giovedì 17 maggio 2018

LOUIS

Dopo un inverno così nevoso da far tornare ricordi lontani alla memoria dei vecchi, la Val di Rhêmes in aprile è tutta segnata dalle valanghe. Sale da nord a sud, al rovescio, per quella destra orografica della Valle d'Aosta che chiamiamo appunto l'envers, gole ombrose e selvatiche tagliate dai torrenti tra pareti di roccia scura. Lungo la Dora di neve non ce n'è più, ma i versanti sono così ripidi da scaricare di continuo quella che si è accumulata su in alto, per canaloni e colatoi: le slavine scavano i pendii e portano giù terra, pietre, tronchi d'albero, perfino animali travolti e trascinati a fondovalle. “Ieri due camosci”, dice Louis Oreiller, come aggiornando il conto della primavera. Io alzo gli occhi a ogni borbottio di distacco, lui non ci fa nemmeno caso. A Rhêmes Notre-Dame, 1700 metri d'altezza, dove la valle si apre in una conca glaciale e concede un po' di dolcezza e di luce, quello delle valanghe dev'essere un rombo familiare.
Louis ha 85 anni, tutti spesi ad ascoltare la montagna. È un vecchio magro e ha una barba bianca ingiallita dal tabacco, ma qui non si muore di fumo, si muore di vino e lui non beve come chi ne ha vista troppa di gente ammazzarsi in quel modo. Ha gli occhi azzurri, arrotola sigarette di trinciato, cammina con quel passo che io ho provato molto a imitare (lento, assorto, un po' curvo in avanti, il passo di chi ha sempre vissuto in salita e si ritrova a disagio nel piano), a vederlo non sai se dargli vent'anni di meno, per il fisico, o cento di più, perché c'è qualcosa di vecchissimo in lui.
Dopo averla ascoltata per una vita intera, e averne imparato la lingua, ha scritto o meglio dettato a Irene Borgna il più bel libro di montagna che io abbia letto nell'ultimo anno. Si intitola “Il pastore di stambecchi” e parla una lingua strana, non c'entra il patois né la erre arrotolata della petite patrie, è una lingua che sembra venire da un altro paese. O da un tempo molto, molto lontano. Quella montagna è qui fuori dalla sua finestra. Dai vetri della cucina, mentre la moglie di Louis prepara il pranzo sulla stufa a legna, osservo la Granta Parey, la piramide di roccia che chiude la Val di Rhêmes a sud, poco prima dei valichi che danno in Francia. Un'altra frontiera non si vede, tutta la destra della valle è dentro il Parco Nazionale del Gran Paradiso: fin da ragazzo, negli anni Cinquanta, Louis ha fatto avanti e indietro per quei confini come contrabbandiere e bracconiere, portando pelli da vendere o barattare, corna di stambecco per soldi, carne di camoscio per fame. È stato inseguito da gendarmi, doganieri, forestali, ha imparato a fuggire di notte e su sci di legno costruiti in casa, si è stampato in testa la mappa di tutti i passaggi segreti, tutte le scorciatoie e i nascondigli della montagna. Poi è passato dall'altra parte perché una volta quelli come lui li assumevano, così in un colpo solo ti levavi un problema e ne risolvevi molti altri: per quarant'anni Louis ha fatto prima il guardaparco, poi il guardacaccia nella riserva della valle, in alto su quei pendii da cui si staccano le slavine. Tutto il giorno lassù, quasi sempre da solo. Lui e la montagna.
Io sono a mio agio seduto in questa cucina, mi è sempre piaciuto stare con i vecchi. Raccontami qualcosa di quello che hai sentito, gli chiedo. “La voce delle cascate”, dice lui. Come? “Se ascolti con pazienza, scopri che le cascate cambiano voce ogni due ore. Fino alle quattro di pomeriggio, poi tornano indietro. Però devi stare lì seduto tutto il giorno per sentirla cambiare.” E gli alberi, Louis, hanno una voce anche loro? “Ce l'hanno sì, tutto ha una voce, solo che noi non la sentiamo. Una volta ho tolto un pezzo di corteccia alla base di un larice, poi ho cominciato a battere con il rovescio dell'accetta e ho avvicinato l'orecchio alla pianta. Il colpo aveva come un'eco, andava su e tornava giù come un'onda. Ho poi scoperto che un albero morto non lo fa, lo fa solo un albero vivo.”
Ora riaccende la sigaretta che si era spenta, e sento bene che è tabacco da pipa. Alle pareti, foto di famiglia e di montagna. Louis, Nathalie, il figlio Silvio, un lupo, un bivacco, tanta neve. Louis a quarant'anni aveva già i capelli bianchi e una bellezza dura, che adesso ha perso. Adesso è un vecchio dolce, non si può più immaginare la sua forza di un tempo. Parlami ancora, Louis, parlami delle rocce. “Le rocce, quante ne ho accarezzate. Tante volte ho traversato senza corda per dei posti da accopparsi. Appoggiavo la guancia alla roccia e chiedevo alla montagna di lasciarmi passare. Bisogna chiedere permesso e capire la risposta, se lei ti dice di no e non sai ascoltare è finita.” E la neve, anche quella hai ascoltato? “Ho lavorato tanto per il servizio valanghe, tutti i giorni d'inverno mandavo giù il grado di pericolo. Usavo gli strumenti in dotazione più qualche altro metodo. A contare gli strati di neve mi aveva insegnato un vecchio bracconiere, Elso, il mio maestro: ti tiri su la manica della camicia, affondi il braccio nella neve e li conti, uno per uno. A prevedere le valanghe mi hanno aiutato anche le femmine di stambecco, che scompaiono dalla montagna qualche ora prima del distacco. I maschi invece sentono la neve in arrivo, prima di una nevicata si mettono in cerchio intorno a un dosso e posano la testa verso l'interno, formano una specie di rosa con le corna. Sono sempre in numero dispari: tre, o cinque, o sette.”
Ecco, in questo libro che commuoverà gli amanti della montagna ci sono stambecchi che fanno la rosa, c'è un corvo che attacca il cucciolo di camoscio agli occhi mentre la madre lo sta partorendo, c'è un ermellino che vendica i figli uccisi cogliendo la vipera quand'è in amore. C'è un sapere non tramandabile, che non erediteremo. Provo un terribile senso di perdita a pensare che questi montanari si portano via tutto quello che hanno imparato, e che noi non impareremo mai. Noi possiamo soltanto ascoltare questa voce che ci riempie di meraviglia e di rimpianto.
Conosci la mia valle, Louis? Gli si illumina lo sguardo: non solo perché la mia, la Val d'Ayas, è sul dritto ed è tutta al sole. È che questi vecchi valdostani hanno sempre almeno un ricordo in ognuna delle nostre quindici valli laterali, posti in cui magari non tornano da cinquant'anni e di cui parlano come mondi lontani. “Sì, in quel lago del tuo libro ho fatto il guardapesca. Erano i primi anni Sessanta, mi ricordo tanti montanari in alpeggio. È ancora così?” Non te lo dico, non lo vuoi sapere. Parliamo dei vecchi amici, sono quasi tutti morti o sono via, come dicono quassù, come se morire fosse un po' partire. Fa un elenco di persone che conosceva nella mia valle, questo è via, questo è via, questo è via, finché ne nomina uno che è ancora qui. Quello sì, è vivo e vegeto, lo chiamano “Porca miseria”. È l'uso di soprannominare gli uomini con i loro tic verbali. Questo Porca miseria da noi è conosciuto perché anche dopo gli ottant'anni continua a litigare con tutti, qualche volta mena pure le mani.
Vai ancora in montagna, Louis? “No, ho smesso sette anni fa. Ho fatto un lungo giro a salutare tutto. Sapevo che era l'ultima, sono stato su per un giorno intero.” Poi pensandoci gli scappa una frase: “Ma se torno...”, e io che amo il buddismo gli chiedo se davvero pensa che torneremo. “Non so”, dice. Poi ci riflette e risponde più deciso: “No, credo di no.” Ma ho colto nel frattempo uno sguardo di Nathalie, che si è voltata dalle sue pentole per vedere cosa rispondeva. Lui crede che forse torneremo, lei no e non vuole sentire bestemmie o eresie.
Vado via dopo una mattina passata ad ascoltare questo vecchio e la montagna che parla attraverso di lui. La Granta Parey ha lo stesso nome del Gran Paradiso e vuol dire solo una cosa, montagna grande, non c'entra coi paradisi. La gente una volta non perdeva tempo a trovare nomi alle montagne.
“Salutami la Val d'Ayas”, mi dice, mentre parto. Vieni tu una volta a salutarla, no Louis? “Ma come faccio, non sento più il piede del freno. La patente ce l'ho ancora ma in discesa credo di frenare e invece vado dritto. Meglio di no.” E se una volta ti vengo a prendere io e ti porto di là, a raccontare a un po' di ragazzi che cosa hai sentito in montagna? “Allora forse sì”. Bene. Allora organizzo. Forse c'è ancora tempo per imparare.

(Louis Oreiller sarà ospite al Richiamo della foresta, il festival che con alcuni amici organizzo a Estoul in Val d'Ayas, il 21 luglio)

mercoledì 9 maggio 2018

IL FUTURO POSSIBILE

(questo pezzo è uscito su Montagne360)

Ormai da dieci anni affitto una baita a Estoul, in Valle d’Aosta, in mezzo a un pascolo che per tre mesi all’anno diventa una pista da sci. Come i montanari miei vicini salgo in primavera, ci abito per tutta l’estate e vado via in autunno, un po’ perché l’inverno rende la baita quasi impraticabile, un po’ perché lo sci non mi piace. Non nel senso che non mi diverte: ho imparato a sciare anch’io da bambino; ho riprovato una volta da grande scoprendo che sono ancora capace; ma qualcosa, nello sci di discesa, è contrario alla mia idea di rispetto per la montagna, incoerente con lo spirito con cui vivo lassù. Forse perché abitandoci vedo che cos’è una pista: per avere gli sciatori in una stagione sempre più breve, ormai ridotta a poche settimane tra gennaio e marzo, un versante della montagna è disboscato, spianato, percorso da condutture elettriche e idrauliche, sfigurato da impianti di risalita e cannoni per l’innevamento artificiale, cementificato da stazioni di partenza e d’arrivo, invaso da mezzi a motore. Ce la prendiamo con quelli che vanno in moto sui sentieri? Lo sci di discesa ha un impatto molto più violento sulla montagna. Non solo distrugge il paesaggio, ma consuma moltissima acqua, elettricità e gasolio. Vorrei perlomeno che gli sciatori lo sapessero. Perlomeno siamo consapevoli di quel che facciamo, poi possiamo decidere di farlo lo stesso (e prenderci le nostre responsabilità): lo sci di discesa è un modo antiecologico di andare in montagna.
Da suo abitante, conosco bene anche il rovescio della medaglia: Estoul sarebbe un paese abbandonato senza lo sci. Quei pochi fine settimana in cui, se c’è il sole, salgono migliaia di turisti per fare su e giù sulle nostre pistarelle, mantengono per tutto l’inverno trenta o quaranta persone. Tutti i miei amici in un modo o nell’altro lavorano con lo sci: i bigliettai, gli agenti di rinvio, i gattisti, gli addetti alla sicurezza e all’innevamento, i maestri di sci, i noleggiatori di materiali, i proprietari e i dipendenti di un bar, due ristoranti e due affittacamere. Credo di non conoscere nessuno che a Estoul non dipenda dallo sci. Forse solo Anna che ha ottant’anni, quattro mucche e un cane, lei sì starebbe lo stesso lassù senza gli sciatori.
Per cui il problema, oltre all’impatto dello sci, è il fatto che esista solo lo sci nelle nostre montagne spopolate di tutto il resto. E nel momento in cui mi oppongo ai progetti di nuove piste (ma parliamo anche di come rendere più ecologiche quelle vecchie), mi sento in dovere di immaginare un’altra economia possibile per il posto in cui abito. È uno dei grandi temi dei nostri tempi: come conciliare economia ed ecologia, rispetto della Terra e lavoro per l’uomo? Credo che cercare risposte ed esplorare possibilità sia il nostro compito di nuovi educatori, operatori culturali, imprenditori sociali della montagna. Ho scelto con cura queste parole che vengono dalla città, e che alla montagna sembrano estranee, perché penso che l’assenza di lavoro culturale e sociale faccia parte del suo impoverimento, e che proprio da qui si possa cominciare ad arricchirla e ripopolarla. Personalmente, insieme ad alcuni amici, ho fondato a Estoul un’associazione che organizza in estate un festival di arte, musica, e letteratura, e sto costruendo un rifugio alpino che vorrebbe diventare un presidio culturale d’alta quota. Ovvero un luogo in cui fare formazione (per esempio per i nuovi montanari o per chi vuole diventarlo), invitare i ragazzi delle scuole, ospitare artisti italiani e stranieri, proporre agli abitanti della valle un programma culturale e una sede in cui essi stessi possano partecipare alla vita associativa, e infine accogliere e far incontrare tra loro gli amanti della montagna. Che cosa c’entra tutto questo con l’economia? Io spero che c’entri, spero che sia un passo per portare alla montagna nuove idee, nuovi abitanti e nuovo lavoro, non pensandola più unicamente come luogo di divertimento e riposo, ma di rapporti sociali e produzione culturale. A me sembra che ne senta terribilmente la mancanza.
(fotografia di Loïc Seron)