lunedì 28 marzo 2011

FEDELTÀ

Esce in questi giorni un libro che ho letto, amato, tradotto (insieme alla mia amica Livia), curato, introdotto, e se sapessi disegnare avrei fatto anche la copertina, e sarei pure andato in giro a venderlo porta a porta. Si tratta di Fedeltà, l’ultima raccolta di poesie di Grace Paley, composta tra il 2000 e il 2007 e uscita subito dopo la sua morte. Tutto quello che avevo da dire su di lei si trova lì dentro, e in un capitolo di New York è una finestra senza tende, e nel primissimo post di questo blog, pubblicato ormai tre anni e mezzo fa. Forse posso aggiungere che io non sono un traduttore. All'inizio il compito mi spaventava un po’. Sono riuscito a portarlo a termine perché il libro è breve, perché Grace amava le parole semplici, perché ho avuto molto tempo e così ho potuto passare un anno della mia vita a tradurlo, più o meno una poesia a settimana. E poi perché è arrivata Livia a soccorrermi come un naufrago tra i flutti della lingua inglese. Sono poesie che parlano di amore, malattia, vecchiaia, donne, guerra, New York, fiori, genitori, bambini, America e boschi, e soprattutto sono le ultime pagine del diario di una grande donna. Il titolo Fedeltà ne riassume perfettamente il senso. L’alter ego di Grace Paley, protagonista di tanti suoi racconti, si chiamava Faith, fede, e ho meditato a lungo sulla differenza tra queste due parole. Fede e fedeltà. Credo che la prima guardi al futuro e la seconda al passato; che una si nutra di idee e sogni, e l’altra di esperienze e ricordi; che la fede sia per i giovani e la fedeltà per i vecchi. Grace Paley una volta disse: credo nella fedeltà alle mie idee originarie, è il modo che ho per oppormi alle mode imperanti. Copio qui la poesia che dà il titolo alla raccolta, ringrazio Marco per questo gran regalo che mi ha fatto e vi auguro buona lettura.

FEDELTÀ

Dopo cena tornai al
libro che stavo leggendo     ero
arrivata a pagina cento-
quaranta     ancora duecentoventi
pensavo quella
sera     mentre a cena
parlavamo con una giovane
coppia     della densa improbabile
vita del libro in cui mi ero accomodata
i personaggi ormai erano i miei compagni inquieti
li conoscevo     sapevo che sarei potuta
rientrare in quelle vite senza alcuna perdita
tanto solidamente le abitavo     ho scorso gli scaffali
alcuni libri così cari     mi erano mancati
mi sono allungata per prenderli
in mano     ho respirato due volte
pensavo all’accelerazione dei giorni
sì     avrei potuto rientrarci ma...
No     come potevo disertare tutta quell’altra vita
quei seminterrati di città
Abbandono     Come potevo essermi permessa
di pensare a mezz’ora di distrazione
quando la vita aveva pagine     o decenni da sfogliare
e tante cose stavano per accadere alle persone
che già conoscevo e quasi amavo

domenica 20 marzo 2011

IN LETTURA

Racconti, sempre racconti. Se gli editori italiani andassero avanti così, potrei anche non aprire più un romanzo in vita mia. L’uscita di raccolte vecchie e nuove, in questo periodo, segue alla perfezione i miei ritmi di lettore. Ne ho cinque sul comodino, oggi parlo delle prime tre.

Richard Yates, Bugiardi e innamorati (minimum fax). È la seconda e ultima raccolta di Yates, del 1981. Molto diversa dalla prima, Undici solitiduni, soprattutto per l’impressionante adesione dei racconti alla vita dello scrittore. Conoscendola un po’, sembra di leggere i capitoli di un’autobiografia: il rapporto infantile con la madre, artista frustrata e onnipresente; l’arruolamento nell’esercito appena in tempo per visitare Parigi liberata; il ritorno a New York, il lavoro nella pubblicità e il matrimonio; il nuovo soggiorno in Europa, questa volta a Londra, con il sogno di fare lo scrittore a tempo pieno; la crisi coniugale e la separazione; il periodo trascorso a Hollywood come sceneggiatore. Ma il valore del libro non è tutto qui. Almeno due racconti sono memorabili: “Bugiardi e innamorati” (quello ambientato a Londra, tra sogni letterari e sotterfugi sessuali) e “Addio a Sally” (quello ambientato a Hollywood, in cui per tutto il racconto aleggia lo spettro di Fitzgerald, ma io, chissà perché, ci ho sentito anche John Fante e il suo Arturo Bandini). Tolta l’ossessione materna, Yates dà il meglio di sé quando parla di coppie, e lì davvero sembra di sentir suonare un'orchestra: con la grancassa dell'attrazione sessuale, gli archi dell’amore romantico, i fiati del tradimento, del disamore e del distacco che sempre chiudono il concerto.

Harold Brodkey, Primo amore e altri affanni (Fandango). Brodkey è uno di quegli autori di culto scomparsi misteriosamente dalle nostre librerie. Io, almeno, questo libro lo cercavo da anni. È una raccolta di nove racconti del 1958, molti dei quali usciti in precedenza sul New Yorker. All’epoca suscitò entusiasmi, tanto che alcuni critici salutarono l’esordio di un nuovo maestro: solo che, dagli anni Sessanta, Brodkey si mise a scrivere un’opera sofferta e interminabile, migliaia di pagine intrise di nostalgia che gli valsero l’etichetta di “Proust d’America”, e che sarebbero uscite in parte come racconti (Storie in modo quasi classico, 1988), in parte come romanzo (The Runaway Soul, 1991, lungo quasi 900 pagine e inedito in Italia). Se volete saperne di più, c’è un bell’articolo di Fernanda Pivano nell’archivio storico del Corriere. Sembra che nel prossimo futuro Fandango ripubblicherà tutto quanto. Per ora, posso dire che i racconti soddisfano le attese. La raccolta è idealmente divisa in due parti: nella prima, quattro storie di ampio respiro tracciano un percorso di formazione tra infanzia, adolescenza e giovinezza; nella seconda, cinque storie brevi gravitano intorno a una stessa protagonista, Laura. A me sono piaciute soprattutto queste ultime. Più che Proust, sento risuonare le note di alcuni racconti “femminili” di Salinger.

The Paris Review: il libro della gente con problemi (Fandango). È la quarta antologia della Paris Review che Fandango pubblica, dopo due raccolte di interviste e una “bibbia” di cui ho già parlato un anno fa. In questo caso si tratta di racconti di varia lunghezza, dalle 5 alle 80 pagine. Che cosa posso dire, oltre che si tratta della migliore rivista letteraria d’America? Forse è il caso di fare alcuni nomi: Annie Proulx, Denis Johnson, Mary Robinson, Julie Orringer, Wells Tower, Miranda July. E dire che molti di questi racconti difficilmente usciranno in Italia in altra forma. A quanto pare, le antologie della Paris Review alla fine saranno otto: e io ho un piccolo scaffale di quaranta centimetri, tra il calorifero e il divano, che è già dedicato a loro. Tanto per farvi capire il valore di quella zona: sopra c’è lo scaffale con i libri sui pirati. La mia libreria è organizzata secondo un rigidissimo ordine sentimentale.

martedì 1 marzo 2011

DUE SCRITTORI AL DINGO BAR

(A settant'anni dalla morte, minimum fax pubblica tutte le opere di Francis Scott Fitzgerald in una collana speciale. I libri sono ritradotti da scrittori italiani contemporanei: Giuseppe Culicchia, Francesco Pacifico, Tommaso Pincio e Veronica Raimo. Altri hanno scritto per il sito di minimum un ricordo personale, e questo è il mio. Tutti i contributi si trovano qui. Un'ultima cosa: sono libri bellissimi, meritano il vostro scaffale migliore.)

Per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata o quali che fossero le difficoltà, o l’agio con la quale si poteva raggiungerla. Parigi ne valeva sempre la pena e qualunque dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.
(Ernest Hemingway, Festa mobile)

Si incontrarono al Dingo Bar di Montparnasse verso la fine di aprile del 1925, appena due settimane dopo l’uscita del Grande Gatsby in America. Per entrambi era stata una primavera fruttuosa. Il quartiere era il cuore degli anni folli, ci abitavano Picasso ed Ezra Pound, e il Dingo ospitava parecchi americani in esilio, perché stava aperto tutta la notte e si poteva parlare inglese. Seduti al banco bevvero champagne: Fitzgerald aveva ventotto anni e tre romanzi alle spalle, faceva vita da ricco tra la Costa Azzurra e Parigi, dilapidava in auto a noleggio e alberghi di lusso i compensi delle riviste newyorkesi; Hemingway non aveva un soldo, si era appena licenziato dal Toronto Star per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa, saltava i pasti e metteva da parte i risparmi per fare un giro alle fiere di Spagna in estate. Erano entrambi sposati da poco. Ernest aveva un figlio piccolo, Scott una bambina. Che cosa ci facevano a Parigi? Più che altro, bevevano e scrivevano. Al di là dell’oceano, nel 1920, era cominciata l’epoca del Proibizionismo, e l’Europa si era trasformata di colpo in un immenso bar a basso costo.
Ernest amava il vino. Aveva imparato ad amarlo in Italia, nelle osterie di Milano e Padova, mentre la gamba guariva dalle schegge di granata del Piave e lo spirito da tutti i morti che gli era toccato vedere. Beveva vino in grandi quantità e quest’abitudine, oltre al mondo là fuori che lo chiamava a gran voce, gli rese la vita impossibile una volta tornato a casa, perciò a ventidue anni trovò lavoro in un giornale canadese e si fece spedire a Parigi come corrispondente. Al vino, Scott preferiva di gran lunga whisky e champagne. Preferiva le strade di New York ai boschi del Michigan, la compagnia di gente elegante a quella di soldati e contadini, le macchine decapottabili ai treni. E al posto di tutte le infermiere, cameriere, indiane mezzosangue e ragazze di campagna di Ernest, lui aveva amato una donna sola, Zelda, la sadica, rapace, sfrenata e bellissima Zelda. In vita sua era stato a letto soltanto con lei. Una donna in grado di respingerlo quando era al verde, riprenderlo appena diventato famoso, trascinarlo in una giostra di balli e sbornie che ormai vorticava da cinque anni, attraverso New York, l’Italia, Londra, le ville di Long Island e quelle di Antibes e Juan-Les-Pins. Anche Ernest aveva girato l’Europa, ma sulle carrozze di terza classe. Sua moglie Hadley veniva da Saint Louis, la prima delle quattro ragazze del Missouri che avrebbe sposato in quarant’anni. Quell’inverno, alla Gare de Lyon, qualcuno le aveva rubato una valigia preziosissima, che conteneva tutti i manoscritti del marito compreso un romanzo mai più ritrovato. All’inizio era sembrata una tragedia, poi si sarebbe rivelata una fortuna. Ogni aspirante scrittore dovrebbe essere costretto, in qualche punto del suo apprendistato, a ricominciare da zero. Hemingway stava ricominciando da zero. Fitzgerald, al contrario, era sulla cresta dell’onda, anche se per soddisfare Zelda viaggiava troppo, spendeva troppo, beveva troppo e scriveva troppo poco.
Che aspetto avevano? In Festa mobile Scott è descritto senza pietà. Parlava solo lui quella sera. Aveva letto dei racconti di Ernest e ne tesseva le lodi. Aveva una cravatta inglese, i riccioli biondi ben composti, un nasino raffinato e le gambe corte. Del suo viso colpiva la bocca: che era delicata e sinuosa e, scrive Hemingway, in una ragazza sarebbe stata una bellezza, in un uomo diventava oscena. Dell’aspetto di Ernest veniamo informati in un altro libro, l’Autobiografia di Alice Toklas, le memorie di Gertrude Stein: era un giovane gagliardo, dall’attenzione sempre viva, lo sguardo furfantesco e le movenze di uno di quei barcaioli del Mississippi descritti da Mark Twain. Uno etereo, femminile, aristocratico, l’altro virile e selvaggio, entrambi affamati di vita e lontani da casa e già posseduti dall’alcol: ecco i due protagonisti della generazione perduta al loro primo incontro.
Stavano inaugurando una strana amicizia crudele. Ernest di Scott avrebbe disprezzato la debolezza fisica, l’ipocondria, la scarsissima disciplina, la schiavitù nei confronti di Zelda, l’arrendevolezza verso la narrativa commerciale, l’enorme spreco di talento che tutto questo costituiva ai suoi occhi; Scott di Ernest avrebbe adorato il coraggio, i ricordi di guerra, l’abilità nella caccia e nel pugilato, l’esperienza delle donne e del mondo. Entrambi avrebbero riconosciuto nell’altro un grande scrittore. Fu Scott a raccomandare Ernest al suo editor, Max Perkins, con queste parole: “Volevo parlarti di un giovane scrittore di nome Ernest Hemingway, che vive a Parigi e ha un brillante futuro. Io non aspetterei un minuto a farmi vivo con lui. È la persona che mancava”. Da parte sua, una volta terminata la lettura del Grande Gatsby, Ernest si ricredette completamente su quel damerino incontrato al bar. Il romanzo lo lasciò talmente ammirato che “quando lo ebbi finito capii che qualsiasi cosa facesse Scott, o qualsiasi contegno tenesse, dovevo abituarmi a considerarlo come una malattia, e che dovevo prestare a Scott tutto l’aiuto possibile e cercare di essergli amico”. Anche se poi non andò così.
Quella sera del 1925 pensavano di avere una vita davanti, ma non era vero. Come scrittori, si trovavano nel loro momento di grazia. Scott aveva appena scritto il suo capolavoro, Ernest l’avrebbe fatto nei cinque anni successivi: i racconti, Fiesta, Addio alle armi. Tutti i libri venuti dopo sarebbero stati peggiori, per un motivo o per l’altro. O forse per l’unico motivo che né l’alcol, né le lodi del mondo hanno mai aiutato nessuno a scrivere meglio, anzi: entrambi avrebbero rimpianto gli anni di Parigi e il loro tocco magico giovanile.
Per questo mi piace fermarmi qui, al Dingo Bar, nell’aprile del 1925, l’istante dell’incontro immortalato come in un quadro di Degas o di Toulouse-Lautrec, uno di quegli interni parigini del secolo precedente. Si intitolerebbe Les écrivains de Montparnasse. Oppure: Jeunes hommes au café. Oppure: Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald scrivono la storia.
Non potevano sapere questa e tante altre cose, e nemmeno a chi dei due sarebbe toccato comporre l’epitaffio dell’altro: “Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato e cancellato. Più tardi si rese conto delle sue ali danneggiate e comprese com’erano fatte e imparò a riflettere e non riuscì più a volare perché era scomparso l’amore per il volo e poté solo ricordarsi di quando volare non gli era costato il minimo sforzo”. Lo scrisse Ernest per Scott ma valeva per tutt’e due: per Fitzgerald, Hemingway e tutti quelli che una volta erano grandi scrittori, e poi sono diventati soltanto vecchie glorie dal talento perduto.