lunedì 30 novembre 2009

SPLENDIDO SPLENDENTE

Ieri sera sono andato al Cox 18 - o in Conchetta, come diciamo noi - per lo Slam X, la due giorni di reading e musica organizzata dall’Agenzia X per finanziarsi e farsi conoscere in giro. All’ingresso si poteva pagare una piccola quota oppure, al posto del biglietto, comprare un libro qualsiasi del catalogo. Io ho preso Splendido Spendente, di Ivan Guerrerio. Il sottotitolo è Romanzo per Moana. L’ho letto tra ieri sera e stamattina: è un libro senza virgole e non mi ha mollato fino alla fine. Dunque la storia è quella di Marzio Milani, ragazzo del 1960, studente milanese, militante politico, che nel 1978, in vacanza a Camogli, conosce per caso la giovanissima Moana Pozzi, e per quella breve estate diventa uno dei suoi amanti. È una strana coppia: lui jeans e capelli lunghi, lei bionda platinata. Lui cresciuto nella Milano in fermento degli anni Settanta, lei in giro per il mondo al seguito del padre, ma ora rinchiusa in catene in una villetta dell’entroterra ligure. Lui è comunista e vuole fare la rivoluzione, lei va in collegio dai preti ma scopa con tutti. Lui ha una fidanzata femminista, che al momento si trova in Puglia in un campeggio di formazione politica, mentre lei a diciassette anni frequenta uomini adulti, va in giro nuda per le spiagge d’agosto, è conosciuta in qualsiasi night o discoteca tra Genova e Alessandria. La loro storia durerà solo poche settimane. Poi Marzio farà la sua strada, ma resterà innamorato di Moana per tutti gli anni a venire. La seguirà ovunque, raramente di persona ma spesso per lettera, o attraverso i giornali, o nel buio dei cinema porno. Il fatto è che lei è troppo diversa dal paese in cui si trova a vivere, e che una volta lui pensava di poter ribaltare. Moana non solo è bellissima, non solo è sesso allo stato puro: rappresenta la libertà e la rivoluzione, e poi la morte della libertà e la fine della rivoluzione, in un’epoca in cui queste due parole cambiano di senso, o forse smettono di averne uno. Così il romanzo non è solo la storia di Marzio e Moana ma anche quella d’Italia tra il 1978 e il 1994, sedici anni in cui le parabole delle grandi idee sono precipitate per sempre, e le illusioni di tante persone sono andate giù insieme a loro. Si parla molto di anni Ottanta in questo periodo. Abbiamo capito che la nebbia fetida in cui siamo immersi viene dritta da lì: non solo il potere a cui dobbiamo sottostare, che allora stava prendendo la rincorsa, ma un’intera cultura dominante che in quegli anni metteva le sue radici. Ecco, Splendido Splendente forse si capisce meglio se sei un uomo, e se sei nato a Milano. Ma credo che sia un mattone importante in un lavoro di ricostruzione storica che sento sempre più necessario, se vogliamo cominciare a capire dove siamo, e come diavolo abbiamo fatto a scendere così in basso.

***

Sei Norma Jean Baker nata a Los Angeles nel 1926 di tuo padre non saprai mai niente di tua madre sai che lavora per una casa di produzione cinematografica e anche se sei solo una bambina capisci che non sta per niente bene vedi che entra ed esce dagli ospedali e tu vieni affidata a varie famiglie e in tutto quel girare a dieci anni un patrigno ti violenta mentre cresci in questi ambienti disperati sogni il cinema e il tuo primo provino è la dimostrazione di cosa fa una brava ragazza lasciata sola con una bottiglietta di Coca Cola anche se negherai sempre che quella pellicola esista. Diventi famosa comunque perché sei bellissima e per tutta la vita sogni un uomo che ti ami per quello che sei o per come appari scelga pure ma almeno ti ami e così ti sposi divorzi ti risposi ma per quante volte tu lo faccia non funziona niente e il primo è un miliardario che dura poche settimane poi arriva un famoso sportivo e alla fine un noto intellettuale che per ricambiarti scriverà male di te tu che amerai l’unico che non puoi sposare lui il più famoso e il più potente di tutti lui a cui canterai Happy Birthday al compleanno lui l’amante di cui tutti sanno e di cui alcuni dicono che ordinò il tuo omicidio tu che ti sei uccisa ufficialmente con i barbiturici quando avevi trentasei anni sei il più noto sex symbol di tutti i tempi sei l’attrice più invidiata sei l’icona dei quadri di Andy Warhol tu sei Marilyn Monroe.

Sei Linda Susan Boreman nasci alla fine degli anni Quaranta nel quartiere del Bronx di New York da una famiglia proletaria e hai una madre cattolica autoritaria e violenta ti sposi a ventidue anni con uno spacciatore che gestisce un topless bar ti fa prostituire e un giorno ti presenta a Gerard Rocco Damiano un parrucchiere per signora con aspirazioni da regista e insieme in pochi giorni nella villa prestata da un amico girate un film che cambierà la storia del cinema e incasserà milioni di dollari mentre a voi ne restano per compenso poco più di mille a testa e tutto il resto alla mafia che lo distribuisce Gola Profonda segnerà l’inizio dell’epoca del porno di massa e tu diventi famosa riesci a lasciare tuo marito ti risposi e fai tre figli e divorzi ancora la tua vita non migliora la notorietà scompare e negli anni scrivi quattro autobiografie talmente diverse tra loro che puoi essere sia l’eroina della sperimentazione sessuale sia la portabandiera di chi considera il porno il male assoluto sei la più controversa attrice porno della storia tu sei Linda Lovelace.

Sei Anna Moana Rosa Pozzi nata a Genova a Pra Palmaro in un quartiere del Ponente il 27 aprile 1961 e sei la prima figlia di Alfredo Pozzi e Rosanna Aloisio lui uno stimato tecnico che lavora nelle centrali nucleari proveniente da una famiglia della borghesia genovese lei di origini contadine diplomata e poi moglie e casalinga molto cattolica nel 1963 nasce tua sorella Maria Tamiko per tutti Mima insieme a cui frequenti l’asilo delle suore Orsoline che dovrebbe trasmettervi da subito i principi e i valori graditi alla famiglia con Mima passi la prima infanzia nella casa di Pra Palmaro da cui si vede il mare affascinata da tuo padre con cui la domenica compri le paste dopo la messa fino a quando la sua carriera non porta tutta la famiglia a vivere all’ombra delle centrali in ogni parte del mondo prima in Spagna nel 1967 in un lussuoso quartiere della capitale franchista poi fra i ghiacci e le foreste del Canada nel 1969 e infine nel torrido Brasile a Tubarao dove frequenti una scuola di suore e una di samba e resti affascinata dalla sensualità di quel popolo fino a che il cerchio si chiude nel 1975 la famiglia torna a vivere non lontano da Genova nella casa di Lerma da dovi osservi un mondo diventato minuscolo sognando di fare l’attrice non hai nemmeno bisogno di trovare un nome d’arte visto che per tutti da sempre tu sei solo Moana il punto dove il mare è più profondo.

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Ivan Guerrerio, Spendido Splendente (Agenzia X 2009)

mercoledì 25 novembre 2009

BARTLEBY E COMPAGNIA

Subisco il fascino degli scrittori che smettono di scrivere. Una vocazione è anche una mania, e liberarsene non è meno difficile che portarla a compimento. Darà lo stesso tipo di piacere? Oppure ne darà uno tutto diverso - il sollievo che si prova guarendo dalla febbre, o respirando dopo una lunga apnea, o camminando all’aria aperta dopo anni di galera? Io immagino un senso di enorme liberazione. Potersi svegliare di fronte alle possibilità del quotidiano, godere delle esperienze mentre accadono, pensare alla propria felicità non più in termini di scrittura o non-scrittura, ma di oggetti più sani come per esempio: persone, luoghi, incontri, azioni. Essere Neal Cassady invece di Jack Kerouac. Essere Arthur Rimbaud invece di Paul Verlaine. Non significherebbe perdere l’amore per la letteratura: anzi forse diventerebbe un amore più puro, come diceva Derek Walcott nei versi di Vulcano.


Si potrebbe anche abbandonare la scrittura

davanti ai segnali di lenta combustione

dei grandi, ed essere invece

il loro lettore ideale, riflessivo,

affamato, conscio che è superiore

l’amore per i capolavori

al desiderio di ripeterli o eclissarli,

e diventare così il miglior lettore del mondo.


Non pensavo più a questa faccenda da un po’ di tempo, cioè da quando uno scrittore e una scrittrice decisero, ognuno a modo suo, di smettere di scrivere per sempre. Mi è tornato tutto in mente leggendo un libro di Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia, uscito in Spagna nel 2000 e in Italia nel 2002, e ora ripubblicato in edizione tascabile per Feltrinelli. Vila-Matas è uno di quegli scrittori che lui stesso chiama gli anti-Bartleby, cioè i grafomani alla Simenon o alla Scerbanenco, ma in questo saggio-romanzo finge di essere uno scrittore finito, uno che ha pubblicato il suo libro d’esordio venticinque anni prima e poi ha smesso, e ora si dedica a studiare gli agrafi come lui. I Bartleby. Quelli che alla vocazione rispondono, come lo scrivano di Melville, preferirei di no.

Il libro è una raccolta di vite esemplari. Così come ogni scrittore ha il suo stile, anche ogni non-scrittore ha dovuto percorrere una strada diversa per arrivare al silenzio. Intanto, occorre dare una risposta a chi ti chiede come mai non scrivi più. Allora si può fare come Duchamp che rispondeva: che cosa ci vuol fare, signora, non ho più nemmeno un’idea! O come Alfau, che arrivato a una certa età si dedicò allo studio delle lingue straniere, e dichiarò che dopo aver imparato l’inglese, cominciano le complicazioni. O come Vaché secondo il quale, molto più semplicemente, l’arte è una stronzata. O come Rulfo, forse il più grande scrittore messicano, che aveva elaborato la risposta perfetta: perché è morto lo zio Celerino, quello che mi raccontava le storie.

E poi, ci sono le cose che gli scrittori fanno dopo avere smesso di scrivere. C’è Rimbaud in Africa, dedito a contrarre la sifilide e commerciare in schiavi. C’è Melville che, dopo il fiasco di Moby Dick, si impiegò alla dogana del porto di New York e ci rimase per il resto dei suoi giorni. C’è Henry Roth e la vicenda del suo unico capolavoro, Chiamalo sonno, trascurato per molto tempo da pubblico e critica, tanto che l’autore occupò l’intera vita senza scrivere più una riga, facendo il pompiere, l’operaio, l’insegnante, viaggiando per gli Stati Uniti e finendo a vivere in un campeggio di roulotte, finché il romanzo fu ripubblicato e Roth raggiunse la fama dopo avere smesso di scrivere da trent’anni. Ci sono i pazzi come Rober Walser, che morì in manicomio riempiendo minuscoli bigliettini con un’indecifrabile letteratura, o Guy de Maupassant, che all’apice del successo si trafisse con un tagliacarte credendosi immortale, e terminò i suoi giorni camminando a quattro zampe e leccando l’intonaco dai muri. Poi c’è la schiera dei suicidi a cui Vila-Matas non dedica molta attenzione, perché smettere così è troppo facile. E poi c’è Tolstoj, il mio preferito, forse il più anziano tra gli scrittori che decisero di liberarsi dalla scrittura. Nel 1910 aveva ottantadue anni, ed era probabilmente il romanziere più famoso al mondo. Una notte aprì il diario che compilava da quando era ragazzo, cominciò a trascrivere il suo proverbio preferito (Fais ce que dois, advienne que pourra: “Fa’ quello che devi, succeda quel che succeda”) ma lo interruppe a metà frase. Le migliaia di pagine dei diari di Tolstoj, autore di storie immortali, finiscono così: Fais ce que dois, adv

Dopo la v, decise di smettere di scrivere per sempre. Era perseguitato dalla moglie e dalla scrittura, che riteneva, rispettivamente, una grandissima rompicoglioni e la principale responsabile del suo fallimento morale. Fuggì di casa in piena notte e morì di polmonite una settimana dopo, nella sperduta stazione ferroviaria di Astapovo, per avere viaggiato nell’inverno russo al freddo della terza classe.

Si potrebbe concludere di nuovo con Marcel Duchamp: Le parole non hanno assolutamente alcuna possibilità di esprimere nulla. Nel momento in cui cominciamo a tradurre i pensieri in parole e frasi, va tutto in malora. Oppure con Bobi Bazlen: Credo che ormai non si possano più scrivere libri. Per cui non ne scrivo più. Quasi tutti i libri non sono altro che note a pie’ di pagina, gonfiate fino a diventare volumi. Oppure con Paul Celan:


Se venisse,

se venisse un uomo

se venisse un uomo, al mondo, oggi, con

la barba di luce dei

patriarchi: potrebbe solo,

se parlasse di questo

tempo, solo

potrebbe balbettare, balbettare

sempre sempre

soltanto soltanto.


Enrique Vila-Matas, Bartleby e compagnia

(Traduzione di Danilo Manera, Feltrinelli 2002)

domenica 22 novembre 2009

EMMAUS

Ho fatto resistenza per qualche giorno, prima di prendere Emmaus di Alessandro Baricco. Il motivo cercherò di dirlo dopo. Poi l’ho aperto a pagina 15 e ho letto: Abbiamo tutti sedici, diciassette anni - ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato. Siamo molto normali, non è previsto altro piano che essere normali, è un’inclinazione che abbiamo ereditato nel sangue. Per generazioni le nostre famiglie hanno lavorato a limare la vita fino a toglierle ogni evidenza - qualsiasi asperità che potesse segnalarci all’occhio lontano. Mi è sembrato l’inizio di una storia che mi riguarda, perché è simile alla mia e pure a quella che sto cercando di scrivere, e così ho rotto gli indugi e l’ho preso.

Dunque la storia è questa: ci sono quattro amici, sedici o diciassette anni, cattolici militanti. Suonano in chiesa durante la messa, fanno volontariato coi malati terminali. Non è che loro esistenze siano granitiche come sembrano - il padre di uno è depresso, e la famiglia non può che subire la sua depressione; un altro vuole farsi prete e la madre si dispera; un altro ancora ha una fidanzata con cui pratica un’astinenza disseminata di tentazioni - eppure sono vite di adolescenti come tutti gli altri, solo cresciuti nell’ortodossia religiosa, per cui la tensione che li agita riguarda il sesso, la battaglia tra la propria natura e l’educazione a considerarla peccaminosa, lo smarrimento morale di quando la religione smette di essere una cosa da bambini, e diventa cosa da adulti. Poi nella loro vita irrompe Andre: ragazza ricca, bellissima, androgina e amorale. Ne usciranno tutti con le ossa rotte. Uno morto, uno tossico, uno in galera, e l’ultimo a cantare da solo nel coro della chiesa, perché per avere la storia di un naufragio serve sempre il reduce testimone, quello che si aggrappa a un pezzo di legno marcio e riesce a sopravvivere per raccontarla.

Non ho citato Melville a caso. Il luogo comune su Baricco vuole che sia uno scrittore bravissimo, ma non abbia una mazza da dire. Virtuoso, a volte pirotecnico, ma sterile come un divino esecutore, come quel Novecento che al pianoforte sembrava avere quattro mani, però non aveva mai scritto una riga sua. Io non sono del tutto d’accordo. Baricco mi pare uno scrittore dai due volti. Ho apprezzato molto Castelli di rabbia e Oceano mare, e ho detestato molto Seta e Senza sangue, proprio perché la stessa maestria nell’uso della parola mi conquista quando è al servizio di una storia, di personaggi e vite che spingono per essere raccontati, e mi irrita quando sotto non c’è nulla, solo uno schema narrativo su cui fare esercizi di stile. Ora mi sento di dire che Emmaus appartiene al primo gruppo. È un libro pieno, di cui ha senso discutere. Non è un saggio di violino. Anzi di arpeggi ce ne sono pochi, e Melville c’entra per questo: a chi si domanda quali siano i temi della narrativa di Baricco, a chi lo accusa di girare attorno a un buco, a me viene da dire che il centro dei suoi libri è grande come una casa, ed è l’ossessione. Che sia la pratica della pittura, l’invenzione del telefono, le corse in automobile, il commercio dei bachi da seta, la musica suonata in mezzo all’oceano, in nome di un’ossessione i suoi personaggi rifiutano le regole della loro comunità, rinunciano all’affetto degli altri, scelgono la solitudine e a volte la follia. Qui la balena bianca è Andre, ovvero l’assenza di morale religiosa. Ma a un uomo che si libera dell’unica morale che aveva, che cosa resta? Come i quattro amici scoprono ben presto, quella strada porta alla rovina. E in effetti è così che finiscono tutte le storie di ossessione.

Questa cosa in Emmaus mi piace. È raccontata in modo onesto e mi ha catturato. Poi ci sono alcune pagine sulla religione che mi convincono meno. Lo dico da ex cattolico militante. Il titolo del libro viene dall’episodio evangelico preferito dai ragazzi, quello in cui due viandanti passano una serata in compagnia di Gesù risorto e non se ne accorgono, e alla fine, quando lui si rivela e poi scompare, si chiedono: come abbiamo fatto a non essercene accorti prima? Il senso, da quanto mi pare di capire, sta nell’idea che la fede non sia la risposta luminosa a tutti i dubbi (come tende a pensare l’ateo del credente, scambiandolo sempre per un bigotto), ma che anzi la verità sia ambigua, difficile da comprendere, e la ricerca possa essere alimentata dal dubbio, perché un credente che non dubita è appunto un fanatico, che non mettendo in gioco la sua intelligenza non vale nulla. È un bel concetto, però il mio episodio preferito a sedici anni era quello di Gesù con la frusta che caccia i mercanti dal tempio, o di Gesù che dice al ricco regala tutto ai poveri e seguimi, o di Gesù che difende l’adultera dalla folla inferocita. Allo stesso modo, io da cattolico militante a sedici anni non mi sentivo molto normale, come se per me non fosse previsto altro che essere normale, anzi il contrario: essere religioso significava essere diverso, andare controcorrente rispetto ai miei amici, litigare sui principi. La religione non era una lima con cui piallare le asperità ma anzi era l’asperità più aspra di tutte, quella che mi allontanava dal gruppo. Dunque in Emmaus di chi si parla? Di ragazzi cattolici militanti, nei nostri anni e in una grande città italiana - come sembrerebbe leggendo il romanzo - o di bigotti di provincia negli anni Cinquanta, dove la pratica religiosa era una pialla di normalità? Qui ci sono ragazzi di sedici anni che vanno in ospedale a cambiare il sacchetto a vecchi moribondi. Com’è possibile che si sentano normali? Io quando facevo cose simili - distribuire il pasto ai barboni, spalare fango in città alluvionate - mi sentivo piuttosto un rivoluzionario. La religiosità di Emmaus mi sembra del tutto sbagliata in un libro sull’adolescenza, forse imposta dall’occhio cinquantenne dello scrittore, e secondo me è il difetto più grande del romanzo.

L’altro problema con Baricco è che spesso sembra copiare da qualcun altro. Non è poi una colpa tanto grave: io per esempio ho appena scoperto che uno dei miei racconti preferiti, Boys di Rick Moody, è molto simile a un racconto di Ingeborg Bachmann scritto quarant’anni prima, Adolescenza in una città austriaca. A volte penso che tutta la letteratura proceda per plagi successivi, come la macchina umana che si evolve a piccoli passi, prendendo il meglio dalle generazioni precedenti e aggiungendo qualcosa di suo. In questo caso, c’è un gruppo di ragazzi innamorati di una ragazza, che vive in mezzo a loro ma sembra di un altro pianeta. La ragazza una volta ha tentato il suicidio, e ora, quasi come antidoto a quel desiderio di morte, ha rapporti sessuali con chiunque, famelica di vite altrui. I ragazzi la osservano nell’ombra, così invisibili e simili tra loro che spesso l’io narrante diventa un noi: non importa più chi sono io, siamo noi che osserviamo, ci innamoriamo, subiamo il morso del desiderio, cediamo all’ossessione. Vi ricorda un’altra storia? A me sì: Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, 1993. Poi magari scoprirò che pure Eugenides ha plagiato qualcun altro. Pazienza. Però ho cominciato citando Baricco, e per un mio senso di giustizia letteraria voglio finire con il libro che l’ha ispirato. Se non li avete letti entrambi e siete in dubbio, ecco il mio parere: Emmaus è un buon libro, Le vergini suicide invece è un capolavoro. Viva le sorelle Lisbon e l’ossessione.

***

Non riuscivamo ad immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma. E abbiamo dovuto imbrattarci il muso nelle loro ultime tracce, orme fangose sul pavimento, bauli calciati via, respirare per sempre l'aria delle stanze dove si sono uccise. In fondo non contava quanti anni avessero, o che fossero ragazze, ma solo il fatto che le avevamo amate e che loro non avevano udito il nostro richiamo; non ci odono neanche adesso che siamo quassù, nella casa sull'albero, con i capelli radi e un pò di pancia, e le chiamiamo perché escano dalle stanze in cui sono entrate per trovare la solitudine eterna, la solitudine del suicidio, che è più profondo della morte, le stanze dove non troveremo mai i pezzi per rimetterle insieme.

venerdì 13 novembre 2009

POESIA CHE MI GUARDI

Per troppa vita che ho nel sangue
tremo
nel vasto inverno.


Nessuno, a scuola, mi aveva mai parlato di Antonia Pozzi. Eppure abitava dalle mie parti, in via Mascheroni a Milano. Frequentava il liceo Manzoni dove si innamorò del suo professore di lettere, Antonio Maria Cervi, ma il padre di lei era un uomo potente e riuscì a tenerli lontani. “E tu sei entrata nella strada del morire”, scrisse Antonia quell’anno. Era una figlia della Milano bene, altrimenti non avrebbe potuto studiare e scrivere, da donna, in Italia negli anni Trenta. Amava due cose sopra ogni altra: la montagna e la poesia. La sua famiglia aveva una casa a Pasturo, ai piedi della Grigna, dove lei si rifugiava spesso, ma esplorò le Alpi da occidente a oriente, dalla Val d’Aosta che conosceva bene alle Dolomiti ampezzane, dove arrampicava con l’amico e guida Emilio Comici. Un altro suo amico fu Vittorio Sereni, con cui studiava all’università, e a cui nel 1938 scrisse: “Forse l’età delle parole è finita per sempre”. Morì suicida quell’inverno, a ventisei anni, addormentandosi con l’aiuto dei barbiturici sul prato dell’abbazia di Chiaravalle. Il padre cercò di nascondere le cause della morte, manomettere il testamento e far sparire le lettere di Antonia, che già da qualche anno manifestava i segni di una durissima depressione. Le sue poesie, scritte a mano su alcuni quaderni e fino a quel momento inedite, vennero ugualmente alla luce: e solo allora si scoprì che Antonia Pozzi era stata una delle più grandi poetesse della sua epoca.
A Emilio Comici, che morì poco dopo di lei cadendo in montagna, scrisse:

Si spalancano laghi di stupore
a sera nei tuoi occhi
fra lumi e suoni:
s'aprono lenti fiori di follia
sull'acqua dell'anima, a specchio
della gran cima coronata di nuvole...
Il tuo sangue che sogna le pietre
è nella stanza

un favoloso silenzio.

Al suo sogno d’amore perduto, che nel ricordo si trasfigurò e da uomo di carne e sangue divenne puro rimpianto:

O velo
tu - della mia giovinezza,
mia veste chiara,
verità svanita -
o nodo
lucente - di tutta una vita
che fu sognata - forse -
oh, per averti sognata,
mia vita cara,
benedico i giorni che restano -
il ramo morto di tutti i giorni che restano,
che servono

per piangere te.

Alla scrittura, che fu ossessione e sollievo:

Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,

poesia che mi guardi.

Ora, la regista Marina Spada ha girato un documentario che, più che raccontare la vita terrena di Antonia Pozzi, cerca di catturarne lo spirito. Si intitola Poesia che mi guardi e per un po’ di tempo, dal 20 novembre in poi, sarà al cinema Mexico di Milano. Marina è una mia amica e maestra e mi sarebbe difficile parlare di questo film senza parlare delle cose che so di lei, e di tutto quello che la lega a una ragazza morta più di settant’anni fa. Ha a che fare con la poesia, con il potere della poesia di aprire varchi temporali nelle forme più imprevedibili: la prima volta che sono andato a casa sua c’erano alcuni versi di Majakovskij appesi allo sportello del frigo, probabilmente con una calamita di Paperino, che dicevano: Qui a Leningrado d’inverno non cesserò d’attenderti/ la guardia non smonterò nonostante i ghiacci/ pendano da ciglia e lacrime. Anche Marina monta la guardia da una vita, nonostante il generale inverno. Ha tratto il titolo del suo film Come l’ombra da una poesia di Anna Achmatova: Come vuole l’ombra staccarsi del corpo/ come vuole la carne separarsi dall’anima/ così adesso io voglio essere dimenticata. Ora si capisce meglio? E poi, il suo legame con Antonia Pozzi ha a che fare con la femminilità, con l’affermazione del proprio essere donna e allo stesso tempo artista, con il fare poesia o cinema invece di fare figli. E poi ha a che fare con Milano: gran parte di questo film è girato in città, ed è girato con il naso per aria. Chi è andato a spasso con Marina sa della sua tendenza a sbattere contro i lampioni, perché non bada a dove mette i piedi. Sotto ci sono le macchine, i negozi, i passanti e tutto quello che ci parla della nostra epoca. Sopra c’è un mondo in cui il tempo scorre molto più lentamente: come in montagna, alzando gli occhi si incontra lo sguardo di chi è vissuto qui prima di noi, perché vedeva le stesse terrazze e finestre, gli stessi balconi e camini, gli stessi tetti e le stesse facciate che vediamo noi. È lassù che Marina ha cercato lo sguardo di Antonia.

lunedì 2 novembre 2009

ADDIO A UNA BEAT

Ho letto diversi articoli dopo la morte di Fernanda Pivano. Erano pieni di affetto e ammirazione, ma anche terribilmente simili tra loro. Da quando ero un ragazzino conosco a memoria le sue gesta: nacque a Genova nel 1917 da un famiglia dell’alta borghesia; si trasferì a Torino dove studiò al liceo con Cesare Pavese, che fu il primo responsabile della sua passione per la letteratura americana; si laureò in Lettere con una tesi su Moby Dick, e tradusse Addio le armi quando in Italia era un libro vietato dal regime (perché descriveva in modo realistico la disfatta di Caporetto, e perché il suo autore aveva pubblicato un’intervista a Mussolini ritraendolo come un pagliaccio); fu arrestata dai nazisti e per questo più tardi divenne amica di Hemingway, oltre che sua traduttrice, assistente e forse pure amante; andò a vivere a Milano dove cominciò a lavorare nell’industria editoriale; scoprì i beat e li portò in Italia (sulla carta e in carne e ossa: memorabile è la sua intervista, in diretta Rai, a un Kerouac completamente ubriaco). Da allora divenne un mostro sacro. Se un giovane scrittore americano incontrava l’approvazione della Nanda, qui da noi aveva il tappeto rosso srotolato sotto i piedi. È accaduto a McInerney e alla sua generazione, i ragazzi prodigio degli anni Ottanta che da nessun’altra parte hanno ottenuto successo come in Italia. Questo, più o meno, oltre all’amicizia con De André, è tutto quello che si impara dalle sue agiografie. Libri famosi, nomi famosi, incontri memorabili, date e luoghi. Però Fernanda Pivano chi era, e perché diavolo si è messa a fare quello che ha fatto?

Intanto, bisognerebbe chiedersi che cosa rappresentasse la letteratura americana alla fine degli anni Trenta. Oggi per noi è la cultura dominante, allora era la voce dei nuovi barbari. All’epoca si leggevano i tedeschi, i russi, i francesi. Del Nuovo Mondo non si seppe quasi niente fino all’uscita dell’antologia curata da Vittorini, Americana, del 1942: lì dentro c’erano Hawthorne, Poe, Melville, London, la triade Hemingway-Faulkner-Fitzgerald, e poi Steinbeck, Anderson, Dos Passos, tutti i grandi scrittori emersi dall’altra parte dell’oceano dall’inizio dell’Ottocento. Questa scoperta dell’America avveniva in un ambiente culturale fortemente retorico (avete presente l’idealismo tedesco?), e in un clima politico di controllo e di censura. Erano i tempi dei libri vietati, che bisognava farsi portare da qualche corriere clandestino, e passarseli nelle zone franche delle università. Erano anche i tempi d’oro della nascita dell’Einaudi, in cui tra Torino e le Langhe si stava scrivendo l’epopea editoriale più appassionante del Novecento italiano. Mentre Vittorini curava la sua antologia, Pavese traduceva Moby Dick e un giovane Fenoglio si formava sui poeti inglesi. Di quegli anni la Nanda racconta: Ero una ragazza quando ho letto per la prima volta l’Antologia di Spoon River. Me l’aveva portata Cesare Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. L’aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì”. Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti.

Che cosa c’era a quei tempi nella letteratura americana che non si trovava qui? Io posso solo provare a immaginarlo, con la prospettiva di settant’anni dopo: la letteratura europea, all’epoca, era irrimediabilmente borghese. Era piena di giovani intellettuali, di innamorati depressi o di combattenti esaltati, ma non si parlava molto di emigranti, marinai, disoccupati, reduci di guerra, contadini travolti dalla Grande Depressione, vagabondi che saltavano sui treni, ubriaconi. Chissà che effetto faceva scoprire quel mondo durante la fase più delirante dell’ottimismo fascista, mentre qui si sbraitava sul progresso, la razza, l’impero. Era, credo, la scoperta della libertà di parola.

Non solo. Gli scrittori americani avevano la strana caratteristica di non essere intellettuali. Avevano fatto loro stessi i contadini, i marinai, i soldati, i cercatori d’oro. Erano scrittori immersi nella realtà, e osservavano il mondo che avevano intorno. Ecco, una cosa che si racconta poco di Fernanda Pivano è la sua passione per questa categoria di persone: i disadattati, i marginali, gli autolesionisti, i tossici, gli aspiranti suicidi, l’umanità alla deriva. Forse è lì che affonda le radici il suo legame con De André. La prima volta lui era andato da lei per suonarle le canzoni di Non al denaro né all’amore né al cielo, il disco tratto dall’Antologia di Spoon River, ma aveva lasciato la chitarra fuori dalla porta, perché si vergognava a entrare in casa sua così, facendo l’artista. Erano due genovesi ricchi, anarchici, irresistibilmente attratti dagli sbandati. Dal letame nascono i fiori: bisognerebbe guardare quell’intervista a Kerouac - con la Nanda tutta composta, affabile come una brava padrona di casa, e Jack stravolto dal whisky annacquato, la faccia gonfia e sudata, le risposte biascicate in una pena infinita - ripensando a quel verso. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

Credo sia questo che mi manca adesso. Questo amore libertario, del tutto estraneo ai giudizi morali, che la Nanda provava. È sopravvissuta agli scrittori che ha amato perché loro si sono ammazzati a fucilate, o bevendo, o fumando. Adesso tendiamo ad amare quelli sani. Quelli produttivi e lucidi nella loro visione del mondo. Lei preferiva i sofferenti, quelli che stanno male e quasi sempre muoiono prima del tempo.

Ieri ho rivisto A Farewell to Beat, il documentario del 2001di Luca Facchini. Verso la fine, in una strada piena di sole del Greenwich Village, il regista chiede alla Nanda che cosa vuole fare nella vita, e lei risponde: La puttana! Vi prego, fatemi fare la puttana! Ride come faceva lei, con tutto il corpo, con gli occhi che brillano e quel tintinnare di anelli e collane, e poi torna seria e dice: No, vorrei avere scritto tre righe che la gente si ricorda. Invece non le ho scritte, e forse non le scriverò mai.