mercoledì 27 maggio 2015

LA FABBRICA DEL GAS

(È uscito in questi giorni per Agenzia X un libro intitolato Re/search Milano - Mappa di una città a pezzi. Contiene moltissimi ritratti di luoghi milanesi importanti per noi, e alcuni testi di scrittori che hanno voluto raccontare il proprio angolo del cuore. Ecco il mio.)

Non ne sono rimaste molte, alla Bovisa, di fabbriche abbandonate. In dieci anni che ci vivo le hanno demolite quasi tutte, e per fare posto a cosa poi? Distese di terra inquinata in attesa di soldi che non ci sono, cantieri di condomini che resteranno disabitati, container di lamiera arrugginita e cassette di legno per i gatti randagi: per chi sperava di veder nascere il quartiere dei creativi, oggi la Bovisa assomiglia parecchio a un sogno infranto. E così, un giorno che mi sento in vena di romanticherie, decido di fare qualcosa per volerle un po' di bene. Esco di casa nel pomeriggio con gli scarponi da montagna ai piedi. Risalgo la via fino alla stazione, oltrepasso i binari delle Ferrovie Nord, entro in quella terra di nessuno che chiamano la Goccia, mi dirigo a passo lungo verso i gasometri. Costeggiando l'inferriata dell'ex Fabbrica del Gas trovo il punto in cui qualcuno, chissà se un ladro di rame o un vagabondo o un altro esploratore come me, ha tranciato il filo spinato lassù in alto, poi guardo a destra e a sinistra: di domenica la Goccia è un deserto su cui ha appena smesso di piovere. Un'auto solitaria aspetta nel parcheggio dell'università. Oltre un muro scalcinato i treni vanno e vengono dal profondo nord. Per strada non c'è un'anima, nessuno mi vede: così allungo le mani sull'inferriata, mi arrampico fino in cima, passo una gamba e poi l'altra e salto di là. Corro acquattato finché mi ritrovo tra gli alberi, e lì mi sento al sicuro e mi fermo a prendere fiato. Succhio via il sangue dalla mano che mi sono ferito scavalcando. Alzo gli occhi sui gasometri da una prospettiva del tutto nuova: era una vita che lo volevo fare.



Un po' di storia aiuta a capire questo paesaggio inselvatichito. Il primo dei due gasometri, quello più piccolo ed elegante, fu costruito nel 1906 da una società parigina, che cominciò a produrre "gas di città" per alimentare le case e le fabbriche di Milano. Si trattava di un derivato del carbon fossile, per questo fu scelto un posto vicino alla ferrovia: interi vagoni merci venivano convogliati nello stabilimento e scaricati nei forni, dove il carbone subiva un processo di distillazione. Portato ad alte temperature e investito da getti d'acqua, dava un vapore da cui si otteneva un buon combustibile. Questo gas veniva immagazzinato in un'enorme camera cilindrica, che riempiendosi si alzava come un cannocchiale dentro la gabbia che la conteneva: il gasometro. Il secondo, quello imponente che è il simbolo della Bovisa, fu costruito accanto al primo nel 1930. La fabbrica crebbe di dimensioni fino agli anni Cinquanta, vide cambiare proprietari e processi produttivi, poi gradualmente quel tipo di gas venne soppiantato dal metano, che non necessitava di lavorazioni. Ci furono decenni di decadenza e infine l'ultimo padrone, Aem, nel 1994 chiuse i rubinetti del gas, i cancelli della fabbrica e una storia lunga tutto il Novecento. Da allora in pochi ci hanno messo piede, quasi niente è più stato toccato: è come una stanza chiusa vent'anni fa e poi dimenticata.

Adesso però a rientrarci non si trova esattamente la fabbrica di allora. Sono successe delle cose nel frattempo. La cosa più importante è che, in mezzo a platani, frassini, tigli e pioppi ormai secolari è cresciuta una fitta vegetazione spontanea. Alberi meno nobili - ailanti, robinie, betulle - e rampicanti dappertutto: un bosco selvatico che d'estate è rigoglioso come una giungla, oggi invece ha un'aria spettrale. Cammino su un tappeto di rovi così fitto che è impossibile vedere il terreno. Un paio di cornacchie nere volteggiano gracchiando sopra la mia testa. A un certo punto inciampo in qualcosa e mi accorgo che sono dei binari: due binari rossi di ruggine che finiscono di colpo tra i rovi. Lì vicino c'è una fila di vasche di cemento, sul fondo un letto di foglie marce e rami caduti. Raccolgo un casco da cantiere giallo, di plastica, e lo appendo al tronco di un platano, così se mi perdo lo vedo da lontano nel grigio della boscaglia. Poi incrociando una stradina sterrata trovo due impronte di pneumatici nel fango. Ha piovuto per tutto il giorno, perciò è sicuro che siano tracce fresche. Scopro poco più in là chi le ha lasciate: la macchina bianca di una vigilanza privata passa lenta per i vialetti che attraversano la fabbrica. Mi nascondo buttandomi nel primo capannone che trovo. Non so se mi abbia visto o no, ma il vigilante si allontana senza fermarsi. Mi guardo intorno: casse di legno con la scritta Milano Bovisa stampata a fuoco, un cumulo di cenere soffice e biancastra che evito di toccare, una carrucola di ferro cigolante, pioggia che gocciola dal tetto. Esco e torno sui miei passi, supero un'alta ciminiera di mattoni, sono di nuovo nel fitto del bosco.



Certi miei amici pensano che questo posto dovrebbe diventare un parco. Le ragioni sembrano tutte buone: primo, alla Bovisa un parco non c'è e questo esiste già, basterebbe sistemarlo e aprirlo al pubblico; secondo, se servisse a uno scopo più importante non sarebbe abbandonato da vent'anni; terzo, appartiene al Comune di Milano, e perciò a noi. Dunque dovremmo poterne fare ciò di cui abbiamo bisogno. E la Bovisa non ha bisogno di nuove case, di nuovi negozi, di nuovi parcheggi, di nuovi supermercati, perché di tutte queste ne ha già molte e pure inutilizzate, ma di un po' della bellezza che le manca, di un modo per raccontare la sua storia a chi passa di qui, di prati e alberi e panchine. I miei amici hanno perfino fondato un comitato, ma io dubito che otterranno ascolto. Non perché sia una persona pessimista di natura, ma perché mi guardo intorno e vedo bene che Milano ha già deciso cosa vuole diventare, e non credo che farà eccezioni. Così ogni tanto mi chiedo se non dovremmo occuparlo noi. Nelle mie fantasticherie faremmo così: una notte chiamiamo i fabbri della Bovisa e ci facciamo tagliare col flessibile quella maledetta inferriata. Chiediamo ai falegnami di costruire qualche panchina, ai giardinieri di piantare qualche fiore, agli artisti di portare delle cose belle. Poi quando è tutto pronto chiamiamo le madri e i padri e li invitiamo a portare i bambini: così, quando la mattina arriva la polizia, voglio vedere se hanno il coraggio di sgomberare. Bambini sgomberati da un parco autogestito alla Bovisa: io ci metto il titolo del racconto.

Infine torno verso i gasometri per andarmene a casa. Li trovo belli, così invasi dai rampicanti. Dovevano piacere molto anche a una ragazza che qualche anno fa ha scelto questo posto per morire. Si chiamava Alina, aveva vissuto alla Bovisa per un po'. Non era di Milano: di qui era soltanto passata ma si vede che qualcosa aveva amato, se alla fine ci è tornata per il suo numero d'addio. Era un'acrobata e giocoliera, aveva un po' più di vent'anni, e nelle foto che ho visto di lei faceva la mangiafuoco. Sul suo quaderno aveva scritto: Esco di scena con un salto mortale. Questo sì che è un messaggio d'addio, per la miseria. Una notte si è messa il vestito di scena, è venuta qui, ha scavalcato l'inferriata, ha fatto una corsa, si è impigliata nei rovi, si è nascosta dalla vigilanza, si è arrampicata sul gasometro più alto, poi quando è arrivata in cima ha aperto le braccia e si è buttata giù. Sotto al gasometro, su un muretto di cemento, è rimasta una scritta che va sbiadendo, e in buona parte non si vede più. Ancora un anno o due e penso che non ne resterà più niente. Il poco che sono riuscito a leggere dice: ALIENA VIAGGIATRICE NEL COSMO, NOI CI RINCONTR
Qualcuno ha cancellato il futuro, ma forse sono stati solo gli elementi.





martedì 5 maggio 2015

IL RAGAZZO E IL LAGO

(A volte, se uno scrittore è fortunato, qualcuno gli offre di saldare il debito con un libro che ha amato molto. Il libro di un suo maestro, senza il quale lo scrittore non si troverebbe dov'è, e non farebbe quello che fa, e quindi forse non sarebbe più lui ma un'altra persona. Mi ricordo perfettamente quel momento: ero in montagna e guardavo fuori dalla finestrella, cercando le parole per una storia, quando il telefono ha squillato. Il libro era Walden di Thoreau. Io?, ho pensato. Mi sono messo a ridere. Poterne scrivere un'introduzione era uno dei regali più belli che avessi ricevuto nella vita. Dopo i festeggiamenti, la paura, il lavoro, esce oggi nei tascabili Einaudi: eccone qualche riga.)

Questo libro vecchio ormai come un albero secolare, nato nell'età dell'innocenza americana e diventato alto, robusto e frondoso sotto le tempeste del Novecento, rifugio di tanti e tanti ragazzi scappati di casa, racconta in fondo la storia di uno di loro: Henry Thoreau aveva ventisette anni, quando lasciò la piccola città in cui era cresciuto e se ne andò a vivere sulle rive del lago Walden. In paese aveva qualche amico, nessuna fidanzata, una madre che si preoccupava per lui e un padre che l'avrebbe voluto nella sua fabbrica di matite. Ma Henry detestava le matite così come l'operosità dei suoi concittadini, bravi cristiani devoti a Dio e al lavoro, o forse a quella misura del lavoro che è il successo economico e sociale. Gli sembravano tutti infelici. Lui amava piuttosto leggere, vagabondare nei boschi, scendere i fiumi in barca con suo fratello John. A sedici anni era andato a studiare nella grande città, Boston, dove aveva respirato l'aria dei classici, e a venti era tornato indietro pieno di irrequietezza, disprezzo per il conformismo piccolo borghese, sogni di una vita avventurosa.
Concord, il paese in questione, era in quegli anni la casa del filosofo Emerson, che aveva raccolto intorno a sé un circolo di poeti e intellettuali e fondato il movimento del Trascendentalismo, in aperta rottura con l'etica puritana e con le prove di capitalismo in atto nel New England di metà Ottocento. In cosa consisteva questa dottrina? Da un punto di vista filosofico, in un culto della natura. Nel suo libro-manifesto del 1836, intitolato per l'appunto Nature, Emerson le assegnava quattro funzioni fondamentali: una pratica (il cibo e le materie prime che otteniamo da lei), una estetica (la bellezza di cui godiamo attraverso i sensi), una linguistica (le parole che abbiamo inventato per descriverla, e che usiamo per pensare), una spirituale (l'esperienza del divino che facciamo nella natura). Era un inno alla libertà, anche, e libertarie furono le azioni politiche dei suoi seguaci: agli albori della democrazia americana si opposero spesso e radicalmente al potere dello Stato; chiesero a gran voce l'abolizione della schiavitù e aiutarono illegalmente schiavi fuggiaschi a espatriare; contestarono la guerra di espansione contro il Messico fino a rifiutarsi di pagare le tasse al governo e finire per questo in galera; fondarono scuole ispirate a una pedagogia antiautoritaria e comuni agricole vegetariane; e furono dunque antirazzisti, nonviolenti, pacifisti ed ecologisti molto tempo prima che queste definizioni fossero coniate.
Henry a vent'anni trovò in quel mondo il suo ambiente ideale. Cominciò a frequentare il salotto di Emerson, a leggere moltissimo, a scrivere sulla rivista del gruppo, a tenere qualche conferenza. Allo stesso tempo, faticava a guadagnarsi da vivere. Parecchi suoi compagni venivano dall'alta borghesia, lui no: provò a fare l'insegnante, ma non si adattava ai metodi dell'epoca e dopo poco tempo si licenziò; svolse una serie di lavori manuali che gli sarebbero tornati utili più tardi nella sua avventura; per un po' si rassegnò a fabbricare le maledette matite del padre. Poi, chissà se per stima o carità, fu lo stesso Emerson ad assumerlo, accogliendolo in casa propria come istitutore dei suoi figli. Ma quella mansione a Henry non doveva piacere un granché, se di lì a poco cominciò a immaginare un esperimento radicale: andare a vivere nel bosco, da solo, senza soldi o quasi, e vedere se ce la faceva. Voleva mettere in pratica le teorie del maestro, ma non era soltanto la filosofia ad animarlo. Erano i suoi problemi economici, la sua indole di solitario, la sua insofferenza verso le regole e i padroni, la sua giovinezza. "Andai nei boschi perché volevo vivere in maniera autentica, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, per vedere se riuscivo a imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto". Ne parlò con Emerson, che si mostrò entusiasta del progetto - o forse era entusiasta di levarsi di torno il ragazzo - tanto da prestare a Henry un suo terreno, un pezzo di bosco da legname sul lago Walden. Con i risparmi che aveva da parte, Henry comprò una baracca da una famiglia di povera gente. La smontò, recuperò assi e travi, le pulì dalla terra e dalla muffa, trasportò il materiale sul terreno di Emerson e passò la primavera del 1845 a costruire la sua casetta. Non vedeva l'ora di abitarci, ma aveva scelto una data simbolica per il trasloco. Doveva essere un atto rivoluzionario, la liberazione personale del giovane Henry Thoreau: così, la mattina del 4 luglio, celebrò il Giorno dell'Indipendenza prendendo le sue poche cose e trasferendosi a Walden. Ci sarebbe rimasto per due anni, due mesi e due giorni, che sono la materia di questo libro.