martedì 5 novembre 2013
BALLANDO A NOTTE FONDA
sabato 12 ottobre 2013
TOO MUCH HAPPINESS
Sono giorni di festa per noi lettori di racconti. Chi l'avrebbe mai detto: il Nobel per la letteratura a una narratrice che, in vita sua, non ha scritto nemmeno un romanzo. Certo che per ottenerlo Alice Munro ha dovuto lavorare parecchio: circa centocinquanta racconti scritti in quarantacinque anni di carriera, al ritmo di tre o quattro all'anno, senza fermarsi mai. Nel più vecchio, "Walker Brothers Cowboy", parlava di suo padre e di se stessa bambina, proprio come negli ultimi usciti l'anno scorso, nel libro che ha dichiarato essere il suo addio alla scrittura. Ma in fondo per tutta la vita ha scritto di fughe e ritorni. E ora mi piace ricordare che quando ha esordito lei, nel 1968, Raymond Carver faceva le pulizie di notte in un ospedale, il più delle volte ubriaco, e Grace Paley manifestava contro la guerra in Vietnam per le strade del Village, e adesso che entrambi sono morti da tempo questo premio è anche per loro due, che della Munro sono stati fratelli. E per le sue maestre del sud, Flannery O'Connor e Carson McCullers, e tutti quelli che hanno scelto di scrivere storie di poche parole. "Spero che questo premio faccia vedere alla gente il racconto come una forma importante d'arte", ha detto la Munro, "non solo qualcosa con cui giocare in attesa di avere per le mani un romanzo". Come gli altri, ha sempre sostenuto di essere stata costretta a scrivere racconti, perché non aveva tempo. Che è una battuta ma suggerisce quale sia il suo rapporto col mondo: c'è troppa vita là fuori per chiudersi in una stanza a meditare, e di quella vita i suoi racconti traboccano come bricchi del latte lasciati sul fuoco. Un critico americano ha detto che, più che nei quattordici libri in cui sono stati raccolti, stavano bene sulle riviste in cui via via uscivano, sulle colonne del New Yorker: tra un reportage da un paese in guerra e un'inchiesta di costume, come se il racconto non fosse solo un brano di prosa ma un altro tipo di informazione sul mondo, un modo di capirlo meglio; e che tra le informazioni respirasse, le nutrisse e ne fosse nutrito. E' proprio così: un buon racconto ci informa su come si sta sulla terra. "L'obiettivo della mia scrittura è sempre stato offrire una rivelazione su cos'è davvero la vita. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così. Perché è la reazione che ho io davanti alla scrittura che amo di più. Una sensazione di meraviglioso sbalordimento. E di gratitudine per aver visto la vita in modo così intenso, attraverso la scrittura". Forse per questo la sua ultima raccolta si intitola "Dear Life", come la lettera d'addio di qualcuno che l'ha amata molto.
Osservata dalla fine, è la coesione del suo lavoro che fa impressione. Si parla a volte di "romanzi di racconti", e anche tra le raccolte della Munro ce n'è qualcuna che potrebbe esser letta così (tanti citano un titolo, "Lives of Girls and Women", che in certe sue bibliografie passa per romanzo; io ci aggiungerei "Chi ti credi di essere?" e "La vista da Castle Rock"), però a me sembra che qui la questione perda di significato. Tutti i racconti di Alice Munro dialogano tra loro. Quelli vecchi aiutano molto nella comprensione di quelli nuovi, quando ritrovi per esempio un padre allevatore, una matrigna efficiente e volgare, una figlia divorziata ed eternamente in crisi, un paese che è sempre lo stesso pur cambiando ogni volta nome, e ti sembra di rincontrare dei vecchi amici nelle loro vecchie case. E' come un unico enorme edificio: centocinquanta racconti connessi in un mosaico, al punto che distinguere tra le tante raccolte un giorno non avrà più importanza, com'è successo con Cechov, con la O'Connor, con tutti i bravi scrittori di racconti. Faulkner aveva fondato la contea di Yoknapatawpha, cuore di un immaginario stato del sud, per avere un luogo in cui ambientare racconti e romanzi, e nel caso di Carver fu un critico a ribattezzare Carver Country quella parte di midwest tutta villette, motel e disperazione; con altrettanta legittimità oggi potremmo prendere una mappa d'America, guardare a nord e trovare il paese di Alice Munro. A me non pare molto importante definirne i confini politici (è Canada, ma se fosse Michigan o Minnesota cambierebbe qualcosa? La lingua, la cultura, il paesaggio, le storie delle persone? Ha senso parlare di letteratura canadese, o non è piuttosto un'unica tradizione nordamericana?). E' un territorio sterminato fatto di laghi e boschi, e campi, fattorie, silos di cereali, ogni tanto un paese e molto più raramente una città, che sono sempre Toronto, all'est, e Vancouver all'ovest. Questo paesaggio nei racconti non è scenografia ma personaggio: vivo, misterioso, generatore di conflitti e movimenti narrativi. La campagna è l'infanzia da cui scappare e molto più tardi il ritorno alle origini, un ritorno che non dà pace ma pone domande, scoperchia segreti, riapre ferite. La città è una liberazione in gran parte fallita, come falliscono i matrimoni e certe lotte personali, lotte per cambiare se stessi prima che il mondo intorno. Detto per scherzo ma poi neanche troppo: il primo marito di Alice Munro faceva il libraio, il secondo invece era un geografo. E di geografia, geologia, botanica sono fitti i suoi racconti, le sue donne tese a osservare il paesaggio che hanno intorno, a interrogarlo, a cercar di capire dove sono e come ci sono arrivate. Ogni volta che ricominci, che leggi la prima riga di una delle sue storie ti ritrovi lì. Preferibilmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, perché Munro Country non è solo un luogo ma un'epoca - anch'essa fatta di rivoluzioni e restaurazioni, fughe e ritorni. Io non sono mai stato da quelle parti e sono nato subito dopo, eppure, come mi succede con pochi grandissimi scrittori, sento che quello è anche il mio mondo, lo conosco così bene che potrei partire adesso e andare ad abitarci.
In questi due giorni ho letto moltissime inesattezze, diverse contraddizioni e qualche bugia bella e buona. Immagino sia normale se uno scrittore vince il Nobel e un giornalista che lo conosce poco deve buttare giù un articolo in fretta e furia. La lingua di Alice Munro è ridotta all'osso oppure elaborata ed elegante? (la seconda) Ha scritto, incredibilmente, centocinquanta racconti della stessa lunghezza oppure uno è di quindici pagine, un altro di settanta? (la seconda) Il narratore è sempre onnisciente, il protagonista sempre una donna, il Canada sempre sorveglia immenso e glaciale? (va be', avete capito) Non importa. A chi l'ha amata da quando ha imparato a leggere starà per forza sulle balle chi ne sa poco e parla troppo, però un paragone è giusto, e infatti prima dei giornalisti l'ha proposto Cynthia Ozick quando ha detto che "Alice Munro è il nostro Cechov" (tra l'altro la Ozick è un'ebrea statunitense, dunque anche per lei non è un problema chiamare "nostra" una scrittrice canadese). Come per Cechov, anche per la Munro un racconto è sempre il tentativo di arrivare a una verità, far luce in una zona buia. Capire un po' meglio com'è fatta la vita. Sbalordirsi di fronte alla sua meraviglia segreta.
Infine, da appassionato sostenitore dell'editoria indipendente, mi pare doveroso ricordare chi ha portato Alice Munro in Italia. La prima fu la casa editrice Serra e Riva: fondata nel 1977, e dedicata ad autori di lingua inglese sconosciuti o dimenticati, pubblicò "Il percorso dell'amore" nel 1989. Ma soprattutto fu La Tartaruga, storico editore femminista milanese, a diffondere la Munro qui da noi negli anni Novanta: "La danza delle ombre felici" (1994), "Stringimi forte, non lasciarmi andare" (1998), "Segreti svelati" (2000). In mezzo ci fu anche un'edizione e/o di "Chi ti credi di essere?" (1995). Poi dal 2001 Einaudi ha intrapreso un percorso di ripubblicazione dell'intera opera, tutta tradotta magnificamente da Susanna Basso, la cui lingua è per noi lettori di Alice Munro un po' come la voce di Ferruccio Amendola per i fan di Robert De Niro. Ne mancano ancora tre - due vecchie raccolte e l'ultima - e speriamo di vederle presto in italiano. Non so se ce ne saranno altre. La Munro aveva detto basta la prima volta nel 2010, poi ci ripensò, riprese a scrivere e da allora ha pubblicato ben due libri. Nel 2012, dopo "Dear Life", ha ribadito con più convinzione che quelle sono le sue ultime storie. Non è che a ottantadue anni si senta stanca: è che, ha detto, non è più disposta alla solitudine necessaria alla scrittura. Ha perso da poco il marito, e ha voglia di passare gli anni che le restano in compagnia delle persone che ama. Come non capirla? Solo chi non le vuole bene potrebbe rammaricarsene. Auguriamole piuttosto buona vita, e grazie per tutte quelle bellissime storie.
martedì 16 luglio 2013
SETTE PADRI AMERICANI
mercoledì 13 giugno 2012
LE CASE DEGLI ALTRI
Come scrittore credo di esserne ossessionato. Solo dopo aver finito i racconti della mia nuova raccolta mi sono accorto che parlano tutti di case. E di case parlano i miei racconti preferiti. Ne rileggo spesso uno di Rigoni Stern, Le mie quattro case, in cui Mario ricostruiva la propria storia attraverso le case abitate. Una memoria legata ai luoghi che tutti possediamo, e che compone una biografia possibile di ognuno di noi, ma il bello del racconto è che una di quelle case era andata distrutta prima che lui nascesse, e un’altra non era mai esistita se non nella sua testa. Era la baita che Mario aveva progettato mentre era prigioniero nel lager, un sogno di casa che gli aveva occupato la mente e salvato la vita. Sarebbe stata appartata, lontana dagli uomini e vicina al bosco, essenziale, calda, adatta a curarsi dalle ferite della guerra e a far pace col mondo.
Mentre il cane e i bambini corrono giù in spiaggia, noi portiamo dentro le nostre cose: ci sembra di vagare attraverso le dense storie di questi estranei. Calato il buio ci prepariamo un drink, mandiamo i bambini a dormire e, dopo aver preso tutte le misure per esorcizzare la presenza dei proprietari e assicurarci il pieno possesso del posto, facciamo l’amore in una stanza estranea che odora del sapone di qualcun altro. Ma nel bel mezzo della notte la porta del terrazzo si apre e sbatte, sebbene sembra che non ci sia vento, e mia moglie, mezzo addormentata, esclama: “Ma perché sono tornati? Perché sono tornati? Che cos’hanno dimenticato?”
venerdì 25 maggio 2012
RAY NE FA 74
Poi venne Raymond Carver, ramo dello stesso albero genealogico: avevo letto una sua poesia su una serata passata con Bukowski. Quella in cui Hank afferma che può bere birra a volontà, ma di non dargli whisky se no diventa cattivo. E poi attacca a parlare della sua nuova ragazza e dice: voi non sapete che cos’è l’amore. In un’intervista Carver disse che Hemingway era il suo maestro, ma Bukowski il suo eroe. Bastava questa dichiarazione per leggermelo tutto. Mi ricordo bene le vecchie edizioni dei libri di Ray, prima che minimum fax lo rilanciasse: i Garzanti gialli, la collana degli Elefanti; l’edizione Serra e Riva di Cattedrale che poi mio padre mi ha regalato; gli introvabili Pironti che a volte scovo nelle librerie dell’usato, me li porto via per pochi soldi e mi sento come quelli che scoprono un Picasso in un mercatino. Questo per dire che anche la memoria di un lettore è una raccolta di storie: che copertina aveva quel libro, dov’ero quando l’ho letto; c’è stato quello che ho rubato ficcandolo nei pantaloni, e ora che ho tanti amici librai me ne vergogno ma non avevo soldi; quello leggendario perché risultava nelle bibliografie, tutti ne avevano sentito parlare ma non si trovava da nessuna parte; e poi quel libro fotografico, Carver Country, in cui miracolosamente personaggi e luoghi diventavano reali, e potevi vedere con i tuoi occhi la segheria di Yakima, la casa di Chef, la clinica per alcolisti in California, la faccia della moglie di Ray rovinata dalle botte, lo spazzacamino e perfino il cieco di Cattedrale. Ora di quel libro possiedo tre versioni: una americana, una francese e una italiana. La mia collezione di Carver comprende pure la prima edizione autografata di Where I’m Calling From. Penso a lui ogni volta che arriva il 25 maggio perché è il suo compleanno: sembra passato un secolo da quando è morto eppure oggi festeggerebbe i 74 anni, non molti in fondo, di certo non troppi per scrivere buoni racconti. L’anno di nascita, 1938, me lo ricordo sempre perché è lo stesso di mia madre. Gli faccio tanti auguri brindando a whisky e latte come in Vitamine, quando è quasi mattina, la festa è finita e tutti sono ormai crollati, e l’uomo invece di andare a dormire si siede al tavolo della cucina, pensa all’amica della moglie e al mezzo bacio che è riuscito a strapparle, e poi si versa un altro bicchiere deciso a tenere duro.
La sua tomba si trova a Port Angeles, in un piccolo cimitero in cima a una scogliera. Poco più in basso si infrangono le onde del Pacifico, oltre lo stretto si vede Vancouver Island. Lì finiscono gli Stati Uniti e comincia il Canada. Sulla lapide c’è una delle ultime poesie di Ray:
sabato 2 luglio 2011
UN CUORE DA BAMBINO
Il 2 luglio di cinquant'anni fa, all'alba, il più grande scrittore americano del Novecento diceva addio al mondo. È una delle poche date che mi ricordo ogni anno. Ho idea che non scriverei come scrivo, anzi forse non scriverei per nulla, se il vecchio ubriacone non fosse passato per questa terra. Grazie di tutto Hem. Non vedo l'ora di bere un bicchiere e incrociare i guantoni con te.
lunedì 11 gennaio 2010
ALICE MUNRO
Parecchie storie della nuova raccolta sono impregnate di violenza. Da dove viene?
Non me ne sono accorta finché il libro non è stato finito. Sapevo che la prima storia era una mazzata, infatti non sono stata capace di rileggerla. È troppo inquietante. Non ho deciso di usare la violenza come tema ricorrente, ma so che c’è, e può succedere di farlo senza rendersene conto.
Per quanto tempo lavori a un singolo racconto?
Su alcuni mi capita di lavorare per un anno, lasciandoli e riprendendoli. Due mesi è il minimo.
Come cominci una storia?
Comincio scrivendo a mano su un quaderno. La scrivo dall’inizio alla fine, ma quella non è la versione definitiva. Poi prendo un altro quaderno e la riscrivo daccapo, e questa volta si avvicina parecchio alla versione definitiva. Poi straccio queste prime due storie e, senza riguardarle, comincio a lavorare al computer. A questo punto ottengo qualcosa di sensato.
È facile per te lavorare al computer?
Sono un disastro con la tecnologia. Se smetto per un po’, mi dimentico come si usa il computer e mio marito deve rispiegarmi tutto di nuovo. E poi sono stata malata, ho avuto un tumore. La terapia lesiona pezzi di cervello, e pare che le ultime cose imparate siano le prime a partire.
Perché sei così legata alla forma del racconto?
Ho provato a scrivere romanzi e non sono arrivata da nessuna parte. Mi interrompevo sempre a metà, perdevo interesse nella storia, mi sembrava che non ci fosse niente di buono e lasciavo perdere. Ora mi sembra di scrivere sempre cose a metà. La gente li chiama racconti brevi, ma spesso non sono brevi e forse non sono nemmeno racconti, nel senso della compattezza. È una combinazione di linee che si diramano dalla storia o si sviluppano dentro la storia. Non so se esiste una parola giusta per definire una forma a metà strada tra il racconto e il romanzo. C’è una cosa chiamata novella, ma non ho mai capito esattamente cosa sia, e se io ne abbia scritta qualcuna oppure no.
In un’intervista alla Paris Review, hai parlato della paura di lasciarti dietro frammenti di storie non finite. Sei ancora preoccupata di questo?
No. Devo dire che ci sono stati dei cambiamenti. Da quando sono stata malata sono soltanto felice di essere qui, non mi preoccupo più delle cose che mi lascerò dietro. E penso che uno sarebbe molto fortunato a lasciarsi dietro qualcosa, per esempio una storia. Come se Cechov avesse scritto solo “La signora col cagnolino”, se fosse l’unica cosa che avesse mai scritto, ne sarebbe valsa comunque la pena, sarebbe valsa la pena di aver vissuto. Non penso più molto alla mia carriera.
Da dove arrivano le tue trame?
Alcune cose sono accadute realmente, ma per la maggior parte si tratta di cose quasi accadute, o che avrebbero potuto accadere. Cose della mia vita intorno a cui giro, per vedere “come sarebbe andata se”. È una specie di investigazione sul modo in cui le persone si comportano, o sul modo in cui alcune persone in particolare si comporteranno. Ma così suona più brutale di quanto sia in realtà. Dovrei essere capace di descrivertelo meglio, perché sono stata seduta qui tutta la mattina a lavorare a una storia appena cominciata.
Molti personaggi in “Too Much Happiness” riflettono sullla vecchiaia. È una questione che ti preoccupa, e invecchiare rende più urgente il tuo lavoro?
Avevo previsto di andare in pensione. Pensavo che a una certa età sarei stata soddisfatta del mio lavoro, e in pensione non fai nient’altro che goderti te stessa. Non hai nessun bisogno particolare e non ti svegli la mattina con il pensiero di infilarti la vestaglia e metterti a scrivere. Invece non mi è capitato. Per niente. È una cosa che mi ha sorpreso, pensavo che smettere fosse possibile e forse per alcuni scrittori lo è davvero, ma a me succedono ancora delle cose e penso sempre “Questa è l’ultima. Dopo questa mi riposo”. Ma finora non è andata così.
Puoi dirci qualcosa del tuo prossimo libro?
Ho un po’ di storie finite. Sono storie di una parte lontana della mia vita. E poi ci sono alcune altre storie che sto scrivendo adesso.
sabato 2 gennaio 2010
HAPPY BIRTHDAY MR. SALINGER
***
Finalmente presi una decisione, la decisione di andarmene. Decisi che non sarei più tornato a casa e che non sarei mai più andato in un’altra scuola. Quello che dovevo fare, pensavo, era andare all’Holland Tunnel e farmi dare un passaggio, e poi farmi dare un altro passaggio, e poi un altro e un altro, e in pochi giorni sarei arrivato nell’ovest, in qualche bel posticino pieno di sole dove nessuno mi conosceva e mi sarei trovato un lavoro. Pensai che potevo trovar lavoro in qualche stazione di rifornimento a mettere benzina e olio nelle macchine. Ma non m’importava che genere di lavoro. Fintanto che loro non mi conoscevano e io non conoscevo loro. Quello che dovevo fare, pensai, era far finta d’essere sordomuto. Così mi sarei risparmiato tutte quelle maledette chiacchiere idiote. Se qualcuno voleva dirmi qualche cosa, doveva scrivermelo su un pezzo di carta e ficcarmelo sotto il naso. Dopo un po’ ne avrebbero avute piene le tasche, e per il resto della vita non avrei più sentito chiacchiere. Tutti avrebbero pensato che ero un povero bastardo d’un sordomuto e mi avrebbero lasciato in pace. Mi avrebbero fatto mettere olio e benzina nelle loro stupide macchine, e in cambio mi avrebbero dato un salario, e con quei soldi io mi sarei costruito una capanna da qualche parte e ci avrei passato il resto della mia vita. Me la sarei costruita vicino ai boschi, ma non proprio nei boschi, perché volevo starmene in pieno sole tutto il tempo. Mi sarei fatto da mangiare io stesso, e in seguito, se volevo sposarmi o qualcosa del genere, avrei incontrato una bella ragazza, sordomuta anche lei, e ci saremmo sposati. Sarebbe venuta a vivere con me nella capanna, e se voleva dirmi qualcosa doveva scriverlo su un maledetto pezzo di carta, come tutti gli altri. Se avessimo avuto dei figli li avremmo nascosti in qualche posto. Potevamo comprargli un sacco di libri, e insegnargli a leggere e scrivere.
J.D. Salinger, Il giovane Holden, 1951
venerdì 13 novembre 2009
POESIA CHE MI GUARDI
tremo
nel vasto inverno.
Si spalancano laghi di stupore
a sera nei tuoi occhi
fra lumi e suoni:
s'aprono lenti fiori di follia
sull'acqua dell'anima, a specchio
della gran cima coronata di nuvole...
Il tuo sangue che sogna le pietre
è nella stanza
un favoloso silenzio.
O velo
tu - della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita -
o nodo
lucente - di tutta una vita
che fu sognata - forse -
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano -
il ramo morto di tutti i giorni che restano,
che servono
per piangere te.
Alla scrittura, che fu ossessione e sollievo:
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.
Ora, la regista Marina Spada ha girato un documentario che, più che raccontare la vita terrena di Antonia Pozzi, cerca di catturarne lo spirito. Si intitola Poesia che mi guardi e per un po’ di tempo, dal 20 novembre in poi, sarà al cinema Mexico di Milano. Marina è una mia amica e maestra e mi sarebbe difficile parlare di questo film senza parlare delle cose che so di lei, e di tutto quello che la lega a una ragazza morta più di settant’anni fa. Ha a che fare con la poesia, con il potere della poesia di aprire varchi temporali nelle forme più imprevedibili: la prima volta che sono andato a casa sua c’erano alcuni versi di Majakovskij appesi allo sportello del frigo, probabilmente con una calamita di Paperino, che dicevano: Qui a Leningrado d’inverno non cesserò d’attenderti/ la guardia non smonterò nonostante i ghiacci/ pendano da ciglia e lacrime. Anche Marina monta la guardia da una vita, nonostante il generale inverno. Ha tratto il titolo del suo film Come l’ombra da una poesia di Anna Achmatova: Come vuole l’ombra staccarsi del corpo/ come vuole la carne separarsi dall’anima/ così adesso io voglio essere dimenticata. Ora si capisce meglio? E poi, il suo legame con Antonia Pozzi ha a che fare con la femminilità, con l’affermazione del proprio essere donna e allo stesso tempo artista, con il fare poesia o cinema invece di fare figli. E poi ha a che fare con Milano: gran parte di questo film è girato in città, ed è girato con il naso per aria. Chi è andato a spasso con Marina sa della sua tendenza a sbattere contro i lampioni, perché non bada a dove mette i piedi. Sotto ci sono le macchine, i negozi, i passanti e tutto quello che ci parla della nostra epoca. Sopra c’è un mondo in cui il tempo scorre molto più lentamente: come in montagna, alzando gli occhi si incontra lo sguardo di chi è vissuto qui prima di noi, perché vedeva le stesse terrazze e finestre, gli stessi balconi e camini, gli stessi tetti e le stesse facciate che vediamo noi. È lassù che Marina ha cercato lo sguardo di Antonia.
lunedì 2 novembre 2009
ADDIO A UNA BEAT
Intanto, bisognerebbe chiedersi che cosa rappresentasse la letteratura americana alla fine degli anni Trenta. Oggi per noi è la cultura dominante, allora era la voce dei nuovi barbari. All’epoca si leggevano i tedeschi, i russi, i francesi. Del Nuovo Mondo non si seppe quasi niente fino all’uscita dell’antologia curata da Vittorini, Americana, del 1942: lì dentro c’erano Hawthorne, Poe, Melville, London, la triade Hemingway-Faulkner-Fitzgerald, e poi Steinbeck, Anderson, Dos Passos, tutti i grandi scrittori emersi dall’altra parte dell’oceano dall’inizio dell’Ottocento. Questa scoperta dell’America avveniva in un ambiente culturale fortemente retorico (avete presente l’idealismo tedesco?), e in un clima politico di controllo e di censura. Erano i tempi dei libri vietati, che bisognava farsi portare da qualche corriere clandestino, e passarseli nelle zone franche delle università. Erano anche i tempi d’oro della nascita dell’Einaudi, in cui tra Torino e le Langhe si stava scrivendo l’epopea editoriale più appassionante del Novecento italiano. Mentre Vittorini curava la sua antologia, Pavese traduceva Moby Dick e un giovane Fenoglio si formava sui poeti inglesi. Di quegli anni la Nanda racconta: Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti.
Che cosa c’era a quei tempi nella letteratura americana che non si trovava qui? Io posso solo provare a immaginarlo, con la prospettiva di settant’anni dopo: la letteratura europea, all’epoca, era irrimediabilmente borghese. Era piena di giovani intellettuali, di innamorati depressi o di combattenti esaltati, ma non si parlava molto di emigranti, marinai, disoccupati, reduci di guerra, contadini travolti dalla Grande Depressione, vagabondi che saltavano sui treni, ubriaconi. Chissà che effetto faceva scoprire quel mondo durante la fase più delirante dell’ottimismo fascista, mentre qui si sbraitava sul progresso, la razza, l’impero. Era, credo, la scoperta della libertà di parola.
Non solo. Gli scrittori americani avevano la strana caratteristica di non essere intellettuali. Avevano fatto loro stessi i contadini, i marinai, i soldati, i cercatori d’oro. Erano scrittori immersi nella realtà, e osservavano il mondo che avevano intorno. Ecco, una cosa che si racconta poco di Fernanda Pivano è la sua passione per questa categoria di persone: i disadattati, i marginali, gli autolesionisti, i tossici, gli aspiranti suicidi, l’umanità alla deriva. Forse è lì che affonda le radici il suo legame con De André. La prima volta lui era andato da lei per suonarle le canzoni di Non al denaro né all’amore né al cielo, il disco tratto dall’Antologia di Spoon River, ma aveva lasciato la chitarra fuori dalla porta, perché si vergognava a entrare in casa sua così, facendo l’artista. Erano due genovesi ricchi, anarchici, irresistibilmente attratti dagli sbandati. Dal letame nascono i fiori: bisognerebbe guardare quell’intervista a Kerouac - con la Nanda tutta composta, affabile come una brava padrona di casa, e Jack stravolto dal whisky annacquato, la faccia gonfia e sudata, le risposte biascicate in una pena infinita - ripensando a quel verso. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.
Credo sia questo che mi manca adesso. Questo amore libertario, del tutto estraneo ai giudizi morali, che la Nanda provava. È sopravvissuta agli scrittori che ha amato perché loro si sono ammazzati a fucilate, o bevendo, o fumando. Adesso tendiamo ad amare quelli sani. Quelli produttivi e lucidi nella loro visione del mondo. Lei preferiva i sofferenti, quelli che stanno male e quasi sempre muoiono prima del tempo.
Ieri ho rivisto A Farewell to Beat, il documentario del 2001di Luca Facchini. Verso la fine, in una strada piena di sole del Greenwich Village, il regista chiede alla Nanda che cosa vuole fare nella vita, e lei risponde: La puttana! Vi prego, fatemi fare la puttana! Ride come faceva lei, con tutto il corpo, con gli occhi che brillano e quel tintinnare di anelli e collane, e poi torna seria e dice: No, vorrei avere scritto tre righe che la gente si ricorda. Invece non le ho scritte, e forse non le scriverò mai.
martedì 15 settembre 2009
MAESTRE RITROVATE
Ora, perché ho raccontato questa storia? Perché c’è un nome che mi perseguita da più di dieci anni, cioè dai tempi in cui lessi Ballo di famiglia di David Leavitt. Nell’introduzione a quel libro, Fernanda Pivano faceva parecchi nomi. Era il testo con cui nel 1987 presentava il minimalismo letterario al pubblico italiano, citando ampiamente un saggio-manifesto di un paio d'anni prima, New Voices and Old Values, in cui lo stesso Leavitt definiva le caratteristiche del nuovo movimento. Dunque la Nanda ne individuava il padre e la madre in Raymond Carver e Grace Paley, e gli esponenti più notevoli (“autori ormai quasi tutti popolari anche in Italia, o che lo diventeranno presto”) in Marian Thurm, Peter Cameron, Meg Wolitzer, Bobbie Ann Mason, Ann Beattie, Amy Hempel, Elizabeth Tallent. Nomi di scrittori americani, acqua per mia gola arsa. Io all’epoca non ne conoscevo neanche uno. La mia biblioteca di quartiere ne era sprovvista, ma non era colpa sua: era l’editoria italiana che li aveva persi per strada. Solo in anni più recenti è cominciato un lavoro di recupero dei maestri dimenticati, e pazienza se scrivevano racconti brevi: e così anche noi abbiamo letto le storie di Eudora Welty e Kathrine Mansfield, e di John Cheever, Donald Barthelme, Mary Robinson, Richard Yates. Ora è la volta di Amy Hempel. Ecco il nome che mi perseguitava. I suoi unici testi tradotti in italiano erano fuori dalla circolazione da quasi vent’anni. In America è considerata una maestra e più di una volta, a New York, ho preso in mano uno dei suoi libri, l’ho sfogliato e alla fine l’ho rimesso nello scaffale. Non era diffidenza né altro. Semplicemente, il suo inglese era troppo difficile per il mio. Per fortuna adesso ci ha pensato Mondadori, pubblicando in un solo libro le quattro raccolte di racconti che Amy ha scritto: Ragioni per vivere (1985), Alle porte del regno animale (1990), Rientrata (1997), Il cane del matrimonio (2005). Io ci vado giù pesante con gli editori, specialmente con quelli industriali, ma questa volta mi inchino di fronte a un’operazione che non porterà nessun ritorno economico: dico grazie a chiunque, in Mondadori, abbia avuto l’idea di pubblicare questo libro. I racconti di Amy Hempel sono difficili. Spesso sono lunghi solo due o tre pagine. Per gli appassionati della questione Carver-Lish, riporto la frase che chiude la raccolta: Con uno speciale ringraziamento a Gordon Lish, editor del mio primo e secondo libro, per la conversazione durata trent’anni. Dunque pare che lo spietato aguzzino abbia fatto anche del bene. Non so se con Amy Hempel abbia usato la sua leggendaria mannaia, ma di certo queste storie sono oscure, ermetiche, ellittiche, lavorate in modo maniacale. In questo senso mi ricordano quelle di Lydia Davis. Parlano di persone normali in situazioni normali, anche se nel mondo di Amy Hempel la normalità delle persone è più vicina all’ossessione, alla nevrosi, alla malattia mentale che a una pacifica, monotona lucidità. Alcuni racconti mi hanno spiazzato, a volte anche disturbato, però senza commuovermi. Altri li ho letti più volte perché mi hanno colpito al cuore: credo che tutti siano da rileggere e meditare, senza fretta di passare al successivo, prestando attenzione alle parole. Se siete persone più pazienti di me, uno al giorno potrebbe andar bene. In fondo Amy Hempel ci ha messo vent’anni per scriverne 48. Copio qui un pezzo del quarantaquattresimo, a me è piaciuto molto, poi fate voi.
***
COS’ERANO LE COSE BIANCHE?
Queste stoviglie sono una compagnia di repertorio, recitano una parte in ogni sogno. No, non cominciò così. Disse che le stoviglie recitavano una parte in ogni quadro. L’artista proiettava diapositive delle nature morte che aveva dipinto nell’arco di più di trent’anni. Qualcuno fra il pubblico ristretto e attento chiese: “Quella tazza non era in un quadro di qualche anno fa?”. Sì, infatti, disse l’artista, e anche la caraffa, la terrina e il calice. Chi era la donna nuda appoggiata al tavolo sul quale erano disposte le stoviglie? L’artista non lo disse, e nessuno fra il pubblico ristretto e attento lo chiese.
A me bastava guardare gli oggetti su cui per tanti anni si era concentrata l’attenzione di un uomo di talento. Ero capitata alla conferenza mentre ero diretta altrove, a un appuntamento con uno specialista fissato dalla mia dottoressa. Due giorni prima mi aveva fornito il suo nome e l’indirizzo, e devo ammettere che avevo smesso di ascoltarla, anche se - o proprio perché - era importante. Così, anziché andare nello studio del radiologo, ero entrata nella chiesa sconsacrata dove si teneva la presentazione dell’artista, annunciata fuori con il titolo: “Trovare il mistero nella chiarezza”. Non era forse il contrario di quel che cercava la maggior parte delle persone?
Le stoviglie erano bianche, non smaltate, ed erano dipinte in modo realistico. I vari pezzi proiettavano ombre di lunghezza diversa in ogni dipinto, a seconda del taglio della luce. A volte erano allineati in modo da toccarsi, e a volte rimanevano spazi vuoti tra uno e l’altro. Quegli spazi vuoti erano parte del mistero che l’artista aveva in mente? Voleva che li prendessimo alla lettera, che pensassimo: assenza? Disse che la mente vuole comprendere il significato delle cose, vuole sapere quello che rappresentano. D’accordo, disse l’artista, ecco cosa ho dipinto quel settembre. Sullo schermo apparve un tavolo ben noto - perché da anni figurava nelle sue nature morte - mentre le due stoviglie più alte, la caraffa e il vaso, erano sparite; al loro posto non c’era niente.
Ahhh, fece il pubblico ristretto e attento.
Poi qualcuno chiese all’artista: “Cos’erano le cose bianche?”. Voleva dire le cose bianche negli altri quadri. Che cosa rappresentavano? E l’artista disse che non intendeva rispondere a quella domanda.
Amy Hempel, Ragioni per vivere
(Traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori 2009)
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La seconda maestra ritrovata è Ann Beattie, di cui minimum fax pubblica il romanzo d’esordio, “Gelide scene d’inverno”, del 1976. La sua assenza dalle librerie italiane è ancora più inspegabile di quella di Amy Hempel, perché la carriera di Ann Beattie non ha nulla di ermetico e oscuro: in 33 anni ha pubblicato sette romanzi e otto raccolte di racconti. Per i racconti, in particolare, è stata più volte accostata a gente come Cheever e Salinger. Era una buona amica di Carver: io l’ho sentita descrivere il loro rapporto nell’unico documentario biografico che esista su di lui, “To write and keep kind”, del 1992 (un brutto film, ma un documento prezioso). Così incrocio le dita e spero che i miei amici di minimum fax abbiano in cantiere anche i suoi racconti, in particolare il best of che in America è uscito una decina d’anni fa con il titolo di “Park City”.
A proposito di titoli: quello originale del romanzo, “Chilly Scenes of Winter”, anticipa il film che pochi anni dopo avrebbe segnato un’epoca: “The Big Chill” (Il grande freddo). Anche in questa storia i personaggi fanno i conti con la fine delle illusioni. Ann Beattie è del ’47, perciò ha vissuto in piena adolescenza la febbre degli anni Sessanta: e infatti la colonna sonora del libro corre parallela a quella del film. Ma nel 1976 Brian, Janis, Jimi e Jim sono già morti da un pezzo, e il protagonista Charles si trova a fare i conti con un padre che non c’è più, una madre che è uscita di testa e ogni tanto prova ad ammazzarsi, un patrigno che potrebbe essere eletto come Americano Medio dell’Anno e un grande amore, Laura, donna sposata che prima va a vivere con Charles, poi torna dal marito (un ex giocatore di football soprannominato “il Bue”), poi lascia marito e figlia e prova a stare da sola, in cerca di se stessa. La storia è più o meno tutta qui. Ma più che la trama, credo che l’importanza di questo libro sia nel ritratto di una generazione: quella dei trentenni colti e benestanti che da ragazzi vissero la rivoluzione culturale e da adulti furono travolti dal riflusso, e nel frattempo avevano perso ogni riferimento riguardo alla famiglia e alla coppia. Janis Joplin canta molto spesso in Gelide scene d’inverno, ma è un passato che sembra già remoto. Il futuro prossimo, annunciato come una cappa di umidità all’orizzonte, è Reagan, lo yuppismo, il vuoto pneumatico degli anni Ottanta. C’è una domanda ricorrente che Laura fa a Charles, il quale è un innamorato all’antica, del tipo ossessivo-persecutorio: perché ti piaccio così tanto? Che cosa trovi di così irresistibile in me? Che cosa ho in fondo di speciale? Forse, Laura, è solo che sei diversa da tutto quello che c’è fuori. A me sembra che succeda così. Forse amare Laura è un modo per conservare quello che è stato, e che è perduto per sempre.
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Per un po’, quando le cose fra loro andavano a gonfie vele, parlando con Laura a Charles era capitato di dimenticarsi che non avevano passato insieme tutta la vita. Le nominava i suoi compagni delle medie e dava per scontato che li conoscesse anche lei, le raccontava di come aveva mentito per non entrare nell’esercito e si dimenticava che non le aveva mai detto una parola sull’esercito. Laura non gli raccontava mai molto del suo passato. La madre era morta quando lei andava alle superiori. Charles non ha idea di che fine abbia fatto il padre, se sia vivo o morto. E non si ricorda dov’è andata alle superiori. In Virginia, ma quale parte della Virginia? Durante le superiori ha lavorato come cameriera. Ma gli ha mai raccontato com’era, fare la cameriera? Gli ha mai raccontato un aneddoto buffo? Gli pare di no. Laura ha un fratello che gestisce un rifugio per cacciatori. Non lo vede da anni. Una volta per Natale le ha mandato una testa di cervo. E poi che altro, che altro sa di Laura?
I capelli di Laura sono sempre elettrici. Lei cosparge la spazzola di lacca spray, sperando di risolvere così il problema. Il suo Beatle preferito è George Harrison. Non ha mai dovuto portare l’apparecchio per i denti. Le piacciono i saponi costosi, dal profumo delicato. Ha i capelli lunghi e mossi. Quando si è comprata la prima macchina era esaltatissima, anche se era una macchina vecchia. All’università prendeva voti discreti. La prima volta che ha bevuto è stata a diciott’anni, un rum collins. Adesso beve scotch. Le fanno pena le giraffe. Non le importa cosa ci mettono sulla pizza, purché non siano alici. Però le piace la Caesar Salad, ed è rimasta sorpresa quando ha scoperto che dentro c’erano anche le alici tritate. Le piace Jules e Jim. Ha pensato di fare la regista. Una volta ha visto Otto Preminger per strada. Certo che è sicura che era lui. Cuoceva striscioline di carne, mandorle e verdure nel wok, coltivava violette che avevano gli stessi colori dei suoi saponi a tinte pastello, si faceva la doccia con l’acqua troppo calda per lui. Una volta gli ha chiesto perché si festeggiava il Primo Maggio. Non si ricorda bene i nomi e le date e non si sente troppo in colpa per questo. Ha i piedi lunghi. I piedi lunghi e magri. I macellai sono gentili con lei, i benzinai le puliscono il parabrezza.
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Ann Beattie, Gelide scene d’inverno
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax 2009)
domenica 8 marzo 2009
ANNIE SCRIVE COME UN MASCHIO
Anche la carriera di Annie Proulx non è di quelle dritte e lisce come strade asfaltate. La scrittrice ha origini canadesi, ma dice di avere sempre vissuto nel Wyoming. È nata nel 1935 ma ha esordito a più di cinquant’anni, nel 1988, e deve averne accumulata di vita nel frattempo, perché da allora ha scritto cinque libri e vinto tutto quello che poteva, dal Pulitzer al PEN/Faulkner al National Book Award, una carriera fulminea e tardiva come quella di Thom Jones. A vederla nelle foto assomiglia ai suoi racconti: durezza e dolcezza che si mescolano insieme per averne viste molte (e nonostante le cose viste, avere mantenuto una certa fiducia nelle possibilità del genere umano), e poca femminilità, o almeno una femminilità poco esposta, come una donna cresciuta tra gli uomini e abituata ai loro codici di comportamento.
Insomma, prendete Cormac McCarthy e Alice Munro, e la figlia illegittima di questa unione sarà un produttore di storie molto simile ad Annie Proulx. Secondo me il libro migliore è il primo, Distanza ravvicinata. Leggetevi il racconto che ha ispirato il film di Ang Lee, Gente del Wyoming. Oppure cominciate da quest’ultima raccolta e leggete Quelle vecchie canzoni di cowboy, la storia d’amore tra Archie e Rose, ambientata nel 1885. I due si sposano a sedici anni e ottengono un pezzo di terra dal governo per avviare una piccola fattoria: ad Archie piace cantare le vecchie canzoni, Rose adora stare lì ad ascoltarlo. Lui è un gran lavoratore e lei è innamoratissima e pronta a tutto, anche ad aspettarlo da sola, incinta, badando alla casa e alla terra, mentre lui fa la stagione come mandriano per mettere insieme il capitale necessario ad avviare il ranch: sembra l’inizio di un’epopea da pionieri, una di quelle leggende che daranno vita alle grandi dinastie del West, se non fosse che, scrive Annie Proulx nelle prime righe, solo in pochi vissero abbastanza per raccontarlo, mentre “in molti ebbero vita breve e vennero presto dimenticati”, e la storia di Archie e Rose è una di queste. Leggetevi l’ultimo racconto, A gambe all’aria nel fosso. È la vita triste di Dakotah, figlia di una ragazza madre “bella da morire e priva di scrupoli”, che l’ha messa al mondo appena prima di scappare di casa. La bambina è cresciuta con i nonni nel Wyoming più depresso che si sia mai visto, prendendo ordini e botte, e per sfuggire agli ordini e alle botte lei stessa imbocca la scorciatoia sbagliata, abbandona la scuola troppo presto e si sposa con il primo che passa, comincia a fare la cameriera, scopre di aspettare un bambino. Finirà ad arruolarsi nell’esercito per sfuggire a un matrimonio andato a rotoli e alla disoccupazione, e andrà avanti così, sempre più giù, soltanto per imparare, quando le sembra di aver toccato il fondo, che ogni successiva caduta è “solo l’inizio della sua discesa nell’acqua scura e fangosa”.
Ci sono scrittori dalla pelle dura come cuoio di sella, e la cui voce suona roca non tanto per il tabacco fumato e il whisky bevuto, ma per il freddo preso nei lunghi bivacchi all’aperto, durante inverni che non finivano più. Annie Proulx è tra questi.
mercoledì 1 ottobre 2008
ALCOL
Jack London ha cominciato a cinque anni, portando da bere al padre che lavorava nei campi. Mauro Corona a nove, nella cucina del vecchio che abitava dietro casa sua. Un secchio di birra tiepida e una scodella di Raboso - vinaccio duro e denso, che lasciava le labbra viola, come la crosta sul fondo della tazza mai lavata. Da quella prima bevuta e passando per le sbronze giovanili, scendendo e salendo di gradazione, attraverso le risse, gli incidenti, le avventure sessuali, le follie della grappa e del whisky, gli amici morti, le mille mattine dopo, fino al civile, radicato alcolismo della maturità, questi libri sono, né più né meno, le autobiografie di due ubriaconi. Attraversano le stesse paure e le stesse crisi depressive, subiscono il corteggiamento della Signora e scovano sistemi simili per starne lontani: andarsene via da soli, in alta montagna o in alto mare, per giorni e notti. Cercare di fare la pace con quella cosa. Tuffare i piedi nell’acqua di un torrente, o il corpo nell’oceano, come se ci fosse un demone da annegare, una combustione interna da spegnere nell’acqua ghiacciata. L’alcol brucia. Brucia anche il cervello, tra le altre cose. Non risparmia nemmeno i cervelli meravigliosi, che non sopportando tanta meraviglia ne sono irresistibilmente attratti.
Come mi guardi, vecchio, con gli occhi lucidi e le labbra screpolate, la tua febbre da spirito guerriero ubriaco. John Barleycorn (chicco d’orzo) in America è il soprannome dell’alcol - o almeno lo era all’inizio del Novecento. Noi forse lo potremmo chiamare acino d’uva. I miei scrittori preferiti, in una rimpatriata dall’aldilà, prosciugherebbero nel giro di una notte la cantina del Jack Daniel’s, quel posto in Tennessee con i vecchi che tirano i tappi di sughero: Jack London, William Faulkner, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Tennessee Williams, John Steinbeck, Dorothy Parker, Carson McCullers, Truman Capote, John O’Hara, Richard Yates, Jack Kerouac, John Cheever, Charles Bukowski, Raymond Carver. Tutti ubriaconi. L’elenco completo compare in un libro di Tom Dardis mai uscito in Italia, The Thirsty Muse (La Musa Assetata). Per qualche motivo, con poche eccezioni, ne stanno fuori le donne e gli scrittori ebrei. Immagino abbia a che fare con l’istinto di conservazione. Che cos’altro posso dire? Lascio l’ultima parola a Jack London nella traduzione di Luciano Bianciardi, un altro che ne ha vuotate parecchie di bottiglie, e le ha pagate fino all’ultima goccia.
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Sono amico. Ero amico. Non sono più amico. Non lo sono mai stato. E mai sono meno amico che quando l’ho vicino e più sembro amico suo. È il re dei bugiardi. È il più onesto degli uomini sinceri. È l’augusto compagno con cui si cammina a braccetto degli dei. È in combutta con la Signora Senza Naso. La sua via porta alla verità nuda, e alla morte. Ti dà vista chiara e sogni torbidi. È nemico della vita, e maestro di saggezza oltre la visione della vita. È un assassino con la mano rossa, e massacra la gioventù.
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Jack London, John Barleycorn
(traduzione di Luciano Bianciardi, UTET Libreria)
lunedì 15 settembre 2008
STOP WRITING
(E quando hai scritto l’ultima riga, messo l’ultimo punto in fondo all’ultima frase, l’avrai saputo che erano gli ultimi? C’erano idee che hai lasciato lì, cose che ormai era troppo tardi per scrivere? E poi, sul tuo sgabello, un attimo prima di calciarlo via, da qualche parte della tua mente sprofondata nelle tenebre sarà comparsa quella lista. Virginia Woolf: acqua. Ernest Hemingway: fucile. Vladimir Majakovskij: pistola. Yukio Mishima: spada. Emilio Salgari: rasoio. Cesare Pavese: sonniferi. Sylvia Plath: gas. Da domani ci sarà un’altra voce nell’elenco. David Foster Wallace: cappio. Da domani tutto quello che hai scritto, i saggi sulla matematica dell’infinito, il romanzo da mille pagine incendiarie, quei tuoi racconti pieni di ragazzini, diventeranno un unico, lunghissimo biglietto d’addio.)
Scrittori suicidi. Sarà colpa della scrittura o eri già segnato prima, e ti sei messo a scrivere soltanto per ritardare quel momento? Io ho pensato che non ne so niente. Chi potrebbe avere questa presunzione, credere di sapere che cosa ti è successo? Poi ho pensato che invece lo so, perfettamente.
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È TUTTO VERDE
Lei dice non m’importa se mi credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente. Quando è la verità si fa in quattro per cercare di farti credere a quello che dice. Perciò sento di non avere dubbi.
Si rasserena e guarda dall’altra parte, lontano, ha l’aria furba con la sigaretta sotto la luce che entra dalla finestra bagnata, e io non so cosa mi sento di dire.
Dico Mayfly, con te non so più cosa fare o cosa dire o cosa credere. Ma ci sono delle cose che so per certe. So che io sto diventando vecchio e tu no. E che ti do tutto quello che ho da darti, con le mani e con il cuore. Tutto quello che ho dentro di me l’ho dato a te. Tengo duro e lavoro sodo ogni giorno. Ho fatto di te l’unica ragione che ho per fare quello che faccio sempre. Ho cercato di costruire una casa per te, una casa di cui facessi parte, e che fosse una bella casa.
Mi rassereno anch’io e getto il fiammifero nel lavandino insieme ad altri fiammiferi, piatti, una spugna e cose del genere.
Dico Mayfly il mio cuore ha fatto il giro del mondo e ritorno per te ma ho quarantotto anni. È ora che la smetto di lasciarmi semplicemente trascinare dalle cose. Devo usare quel po’ di tempo che ancora mi resta per cercare di sistemare tutto e stare bene. Devo provare a stare come ho bisogno di stare. In me ci sono delle esigenze che tu non riesci neanche più a vedere, perché ci sono troppe esigenze tue di mezzo.
Lei non dice nulla e io guardo la sua finestra e sento che lei sa che io so, e seduta sul mio divano fa un movimento. Ripiega le gambe sotto di sé, ha un paio di pantaloncini.
Dico in fondo non mi importa di quello che ho visto o credo di aver visto. Non è più quello il punto. So che io sto diventando vecchio e tu no. Ma ora mi sento come se ci fosse tutto me stesso che va verso di te e in cambio non mi viene più niente.
Ha i capelli tirati su con un fermaglio e delle forcine e si tiene il mento con la mano, è mattina presto, sembra che stia sognando rivolta verso la luce pulita che entra dalla finestra bagnata sopra il mio divano.
È tutto verde, dice. Guarda come è tutto verde Mitch. Come fai a dire di provare certe cose quando fuori è tutto così verde.
La finestra sopra il lavello del mio cucinino è stata ripulita dal violento acquazzone di stanotte e ora è una mattina di sole, è ancora presto, e fuori c’è un casino di verde. Gli alberi sono verdi e quel po’ d’erba che c’è oltre i dossi artificiali è verde e liscia. Ma non è tutto quanto verde. Le altre roulotte non sono verdi e il mio tavolino lì fuori con le pozzanghere allineate e le lattine di birra e le cicche che galleggiano nel portacenere non è verde, né il mio furgone, o la ghiaia della piazzola, o il triciclo che sta rovesciato su un fianco sotto un filo per il bucato senza bucato accanto alla roulotte vicina, dove c’è uno che ha fatto dei bambini.
È tutto verde sta dicendo lei. Lo sta sussurrando e il sussurro non è più rivolto a me, lo so.
Getto la sigaretta e volto le spalle al mattino con il sapore di qualcosa di vero in bocca. Mi volto verso di lei che sta sul divano in piena luce.
Da dov’è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c’è qualcosa in me che non si riesce a chiudere, nel guardarla. Mayfly ha un corpo. È lei la mia mattina. Dite il suo nome.
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David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax)