domenica 12 giugno 2011

IL CAMPO DI FAGIOLI

Prima ho costruito la panchina. Ho tolto due grosse pietre squadrate dai resti della mulattiera e ci ho appoggiato sopra una tavola trovata nel bosco, grigia per tutta la pioggia e il sole che deve aver preso, le vene del legno in rilievo come sul dorso delle mani dei vecchi. Poi mi ci sono seduto sopra e ho letto il capitolo di Walden sul campo di fagioli: Cosa significasse questa regolare, orgogliosa, piccola fatica, io non lo sapevo. Giunsi ad amare i miei fagioli, sebbene fossero molti di più di quanti me ne occorressero. Mi attaccavano alla terra, e così ne ricevevo forza. Ma perché dovevo coltivarli? Solo il cielo lo sa. Questo fu il mio curioso lavoro per tutta quell’estate: far sì che questa porzione della superficie terrestre, che fino a quel momento aveva dato solo trifogli, more e fiori gentili, producesse invece legumi. Fare che la terra dicesse “fagioli” invece che “erba”: ecco il mio lavoro quotidiano.

Incantato dalle parole di Thoreau, ho osservato il pascolo che scende fino al torrente. Ne ho individuato un pezzetto quasi in piano sotto la fontana: è terra scura, argillosa, concimata ogni anno alla fine della stagione dell’alpeggio. Prende il sole dalle nove di mattina alle otto di sera, e l’acqua per irrigarla è lì a due passi. Così mi sono fatto prestare gli attrezzi e per due giorni l’ho zappata e rastrellata. Ho tolto pietre e strappato radici, scoprendo che quei fiori gentili hanno bulbi poderosi e inestirpabili, nascosti a grandi profondità per sopravvivere al gelo. Ho rivoltato le zolle e le ho sbriciolate con le mani. Poi sono sceso in paese a comprare le piantine: lattuga, spinaci, erbette, porri e coste. Per proteggerle da lepri e caprioli, ho perfino costruito uno steccato con quattro paletti di larice. Ci ho avvolto intorno una rete robusta, ed ero tutto contento di come stava venendo il mio orto di montagna, ma quando alla fine mi sono seduto a contemplarlo il fantasma di Thoreau è svanito, e mi è venuto in mente Il suonatore Jones di De André. Quel pezzo in cui dice che nei campi coltivati dorme la libertà. Di colpo, quelle sei gobbe di terra smossa mi sono sembrate tumuli sepolcrali. C’era la mia libertà seppellita lì sotto. E la libertà dei caprioli. E perfino la libertà del prato. Mi sono un po’ depresso, così ho messo via zappa e rastrello, ho preso il bastone e ho deciso di andarmene a camminare.

Era la prima volta quest’anno che salivo ai laghi e a un certo punto ho dovuto abbandonare il sentiero, perché tutto il versante in ombra era ancora innevato. Mi sono tenuto a sud risalendo i pendii d’erba morta. Nella valle non c’era nessuno: le nuvole basse, la minaccia di pioggia e il vento freddo avevano tenuto lontani i camminatori. Sono salito su un picco e finalmente ho visto il lago, coperto da uno strato di ghiaccio e circondato dalla neve. Da lì non potevo più proseguire. Allora mi sono sdraiato sull’erba e sono rimasto lassù, le mani sotto la nuca, a guardare le nuvole gonfie d’acqua. C’era un odore intenso di terra in disgelo. Sopra di me, i gracchi volteggiavano in stormi sugli alpeggi deserti: sono uccelli onnivori, che possono mangiare insetti, vermi, carcasse di mammiferi, rifiuti di cibo, e forse erano proprio questi che cercavano intorno alle case. Oppure i resti di qualche animale che non aveva superato l’inverno.

Scendendo ho deciso di ignorare il sentiero e andare giù dritto tra le balze d’erba. La montagna è zuppa d’acqua in questo periodo: ho attraversato una torbiera, sono sprofondato in una pozza e poi ho trovato di nuovo un nevaio. Però, con i piedi fradici e la neve che si infilava negli scarponi, ho sentito che stavo recuperando il buonumore. Infine sono capitato in una piccola radura popolata dalle marmotte. Mi ha accolto una selva di fischi e un fuggi fuggi generale. Ce n’era una che sembrava più coraggiosa delle altre: mentre le sue compagne correvano a rintanarsi nel primo buco disponibile, lei indugiava sulla soglia e mi guardava. Allora mi sono avvicinato piano, cercando di non fare movimenti bruschi. Quando sono arrivato a tre o quattro metri è sparita nel buco e io mi sono fermato, ho posato il bastone, mi sono seduto per terra. Ho pensato di cantarle una canzone, e siccome mi girava in testa da tutto il giorno ho scelto proprio De André: In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa. Sono bastati i primi due versi per vedere il suo muso rispuntare dalla tana: mi ascoltava, mi annusava, cercava di capire che razza di nemico ero. Io sono andato avanti a cantare: Sentivo la mia terra vibrare di suoni, era il mio cuore; e allora perché coltivarla ancora, come pensarla migliore? La marmotta ogni tanto tornava sotto, ma più che altro stava lì e mi guardava. E questo chi è? Che cosa sta facendo? Libertà, l’ho vista dormire nei campi coltivati, a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Libertà, l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo, per un compagno ubriaco. Gliel’ho cantata per tre volte di fila, e lei le ha ascoltate tutte. Poi mi sono alzato e la marmotta si è subito nascosta, ho preso il mio bastone e ricominciato a scendere a salti verso casa.