate e le barzellette sporche - ero arrivato alla letteratura americana del dopoguerra. (A proposito di americani, di gradi di separazione e pure di banchi di liceo, vi ricordate che cosa legge Holden Caulfield prima di scappare dal collegio? Secondo me non ve lo ricordate. La mia Africa. A Holden non piace mai niente, meno di tutto quello che è finto e pretende di sembrare vero, e invece La mia Africa lo appassiona. Se ne sta lì da solo a leggere Karen Blixen quando arriva il vecchio Stradlater a pulirsi le unghie e rompere i maroni. Così l’ho letto anch’io, cercando di non pensare troppo a Meryl Streep e Robert Redford, anche se non è stato facile. Aveva ragione Holden, è un gran bel libro. Leggendolo si capisce bene come mai piacesse tanto a Salinger.)

Ora, perché ho raccontato questa storia? Perché c’è un nome che mi perseguita da più di dieci anni, cioè dai tempi in cui lessi Ballo di famiglia di David Leavitt. Nell’introduzione a quel libro, Fernanda Pivano faceva parecchi nomi. Era il testo con cui nel 1987 presentava il minimalismo letterario al pubblico italiano, citando ampiamente un saggio-manifesto di un paio d'anni prima, New Voices and Old Values, in cui lo stesso Leavitt definiva le caratteristiche del nuovo movimento. Dunque la Nanda ne individuava il padre e la madre in Raymond Carver e Grace Paley, e gli esponenti più notevoli (“autori ormai quasi tutti popolari anche in Italia, o che lo diventeranno presto”) in Marian Thurm, Peter Cameron, Meg Wolitzer, Bobbie Ann Mason, Ann Beattie, Amy Hempel, Elizabeth Tallent. Nomi di scrittori americani, acqua per mia gola arsa. Io all’epoca non ne conoscevo neanche uno. La mia biblioteca di quartiere ne era sprovvista, ma non era colpa sua: era l’editoria italiana che li aveva persi per strada. Solo in anni più recenti è cominciato un lavoro di recupero dei maestri dimenticati, e pazienza se scrivevano racconti brevi: e così anche noi abbiamo letto le storie di Eudora Welty e Kathrine Mansfield, e di John Cheever, Donald Barthelme, Mary Robinson, Richard Yates. Ora è la volta di Amy Hempel. Ecco il nome che mi perseguitava. I suoi unici testi tradotti in italiano erano fuori dalla circolazione da quasi vent’anni. In America è considerata una maestra e più di una volta, a New York, ho preso in mano uno dei suoi libri, l’ho sfogliato e alla fine l’ho rimesso nello scaffale. Non era diffidenza né altro. Semplicemente, il suo inglese era troppo difficile per il mio. Per fortuna adesso ci ha pensato Mondadori, pubblicando in un solo libro le quattro raccolte di racconti che Amy ha scritto: Ragioni per vivere (1985), Alle porte del regno animale (1990), Rientrata (1997), Il cane del matrimonio (2005). Io ci vado giù pesante con gli editori, specialmente con quelli industriali, ma questa volta mi inchino di fronte a un’operazione che non porterà nessun ritorno economico: dico grazie a chiunque, in Mondadori, abbia avuto l’idea di pubblicare questo libro. I racconti di Amy Hempel sono difficili. Spesso sono lunghi solo due o tre pagine. Per gli appassionati della questione Carver-Lish, riporto la frase che chiude la raccolta: Con uno speciale ringraziamento a Gordon Lish, editor del mio primo e secondo libro, per la conversazione durata trent’anni. Dunque pare che lo spietato aguzzino abbia fatto anche del bene. Non so se con Amy Hempel abbia usato la sua leggendaria mannaia, ma di certo queste storie sono oscure, ermetiche, ellittiche, lavorate in modo maniacale. In questo senso mi ricordano quelle di Lydia Davis. Parlano di persone normali in situazioni normali, anche se nel mondo di Amy Hempel la normalità delle persone è più vicina all’ossessione, alla nevrosi, alla malattia mentale che a una pacifica, monotona lucidità. Alcuni racconti mi hanno spiazzato, a volte anche disturbato, però senza commuovermi. Altri li ho letti più volte perché mi hanno colpito al cuore: credo che tutti siano da rileggere e meditare, senza fretta di passare al successivo, prestando attenzione alle parole. Se siete persone più pazienti di me, uno al giorno potrebbe andar bene. In fondo Amy Hempel ci ha messo vent’anni per scriverne 48. Copio qui un pezzo del quarantaquattresimo, a me è piaciuto molto, poi fate voi.

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COS’ERANO LE COSE BIANCHE?

Queste stoviglie sono una compagnia di repertorio, recitano una parte in ogni sogno. No, non cominciò così. Disse che le stoviglie recitavano una parte in ogni quadro. L’artista proiettava diapositive delle nature morte che aveva dipinto nell’arco di più di trent’anni. Qualcuno fra il pubblico ristretto e attento chiese: “Quella tazza non era in un quadro di qualche anno fa?”. Sì, infatti, disse l’artista, e anche la caraffa, la terrina e il calice. Chi era la donna nuda appoggiata al tavolo sul quale erano disposte le stoviglie? L’artista non lo disse, e nessuno fra il pubblico ristretto e attento lo chiese.

A me bastava guardare gli oggetti su cui per tanti anni si era concentrata l’attenzione di un uomo di talento. Ero capitata alla conferenza mentre ero diretta altrove, a un appuntamento con uno specialista fissato dalla mia dottoressa. Due giorni prima mi aveva fornito il suo nome e l’indirizzo, e devo ammettere che avevo smesso di ascoltarla, anche se - o proprio perché - era importante. Così, anziché andare nello studio del radiologo, ero entrata nella chiesa sconsacrata dove si teneva la presentazione dell’artista, annunciata fuori con il titolo: “Trovare il mistero nella chiarezza”. Non era forse il contrario di quel che cercava la maggior parte delle persone?

Le stoviglie erano bianche, non smaltate, ed erano dipinte in modo realistico. I vari pezzi proiettavano ombre di lunghezza diversa in ogni dipinto, a seconda del taglio della luce. A volte erano allineati in modo da toccarsi, e a volte rimanevano spazi vuoti tra uno e l’altro. Quegli spazi vuoti erano parte del mistero che l’artista aveva in mente? Voleva che li prendessimo alla lettera, che pensassimo: assenza? Disse che la mente vuole comprendere il significato delle cose, vuole sapere quello che rappresentano. D’accordo, disse l’artista, ecco cosa ho dipinto quel settembre. Sullo schermo apparve un tavolo ben noto - perché da anni figurava nelle sue nature morte - mentre le due stoviglie più alte, la caraffa e il vaso, erano sparite; al loro posto non c’era niente.

Ahhh, fece il pubblico ristretto e attento.

Poi qualcuno chiese all’artista: “Cos’erano le cose bianche?”. Voleva dire le cose bianche negli altri quadri. Che cosa rappresentavano? E l’artista disse che non intendeva rispondere a quella domanda.

Amy Hempel, Ragioni per vivere

(Traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori 2009)


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La seconda maestra ritrovata è Ann Beattie, di cui minimum fax pubblica il romanzo d’esordio, “Gelide scene d’inverno”, del 1976. La sua assenza dalle librerie italiane è ancora più inspegabile di quella di Amy Hempel, perché la carriera di Ann Beattie non ha nulla di ermetico e oscuro: in 33 anni ha pubblicato sette romanzi e otto raccolte di racconti. Per i racconti, in particolare, è stata più volte accostata a gente come Cheever e Salinger. Era una buona amica di Carver: io l’ho sentita descrivere il loro rapporto nell’unico documentario biografico che esista su di lui, “To write and keep kind”, del 1992 (un brutto film, ma un documento prezioso). Così incrocio le dita e spero che i miei amici di minimum fax abbiano in cantiere anche i suoi racconti, in particolare il best of che in America è uscito una decina d’anni fa con il titolo di “Park City”.

A proposito di titoli: quello originale del romanzo, “Chilly Scenes of Winter”, anticipa il film che pochi anni dopo avrebbe segnato un’epoca: “The Big Chill” (Il grande freddo). Anche in questa storia i personaggi fanno i conti con la fine delle illusioni. Ann Beattie è del ’47, perciò ha vissuto in piena adolescenza la febbre degli anni Sessanta: e infatti la colonna sonora del libro corre parallela a quella del film. Ma nel 1976 Brian, Janis, Jimi e Jim sono già morti da un pezzo, e il protagonista Charles si trova a fare i conti con un padre che non c’è più, una madre che è uscita di testa e ogni tanto prova ad ammazzarsi, un patrigno che potrebbe essere eletto come Americano Medio dell’Anno e un grande amore, Laura, donna sposata che prima va a vivere con Charles, poi torna dal marito (un ex giocatore di football soprannominato “il Bue”), poi lascia marito e figlia e prova a stare da sola, in cerca di se stessa. La storia è più o meno tutta qui. Ma più che la trama, credo che l’importanza di questo libro sia nel ritratto di una generazione: quella dei trentenni colti e benestanti che da ragazzi vissero la rivoluzione culturale e da adulti furono travolti dal riflusso, e nel frattempo avevano perso ogni riferimento riguardo alla famiglia e alla coppia. Janis Joplin canta molto spesso in Gelide scene d’inverno, ma è un passato che sembra già remoto. Il futuro prossimo, annunciato come una cappa di umidità all’orizzonte, è Reagan, lo yuppismo, il vuoto pneumatico degli anni Ottanta. C’è una domanda ricorrente che Laura fa a Charles, il quale è un innamorato all’antica, del tipo ossessivo-persecutorio: perché ti piaccio così tanto? Che cosa trovi di così irresistibile in me? Che cosa ho in fondo di speciale? Forse, Laura, è solo che sei diversa da tutto quello che c’è fuori. A me sembra che succeda così. Forse amare Laura è un modo per conservare quello che è stato, e che è perduto per sempre.

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Per un po’, quando le cose fra loro andavano a gonfie vele, parlando con Laura a Charles era capitato di dimenticarsi che non avevano passato insieme tutta la vita. Le nominava i suoi compagni delle medie e dava per scontato che li conoscesse anche lei, le raccontava di come aveva mentito per non entrare nell’esercito e si dimenticava che non le aveva mai detto una parola sull’esercito. Laura non gli raccontava mai molto del suo passato. La madre era morta quando lei andava alle superiori. Charles non ha idea di che fine abbia fatto il padre, se sia vivo o morto. E non si ricorda dov’è andata alle superiori. In Virginia, ma quale parte della Virginia? Durante le superiori ha lavorato come cameriera. Ma gli ha mai raccontato com’era, fare la cameriera? Gli ha mai raccontato un aneddoto buffo? Gli pare di no. Laura ha un fratello che gestisce un rifugio per cacciatori. Non lo vede da anni. Una volta per Natale le ha mandato una testa di cervo. E poi che altro, che altro sa di Laura?

I capelli di Laura sono sempre elettrici. Lei cosparge la spazzola di lacca spray, sperando di risolvere così il problema. Il suo Beatle preferito è George Harrison. Non ha mai dovuto portare l’apparecchio per i denti. Le piacciono i saponi costosi, dal profumo delicato. Ha i capelli lunghi e mossi. Quando si è comprata la prima macchina era esaltatissima, anche se era una macchina vecchia. All’università prendeva voti discreti. La prima volta che ha bevuto è stata a diciott’anni, un rum collins. Adesso beve scotch. Le fanno pena le giraffe. Non le importa cosa ci mettono sulla pizza, purché non siano alici. Però le piace la Caesar Salad, ed è rimasta sorpresa quando ha scoperto che dentro c’erano anche le alici tritate. Le piace Jules e Jim. Ha pensato di fare la regista. Una volta ha visto Otto Preminger per strada. Certo che è sicura che era lui. Cuoceva striscioline di carne, mandorle e verdure nel wok, coltivava violette che avevano gli stessi colori dei suoi saponi a tinte pastello, si faceva la doccia con l’acqua troppo calda per lui. Una volta gli ha chiesto perché si festeggiava il Primo Maggio. Non si ricorda bene i nomi e le date e non si sente troppo in colpa per questo. Ha i piedi lunghi. I piedi lunghi e magri. I macellai sono gentili con lei, i benzinai le puliscono il parabrezza.

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Ann Beattie, Gelide scene d’inverno

(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2009)

domenica 8 marzo 2009

ANNIE SCRIVE COME UN MASCHIO

Non sapevamo niente di Annie Proulx, prima che uscissero I segreti di Brokeback Mountain. Grazie alla storia dei due cowboy omosessuali l’editoria italiana si è accorta di lei, e in pochi anni sono state pubblicate tutte le sue raccolte: Distanza ravvicinata (Baldini Castoldi Dalai 2003), Storie del Wyoming (Marco Tropea 2006), e ora Ho sempre amato questo posto (Mondadori 2009), più un paio di romanzi che non ho letto per i miei soliti problemi con la narrativa lunga. I racconti invece li ho letti tutti, e il risultato è strano: alcune storie non mi piacciono per niente, altre le ho amate alla follia. Non credo di essere io il Aproulx problema, o almeno non solo. Il fatto è che Annie Proulx scrive due tipi di racconto completamente diversi: uno che gioca con il grottesco, il paradossale, l’assurdo, e questo forse non è il mio genere; l’altro di un realismo così nero, onesto e disperato da ricordarmi i primi racconti di Richard Ford, e i film di Clint Eastwood. Sarà anche colpa del Wyoming, immagino. Tutti i racconti sono ambientati lì, e che sia l’epoca dei pionieri e delle mandrie di vacche mezze selvatiche e dei canti dei ragazzi attorno al fuoco, o quella dei pozzi petroliferi che chiudono lasciando ai disoccupati la scelta tra un diploma serale in informatica e l’arruolamento per l’Iraq, il paesaggio è sempre un cinemascope di montagne, neve, foreste, brevi estati struggenti, laghi e torrenti d’alta quota, la natura selvaggia che faceva da cornice all’amore tra Jack Twist ed Enis Del Mar, lo spaccone e il timido, il cowboy da rodeo e il mandriano silenzioso.

Anche la carriera di Annie Proulx non è di quelle dritte e lisce come strade asfaltate. La scrittrice ha origini canadesi, ma dice di avere sempre vissuto nel Wyoming. È nata nel 1935 ma ha esordito a più di cinquant’anni, nel 1988, e deve averne accumulata di vita nel frattempo, perché da allora ha scritto cinque libri e vinto tutto quello che poteva, dal Pulitzer al PEN/Faulkner al National Book Award, una carriera fulminea e tardiva come quella di Thom Jones. A vederla nelle foto assomiglia ai suoi racconti: durezza e dolcezza che si mescolano insieme per averne viste molte (e nonostante le cose viste, avere mantenuto una certa fiducia nelle possibilità del genere umano), e poca femminilità, o almeno una femminilità poco esposta, come una donna cresciuta tra gli uomini e abituata ai loro codici di comportamento.

Insomma, prendete Cormac McCarthy e Alice Munro, e la figlia illegittima di questa unione sarà un produttore di storie molto simile ad Annie Proulx. Secondo me il libro migliore è il primo, Distanza ravvicinata. Leggetevi il racconto che ha ispirato il film di Ang Lee, Gente del Wyoming. Oppure cominciate da quest’ultima raccolta e leggete Quelle vecchie canzoni di cowboy, la storia d’amore tra Archie e Rose, ambientata nel 1885. I due si sposano a sedici anni e ottengono un pezzo di terra dal governo per avviare una piccola fattoria: ad Archie piace cantare le vecchie canzoni, Rose adora stare lì ad ascoltarlo. Lui è un gran lavoratore e lei è innamoratissima e pronta a tutto, anche ad aspettarlo da sola, incinta, badando alla casa e alla terra, mentre lui fa la stagione come mandriano per mettere insieme il capitale necessario ad avviare il ranch: sembra l’inizio di un’epopea da pionieri, una di quelle leggende che daranno vita alle grandi dinastie del West, se non fosse che, scrive Annie Proulx nelle prime righe, solo in pochi vissero abbastanza per raccontarlo, mentre “in molti ebbero vita breve e vennero presto dimenticati”, e la storia di Archie e Rose è una di queste. Leggetevi l’ultimo racconto, A gambe all’aria nel fosso. È la vita triste di Dakotah, figlia di una ragazza madre “bella da morire e priva di scrupoli”, che l’ha messa al mondo appena prima di scappare di casa. La bambina è cresciuta con i nonni nel Wyoming più depresso che si sia mai visto, prendendo ordini e botte, e per sfuggire agli ordini e alle botte lei stessa imbocca la scorciatoia sbagliata, abbandona la scuola troppo presto e si sposa con il primo che passa, comincia a fare la cameriera, scopre di aspettare un bambino. Finirà ad arruolarsi nell’esercito per sfuggire a un matrimonio andato a rotoli e alla disoccupazione, e andrà avanti così, sempre più giù, soltanto per imparare, quando le sembra di aver toccato il fondo, che ogni successiva caduta è “solo l’inizio della sua discesa nell’acqua scura e fangosa”.

Ci sono scrittori dalla pelle dura come cuoio di sella, e la cui voce suona roca non tanto per il tabacco fumato e il whisky bevuto, ma per il freddo preso nei lunghi bivacchi all’aperto, durante inverni che non finivano più. Annie Proulx è tra questi.

mercoledì 1 ottobre 2008

ALCOL

Negli ultimi tempi ho letto due libri simili: John Barleycorn di Jack London (fuori catalogo da anni, è stato ripubblicato adesso dalla UTET) e Aspro e dolce di Mauro Corona (Oscar Mondadori). Se qualcuno trovasse il paragone stravagante, può aiutare un confronto tra le due biografie: Jack London ha fatto lo strillone di giornali, il pescatore clandestino d’ostriche, il lavandaio, il cacciatore di foche, il contadino, il marinaio, il cercatore d’oro. Mauro Corona è stato muratore, boscaiolo, cavatore di marmo, bracconiere, alpinista e scultore del legno. Sono entrambi autodidatti. A un certo punto della loro vita, chissà per quale richiamo arcaico o volontà di ribellione, si sono messi a scrivere: e siccome raccontavano storie che conoscevano bene, e siccome le raccontavano con le parole giuste, sono stati molto letti e molto amati. C’è chi li odia entrambi, e posso capire perché. Sono uomini in cui è difficile distinguere lo scrittore e il personaggio. Si sono costruiti addosso corazze molto eroiche. Eppure, se volete sapere qualcosa dell’alcol, leggetevi questi due libri.

Jack London ha cominciato a cinque anni, portando da bere al padre che lavorava nei campi. Mauro Corona a nove, nella cucina del vecchio che abitava dietro casa sua. Un secchio di birra tiepida e una scodella di Raboso - vinaccio duro e denso, che lasciava le labbra viola, come la crosta sul fondo della tazza mai lavata. Da quella prima bevuta e passando per le sbronze giovanili, scendendo e salendo di gradazione, attraverso le risse, gli incidenti, le avventure sessuali, le follie della grappa e del whisky, gli amici morti, le mille mattine dopo, fino al civile, radicato alcolismo della maturità, questi libri sono, né più né meno, le autobiografie di due ubriaconi. Attraversano le stesse paure e le stesse crisi depressive, subiscono il corteggiamento della Signora e scovano sistemi simili per starne lontani: andarsene via da soli, in alta montagna o in alto mare, per giorni e notti. Cercare di fare la pace con quella cosa. Tuffare i piedi nell’acqua di un torrente, o il corpo nell’oceano, come se ci fosse un demone da annegare, una combustione interna da spegnere nell’acqua ghiacciata. L’alcol brucia. Brucia anche il cervello, tra le altre cose. Non risparmia nemmeno i cervelli meravigliosi, che non sopportando tanta meraviglia ne sono irresistibilmente attratti.

Come mi guardi, vecchio, con gli occhi lucidi e le labbra screpolate, la tua febbre da spirito guerriero ubriaco. John Barleycorn (chicco d’orzo) in America è il soprannome dell’alcol - o almeno lo era all’inizio del Novecento. Noi forse lo potremmo chiamare acino d’uva. I miei scrittori preferiti, in una rimpatriata dall’aldilà, prosciugherebbero nel giro di una notte la cantina del Jack Daniel’s, quel posto in Tennessee con i vecchi che tirano i tappi di sughero: Jack London, William Faulkner, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Tennessee Williams, John Steinbeck, Dorothy Parker, Carson McCullers, Truman Capote, John O’Hara, Richard Yates, Jack Kerouac, John Cheever, Charles Bukowski, Raymond Carver. Tutti ubriaconi. L’elenco completo compare in un libro di Tom Dardis mai uscito in Italia, The Thirsty Muse (La Musa Assetata). Per qualche motivo, con poche eccezioni, ne stanno fuori le donne e gli scrittori ebrei. Immagino abbia a che fare con l’istinto di conservazione. Che cos’altro posso dire? Lascio l’ultima parola a Jack London nella traduzione di Luciano Bianciardi, un altro che ne ha vuotate parecchie di bottiglie, e le ha pagate fino all’ultima goccia.

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Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. E mai sono meno amico che quando l’ho vicino e più sembro amico suo. È il re dei bugiardi. È il più onesto degli uomini sinceri. È l’augusto compagno con cui si cammina a braccetto degli dei. È in combutta con la Signora Senza Naso. La sua via porta alla verità nuda, e alla morte. Ti dà vista chiara e sogni torbidi. È nemico della vita, e maestro di saggezza oltre la visione della vita. È un assassino con la mano rossa, e massacra la gioventù.

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Jack London, John Barleycorn

(traduzione di Luciano Bianciardi, UTET Libreria)

lunedì 15 settembre 2008

STOP WRITING

Ho avuto pensieri strani alla notizia della morte di David Foster Wallace. Il primo riguarda il metodo che ha scelto: l’impiccagione è una forma di suicidio molto razionale. Richiede intelligenza. Non è come spararsi un colpo in testa, né inghiottire una manciata di pastiglie, né fare un passo nel vuoto: non è questione di un momento di follia o disperazione. Bisogna trovare la corda (andare nel ripostiglio, frugare tra le scatole). Bisogna capire dove appendere il cappio (non è che tutti i soffitti abbiano una trave sporgente). Bisogna ricordarsi il nodo scorsoio (l’ultima volta l’abbiamo fatto da bambini). Insomma è un gesto che contiene una storia: sarà per questo?

(E quando hai scritto l’ultima riga, messo l’ultimo punto in fondo all’ultima frase, l’avrai saputo che erano gli ultimi? C’erano idee che hai lasciato lì, cose che ormai era troppo tardi per scrivere? E poi, sul tuo sgabello, un attimo prima di calciarlo via, da qualche parte della tua mente sprofondata nelle tenebre sarà comparsa quella lista. Virginia Woolf: acqua. Ernest Hemingway: fucile. Vladimir Majakovskij: pistola. Yukio Mishima: spada. Emilio Salgari: rasoio. Cesare Pavese: sonniferi. Sylvia Plath: gas. Da domani ci sarà un’altra voce nell’elenco. David Foster Wallace: cappio. Da domani tutto quello che hai scritto, i saggi sulla matematica dell’infinito, il romanzo da mille pagine incendiarie, quei tuoi racconti pieni di ragazzini, diventeranno un unico, lunghissimo biglietto d’addio.)

Scrittori suicidi. Sarà colpa della scrittura o eri già segnato prima, e ti sei messo a scrivere soltanto per ritardare quel momento? Io ho pensato che non ne so niente. Chi potrebbe avere questa presunzione, credere di sapere che cosa ti è successo? Poi ho pensato che invece lo so, perfettamente.

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È TUTTO VERDE

Lei dice non m’importa se mi credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente. Quando è la verità si fa in quattro per cercare di farti credere a quello che dice. Perciò sento di non avere dubbi.
Si rasserena e guarda dall’altra parte, lontano, ha l’aria furba con la sigaretta sotto la luce che entra dalla finestra bagnata, e io non so cosa mi sento di dire.
Dico Mayfly, con te non so più cosa fare o cosa dire o cosa credere. Ma ci sono delle cose che so per certe. So che io sto diventando vecchio e tu no. E che ti do tutto quello che ho da darti, con le mani e con il cuore. Tutto quello che ho dentro di me l’ho dato a te. Tengo duro e lavoro sodo ogni giorno. Ho fatto di te l’unica ragione che ho per fare quello che faccio sempre. Ho cercato di costruire una casa per te, una casa di cui facessi parte, e che fosse una bella casa.
Mi rassereno anch’io e getto il fiammifero nel lavandino insieme ad altri fiammiferi, piatti, una spugna e cose del genere.
Dico Mayfly il mio cuore ha fatto il giro del mondo e ritorno per te ma ho quarantotto anni. È ora che la smetto di lasciarmi semplicemente trascinare dalle cose. Devo usare quel po’ di tempo che ancora mi resta per cercare di sistemare tutto e stare bene. Devo provare a stare come ho bisogno di stare. In me ci sono delle esigenze che tu non riesci neanche più a vedere, perché ci sono troppe esigenze tue di mezzo.
Lei non dice nulla e io guardo la sua finestra e sento che lei sa che io so, e seduta sul mio divano fa un movimento. Ripiega le gambe sotto di sé, ha un paio di pantaloncini.
Dico in fondo non mi importa di quello che ho visto o credo di aver visto. Non è più quello il punto. So che io sto diventando vecchio e tu no. Ma ora mi sento come se ci fosse tutto me stesso che va verso di te e in cambio non mi viene più niente.
Ha i capelli tirati su con un fermaglio e delle forcine e si tiene il mento con la mano, è mattina presto, sembra che stia sognando rivolta verso la luce pulita che entra dalla finestra bagnata sopra il mio divano.
È tutto verde, dice. Guarda come è tutto verde Mitch. Come fai a dire di provare certe cose quando fuori è tutto così verde.
La finestra sopra il lavello del mio cucinino è stata ripulita dal violento acquazzone di stanotte e ora è una mattina di sole, è ancora presto, e fuori c’è un casino di verde. Gli alberi sono verdi e quel po’ d’erba che c’è oltre i dossi artificiali è verde e liscia. Ma non è tutto quanto verde. Le altre roulotte non sono verdi e il mio tavolino lì fuori con le pozzanghere allineate e le lattine di birra e le cicche che galleggiano nel portacenere non è verde, né il mio furgone, o la ghiaia della piazzola, o il triciclo che sta rovesciato su un fianco sotto un filo per il bucato senza bucato accanto alla roulotte vicina, dove c’è uno che ha fatto dei bambini.
È tutto verde sta dicendo lei. Lo sta sussurrando e il sussurro non è più rivolto a me, lo so.
Getto la sigaretta e volto le spalle al mattino con il sapore di qualcosa di vero in bocca. Mi volto verso di lei che sta sul divano in piena luce.
Da dov’è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c’è qualcosa in me che non si riesce a chiudere, nel guardarla. Mayfly ha un corpo. È lei la mia mattina. Dite il suo nome.

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David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax)