Sono giorni di festa per noi lettori di racconti. Chi l'avrebbe mai detto: il Nobel per la letteratura a una narratrice che, in vita sua, non ha scritto nemmeno un romanzo. Certo che per ottenerlo Alice Munro ha dovuto lavorare parecchio: circa centocinquanta racconti scritti in quarantacinque anni di carriera, al ritmo di tre o quattro all'anno, senza fermarsi mai. Nel più vecchio, "Walker Brothers Cowboy", parlava di suo padre e di se stessa bambina, proprio come negli ultimi usciti l'anno scorso, nel libro che ha dichiarato essere il suo addio alla scrittura. Ma in fondo per tutta la vita ha scritto di fughe e ritorni. E ora mi piace ricordare che quando ha esordito lei, nel 1968, Raymond Carver faceva le pulizie di notte in un ospedale, il più delle volte ubriaco, e Grace Paley manifestava contro la guerra in Vietnam per le strade del Village, e adesso che entrambi sono morti da tempo questo premio è anche per loro due, che della Munro sono stati fratelli. E per le sue maestre del sud, Flannery O'Connor e Carson McCullers, e tutti quelli che hanno scelto di scrivere storie di poche parole. "Spero che questo premio faccia vedere alla gente il racconto come una forma importante d'arte", ha detto la Munro, "non solo qualcosa con cui giocare in attesa di avere per le mani un romanzo". Come gli altri, ha sempre sostenuto di essere stata costretta a scrivere racconti, perché non aveva tempo. Che è una battuta ma suggerisce quale sia il suo rapporto col mondo: c'è troppa vita là fuori per chiudersi in una stanza a meditare, e di quella vita i suoi racconti traboccano come bricchi del latte lasciati sul fuoco. Un critico americano ha detto che, più che nei quattordici libri in cui sono stati raccolti, stavano bene sulle riviste in cui via via uscivano, sulle colonne del New Yorker: tra un reportage da un paese in guerra e un'inchiesta di costume, come se il racconto non fosse solo un brano di prosa ma un altro tipo di informazione sul mondo, un modo di capirlo meglio; e che tra le informazioni respirasse, le nutrisse e ne fosse nutrito. E' proprio così: un buon racconto ci informa su come si sta sulla terra. "L'obiettivo della mia scrittura è sempre stato offrire una rivelazione su cos'è davvero la vita. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così. Perché è la reazione che ho io davanti alla scrittura che amo di più. Una sensazione di meraviglioso sbalordimento. E di gratitudine per aver visto la vita in modo così intenso, attraverso la scrittura". Forse per questo la sua ultima raccolta si intitola "Dear Life", come la lettera d'addio di qualcuno che l'ha amata molto.
Osservata dalla fine, è la coesione del suo lavoro che fa impressione. Si parla a volte di "romanzi di racconti", e anche tra le raccolte della Munro ce n'è qualcuna che potrebbe esser letta così (tanti citano un titolo, "Lives of Girls and Women", che in certe sue bibliografie passa per romanzo; io ci aggiungerei "Chi ti credi di essere?" e "La vista da Castle Rock"), però a me sembra che qui la questione perda di significato. Tutti i racconti di Alice Munro dialogano tra loro. Quelli vecchi aiutano molto nella comprensione di quelli nuovi, quando ritrovi per esempio un padre allevatore, una matrigna efficiente e volgare, una figlia divorziata ed eternamente in crisi, un paese che è sempre lo stesso pur cambiando ogni volta nome, e ti sembra di rincontrare dei vecchi amici nelle loro vecchie case. E' come un unico enorme edificio: centocinquanta racconti connessi in un mosaico, al punto che distinguere tra le tante raccolte un giorno non avrà più importanza, com'è successo con Cechov, con la O'Connor, con tutti i bravi scrittori di racconti. Faulkner aveva fondato la contea di Yoknapatawpha, cuore di un immaginario stato del sud, per avere un luogo in cui ambientare racconti e romanzi, e nel caso di Carver fu un critico a ribattezzare Carver Country quella parte di midwest tutta villette, motel e disperazione; con altrettanta legittimità oggi potremmo prendere una mappa d'America, guardare a nord e trovare il paese di Alice Munro. A me non pare molto importante definirne i confini politici (è Canada, ma se fosse Michigan o Minnesota cambierebbe qualcosa? La lingua, la cultura, il paesaggio, le storie delle persone? Ha senso parlare di letteratura canadese, o non è piuttosto un'unica tradizione nordamericana?). E' un territorio sterminato fatto di laghi e boschi, e campi, fattorie, silos di cereali, ogni tanto un paese e molto più raramente una città, che sono sempre Toronto, all'est, e Vancouver all'ovest. Questo paesaggio nei racconti non è scenografia ma personaggio: vivo, misterioso, generatore di conflitti e movimenti narrativi. La campagna è l'infanzia da cui scappare e molto più tardi il ritorno alle origini, un ritorno che non dà pace ma pone domande, scoperchia segreti, riapre ferite. La città è una liberazione in gran parte fallita, come falliscono i matrimoni e certe lotte personali, lotte per cambiare se stessi prima che il mondo intorno. Detto per scherzo ma poi neanche troppo: il primo marito di Alice Munro faceva il libraio, il secondo invece era un geografo. E di geografia, geologia, botanica sono fitti i suoi racconti, le sue donne tese a osservare il paesaggio che hanno intorno, a interrogarlo, a cercar di capire dove sono e come ci sono arrivate. Ogni volta che ricominci, che leggi la prima riga di una delle sue storie ti ritrovi lì. Preferibilmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, perché Munro Country non è solo un luogo ma un'epoca - anch'essa fatta di rivoluzioni e restaurazioni, fughe e ritorni. Io non sono mai stato da quelle parti e sono nato subito dopo, eppure, come mi succede con pochi grandissimi scrittori, sento che quello è anche il mio mondo, lo conosco così bene che potrei partire adesso e andare ad abitarci.
In questi due giorni ho letto moltissime inesattezze, diverse contraddizioni e qualche bugia bella e buona. Immagino sia normale se uno scrittore vince il Nobel e un giornalista che lo conosce poco deve buttare giù un articolo in fretta e furia. La lingua di Alice Munro è ridotta all'osso oppure elaborata ed elegante? (la seconda) Ha scritto, incredibilmente, centocinquanta racconti della stessa lunghezza oppure uno è di quindici pagine, un altro di settanta? (la seconda) Il narratore è sempre onnisciente, il protagonista sempre una donna, il Canada sempre sorveglia immenso e glaciale? (va be', avete capito) Non importa. A chi l'ha amata da quando ha imparato a leggere starà per forza sulle balle chi ne sa poco e parla troppo, però un paragone è giusto, e infatti prima dei giornalisti l'ha proposto Cynthia Ozick quando ha detto che "Alice Munro è il nostro Cechov" (tra l'altro la Ozick è un'ebrea statunitense, dunque anche per lei non è un problema chiamare "nostra" una scrittrice canadese). Come per Cechov, anche per la Munro un racconto è sempre il tentativo di arrivare a una verità, far luce in una zona buia. Capire un po' meglio com'è fatta la vita. Sbalordirsi di fronte alla sua meraviglia segreta.
Infine, da appassionato sostenitore dell'editoria indipendente, mi pare doveroso ricordare chi ha portato Alice Munro in Italia. La prima fu la casa editrice Serra e Riva: fondata nel 1977, e dedicata ad autori di lingua inglese sconosciuti o dimenticati, pubblicò "Il percorso dell'amore" nel 1989. Ma soprattutto fu La Tartaruga, storico editore femminista milanese, a diffondere la Munro qui da noi negli anni Novanta: "La danza delle ombre felici" (1994), "Stringimi forte, non lasciarmi andare" (1998), "Segreti svelati" (2000). In mezzo ci fu anche un'edizione e/o di "Chi ti credi di essere?" (1995). Poi dal 2001 Einaudi ha intrapreso un percorso di ripubblicazione dell'intera opera, tutta tradotta magnificamente da Susanna Basso, la cui lingua è per noi lettori di Alice Munro un po' come la voce di Ferruccio Amendola per i fan di Robert De Niro. Ne mancano ancora tre - due vecchie raccolte e l'ultima - e speriamo di vederle presto in italiano. Non so se ce ne saranno altre. La Munro aveva detto basta la prima volta nel 2010, poi ci ripensò, riprese a scrivere e da allora ha pubblicato ben due libri. Nel 2012, dopo "Dear Life", ha ribadito con più convinzione che quelle sono le sue ultime storie. Non è che a ottantadue anni si senta stanca: è che, ha detto, non è più disposta alla solitudine necessaria alla scrittura. Ha perso da poco il marito, e ha voglia di passare gli anni che le restano in compagnia delle persone che ama. Come non capirla? Solo chi non le vuole bene potrebbe rammaricarsene. Auguriamole piuttosto buona vita, e grazie per tutte quelle bellissime storie.
Il 22 ottobre Einaudi pubblicherà la sua prima raccolta, La danza delle ombre felici...
RispondiEliminaGrazie, Paolo. Aspettavo il tuo post per fare ordine e luce su quanto si legge in questi giorni ma anche su quanto provo io. Sono contenta di avere ancora alcune raccolte da leggere.
RispondiEliminami unisco al gaudio. Sarebbe davvero bello se anche da noi il racconto non venisse più vissuto come il figlio della serva ;-)
RispondiEliminaAppena ho sentito della notizia del Nobel ho pensato subito cosa stessero pensando Paolo Cognetti e Antonio Pascale, di questa bella notizia.
RispondiEliminaGrazie Paolo, anche di aver definito fratelli della Munro, Carver e Paley (meravigliosa scoperta); Tra tante cose banali sentite c'erano troppi paragoni ingrati con Carver, rivincite contro Roth, etc. Sempre questa logica di schiacciare gli altri mentre si è forti. Il tuo pezzo invece appare equlibrato e rende giustizia al genere racconto.
!
RispondiEliminaanch'io come tanti altri (vedo) aspettavo un tuo post qui, è da giovedì che vengo a sbirciare in attesa! Nella mia storia personale di libri e scrittori, vi metto vicini, se ho iniziato a leggerla è anche grazie al tuo blog (insieme a Cheever, Paley, Dubus, O'Connor e molti altri). E tu che la conosci bene, non a caso hai aspettato qualche giorno, senza farti prendere dalla frenesia del resoconto in tempo reale che spesso genera riflessioni affrettate e imprecise, riordinate per esigenze di articoli "che devono uscire" (vedi l'accostamento a Carver, come se fosse l'unico scrittore di racconti al mondo, o il tirare in ballo sempre il minimalismo americano, perché altro non si sa dire quando si parla di racconti). Sono molto contenta di questo nobel, per noi amanti dei racconti, della letteratura nord-americana e perché molte persone si incuriosiranno e la leggeranno e inizieranno forse un percorso fatto di tanta altra scrittura.
RispondiEliminaciao, Silvia
Ho iniziato a leggere Alice Munro (così come Orner) a luglio, in seguito al gioco che proponevi nel post precedente. Mi ero incaponito che uno dei racconti, che formavano il testo, fosse contenuto ne "La vista da Castle Rock", non so perche'; alla fine il racconto mancante non l'ho trovato, pero' ho scoperto quasi un'amica, che intimamamente mi raccontava della sua famiglia, della sua vita...di quel brutto nodulo al seno. Le auguro anch'io buona vita e ti ringrazio per questo post, per questa bella osservazione, che ti ha riportato tra noi dopo la pausa estiva, ciao.
RispondiEliminaCon il pezzo della Pezzini su Vanity Fair, la tua è la miglior lettura dalla proclamazione del Nobel.
RispondiEliminaMarina www.marinabisognoblogger.eu
Buona vita davvero. E' bello augurarlo a 82 anni.
RispondiEliminaE ad una mamma come me mette una gran pace pensare i ritagli di tempo tra l'accudimento alle figlie piccole o medio-piccole - momenti che io mi immagino la sera dopo che le bambine dormono e finalmente si è sparecchiato la tavola e steso l’ennesimo bucato, oppure la domenica pomeriggio uggiosa con un orecchio a che cosa fanno i bambini, di là, in cui Alice Munro scriveva i suoi racconti (posto che questa sia una notizia vera....)
Grazie del post.
Ludovica
Grazie Paolo per queste riflessioni su Alice, la sua scrittura, il suo mondo.
RispondiEliminaIo la sto leggendo solo da qualche anno, credo proprio di avere trovato il suo nome per la prima volta sulle pagine di questo blog.
Quando sono nel suo mondo, indipendentemente da quanto viene narrato, sto bene. Mi sento a posto, a mio agio. Non chiedo niente di meglio a una storia, che non si faccia solo ascoltare ma anche un po' vivere.
In questi giorni da qualche parte hai scritto che il tuo racconto preferito della Munro è Ortiche: piace molto anche a me, forse per motivi diversi. Credo che tu abbia molto amato i ricordi dei due bambini, quello nato in giugno e quella nata in aprile - la battaglia che ingaggiano con i ragazzi del paese si ritrova, in qualche modo, nel capitolo "dei pirati" di Sofia. Io ho molto amato i due adulti, quelli che si fanno sorprendere dall'acquazzone sul campo da golf: del resto il rammarico, in ogni sua forma, è uno dei miei temi preferiti.
Grazia
ringrazio la signora munro per tutto quello che, scrivendo, mi ha dato. per i mondi e le anime che mi ha fatto conoscere. per il modo di raccontare, che mi ha riempito il cuore, ogni volta. ringrazio anche chi, a un laboratorio di scrittura, portò come libro da "scambio" il suo "nemico, amico, amante" e me la fece incontrare.
RispondiEliminamonica
Il secondo commento è di Paola (risulta anonima, non si è firmata la tua cara fan!). Io naturalmente non ho nulla da aggiungere né al suo commento e né tanto meno al tuo post. Ti ringrazio per avermi fatto amare Alice Munro in tempi non sospetti e per aver cercato di insinuare in me l'arte del racconto. Buona vita! Luigi T. (quello del cervo che guarda l'elicottero).
RispondiEliminaGrazie, Capitano, per le precisazioni, ce n'era bisogno.
RispondiEliminala recensione piu' bella e sentita che abbia letto dal di' del Nobel, quando dopo l'annuncio saltellavo inebetita davanti al pc in ufficio ;)
RispondiEliminafinalmente la meravigliosa arte del racconto trova nel suo tempo il giusto riconoscimento,
RispondiElimina"essere costretta a scrivere racconti, perché non aveva tempo".
RispondiEliminacom'è vero. e speriamo davvero che l'editoria tutta dia maggiore dignità alla forma del racconto, dopo questo nobel.
ciao Pa'
m
Non avevo mai letto il tuo blog prima di questo post e credo che non ti lascerò mai più :) E ora scusa ma vado a mettere un paio di libri della Munro nella mia lista desideri sulla mia libreria online preferita.
RispondiEliminabuongiorno, son tornata a rileggermi il tuo post. oggi che non ho tempo per quello che vorrei, e neanche tanto per quello che dovrei. la signora munro stamattina m è venuta in mente mentre cerco di farmi il caffè. è un po' lei il mio caffè. il fatto che s'è-presa-un-nobel, grazie ai suoi ritagli di tempo, a quel che le avanzava dopo aver vissuto, passa quasi in secondo piano. li valore di questa persona è d aver creato qualcosa di estremamente Bello, come lo sono i suoi racconti, qualcosa ricco di quel potere di entrare dentro e parlare lì, sotto la pelle, sotto i muscoli... quasi per hobby. a volte viviamo la vita che dobbiamo. però se ci si impegna magari quella che vogliamo riusciamo lo stesso a portarla avanti, a nutrirla, a farla crescere e a ricevere da essa infinite volte di più di quanto le dedichiamo. di sicuro, insomma, ne vale la pena. certo che la magia dei suoi scritti è proprio il risultato di tutto quello che scrittura non era. come un prezioso sedimento che raccoglie l essenza di un liquore magari di contrabbando, casalingo, ma ricco di sapore spartano e senza zuccheri artificiali e melensi aggiunti. quel che si deposita: trattiene lo spirito benefico filtrato dalla bevanda deglutita durante il giorno. come i fondi del caffè. dove si legge il destino, il futuro, la verità.
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