giovedì 25 novembre 2010

I PADRI DEGLI ALTRI

Stamattina ho partecipato a una lezione in università. Studenti di architettura del primo anno. Ero andato a parlare di New York e del mio libro: a raccontare in quanti modi diversi, con quali metodi e sentimenti, si può guardare una città. A un certo punto siamo finiti a parlare del fatto che gli americani si spostano come niente, cambiano casa, lasciano il lavoro, vendono tutto e se ne vanno da un’altra parte. Uno dei docenti ha ragionato sulla necessità, o l’abitudine, o la scelta di non radicarsi in un luogo. Poi ha chiesto agli studenti che cosa ne pensavano. Anzi no, ha chiesto: e voi, se immaginate di mettere su famiglia e stabilirvi da qualche parte, dove vi vedete?
“Qui”, hanno risposto tutti.
“Perché qui?”, ha chiesto lui.
“Perché qui ci piace”, hanno risposto.
Trattandosi di un laboratorio di urbanistica, sono stati invitati a rifletterci meglio e argomentare. Dopo un po’, qualcuno ha detto che per andare via servono tanti soldi. E perdi tutto quello che avevi prima. E se fai dei bambini, ha aggiunto un altro, chi te li tiene? Un terzo ha affermato deciso: i bambini devono stare con i nonni.
“E perché?”, gli abbiamo chiesto.
“Perché i nonni trasmettono i valori che contano, la tradizione”.
La discussione poi è proseguita, ma a quel punto con la testa ero già altrove. Stavo facendo due conti: quelli erano ragazzi nati nel 1990. Erano cresciuti vicino ai loro nonni? Probabilmente sì, mi sono detto. In classe c’erano anche due ragazze arabe, e diversi studenti orientali: chissà che cosa ne pensavano loro. Mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma erano tutti raggruppati in fondo all’aula, timidi, vagamente perplessi. Sentivo di capirli in qualche modo.

Così tornando a casa mi sono messo a pensare a quale occasione storica sia stata crescere a Milano tra gli anni Settanta e Ottanta. Cioè dopo trent’anni di massiccia immigrazione interna. Cioè lontano dai propri nonni, per fortuna (sono una di quelle persone che pensano tutto il male possibile della tradizione: per me non è altro che la tirannia delle generazioni passate su quelle future). Tra i miei compagni di classe, alle elementari, nemmeno uno era figlio di milanesi. I nostri nonni abitavano in Puglia, in Sicilia, in Veneto. I nostri genitori parlavano dialetti pittoreschi. I bambini arrivavano in classe con addosso odori strani, non la verza della cassoeula ma aglio, peperoni, melanzane. A giugno c’era un esodo di massa: la maggior parte di noi passava l’estate al paese. I miei compagni tornavano più selvatici, bruciati dal sole, con il Mediterraneo infiltrato perfino nella lingua. Fuori da Milano pensano che abbiamo tutti lo stesso accento, ma noi che ci abitiamo riconosciamo le sfumature: un po’ di Puglia nelle vocali aperte, un po’ di Sicilia nel raddoppio delle consonanti, si sentono lontano un chilometro. Se andavi a casa di un compagno a giocare, scoprivi mondi sconosciuti. I padri degli altri inneggiavano al Milan gridando minchia o maronna ai gol sbagliati. Le madri friggevano per tutto il tempo. D’estate pranzavano in balcone, in ciabatte e canottiera. Le madri appendevano santini in ogni stanza, i padri soffrivano di una malinconia di fondo che si risolveva solo a ferragosto, quando era l’ora di macinarsi mille chilometri in macchina, in un bagno di felicità e sudore, sull’autostrada del sole. Queste sono le persone della mia infanzia. E il bello è che non pensavo di essere cresciuto in un’epoca particolare: ero convinto che i padri degli altri fossero tutti così, che quella fosse la natura di Milano.

Quando negli anni Novanta è saltata fuori la Lega noi abbiamo pensato: ma questi di chi stanno parlando? Di certo non di noi (e infatti poi abbiamo avuto il primo sindaco leghista della storia). Crescendo ho continuato a incrociare la stessa razza meticcia: alle superiori i miei migliori amici erano un mezzo rumeno e un mezzo siciliano, tornavano dalle vacanze parlando di Bucarest e di Palermo (ma sempre con il nostro accento della fabbrichetta). Con la mia prima ragazza scherzavamo, lei mezza lombarda e mezza piemontese, io mezzo veneto e mezzo emiliano, che insieme avremmo coperto tutto il corso del Po. Per incontrare una purosangue della mia età, milanese di padre e di madre, ho dovuto aspettare i venticinque anni, e per ironia della sorte adesso è la mia compagna (però, a proposito di nonni, la sua le diceva sempre: ti te parl milanés come ‘na teruna. Saranno state le cattive compagnie). Quando mi racconta delle sue domeniche di bambina, la pasticceria con la nonna, il bianchino al bar con il nonno, mi sembra un’infanzia degli anni Trenta. Pensavo che tutti noi passassimo le domeniche alla finestra, davanti alla televisione oppure in macchina, con un vetro eternamente davanti alla realtà, a guardare questa città e chiederci di chi fosse davvero.

Ecco, per dire che oggi mi sono ritrovato a scoprire come sono cambiati i tempi. I ragazzi del 1990 sono figli di padri sedentari, hanno avuto compagni di classe cinesi e arabi, e ritengono che la tradizione sia una cosa importante. Vogliono vivere dove sono cresciuti. È evidente che hanno, avranno, idee diverse dalle mie, che saranno cittadini diversi da me. Però diversi come?

E poi volevo dire un’altra cosa, nel cuore la tua città resta sempre quella che hai conosciuto da bambino. La mia Milano è ancora piena di uomini in canottiera sui balconi. Gente che aveva detto addio a suo padre e sua madre, ed era venuta qui a rifarsi una vita. Allora sembravano buffi e chiassosi, adesso li ammiro. Spero tanto che ne arrivino ancora.

(P.S. del giorno dopo. Stamattina leggo Repubblica e trovo questo articolo:
"I figli sorpassano a destra i genitori, la spinta da maschi e regioni rosse". Uno studio interessante. Era quello che stavo cercando di dire, non di fare nostalgia a buon mercato)

mercoledì 10 novembre 2010

ZELEZNY

(Tanto per riconciliarmi con la città, pubblico anche qui il pezzo uscito questo mese nel magazine di minimum fax. Naturalmente è dedicato a Gabbole, mai nessuno fu più bello da vedere.)


***

Era di nuovo autunno, quello del 1993. Noi lanciatori di città ci allenavamo tre volte alla settimana in un campo sportivo vicino all’aeroporto, tra le piste d’atterraggio e il luna park. Dopo la scuola prendevamo la metropolitana, cambiavamo un autobus e poi un altro, e schiacciati contro il finestrino osservavamo la città diradarsi, dall’architettura fascista di piazza San Babila ai viali dai nomi risorgimentali ai palazzi degli anni Sessanta in cui eravamo cresciuti anche noi, fino ai viadotti ferroviari, i cantieri aeronautici dismessi, le baracche e gli orti abusivi, il grande specchio d’acqua dell’idroscalo. Erano tutte parole di una lingua morta. L’anno prima, a Barcellona, Jan Zelezny aveva vinto l’oro scagliando il suo giavellotto oltre i novanta metri: ogni racconto su di lui sembrava scritto per diventare leggenda, qualcosa a cui pensare durante quei lunghi viaggi verso Linate. Zelezny veniva da una famiglia povera. Zelezny era sopravvissuto facendo il cuoco, il soldato, il meccanico. Zelezny aveva tentato e fallito la fuga, cercando fortuna nel campionato americano di baseball, tornando indietro a mani vuote. Nessuno di noi aveva mai visto la Cecoslovacchia, ma sopra il nostro cielo c’erano nebbia d’inverno, zanzare d’estate e rombi d’aereo durante tutto l’anno: l’Europa dell’est non doveva essere tanto diversa.


Gli allenamenti erano duri e monotoni come esercitazioni militari. Tecnica di lancio, scatti su pista, potenziamento in palestra, esercizi con l’elastico e la palla medica. L’atletica leggera è una disciplina ossessiva, in cui lo stesso gesto viene ripetuto all’infinito alla ricerca della perfezione: ogni passo, salto, lancio, è scomposto in unità di movimento, e ogni movimento va studiato, corretto, calibrato, fino al massimo dell’efficienza, e infine questa sequenza meccanica, eseguita in concentrazione, dev’essere disimparata dalla testa e imparata dal corpo, e diventare fluida, facile, come andare in bicicletta o nuotare. Forza e velocità sono questione di lavoro, ma cosa c’è di più difficile che raggiungere la grazia? Per noi ragazzi allora era un’impresa esistenziale. Avevamo quattordici o quindici anni e corpi che non sembravano più nostri. Ogni gesto ci usciva goffo, le cose cadevano e si rompevano, le dichiarazioni d’amore venivano fraintese. Invidiavamo gli studenti dell’ultimo anno, a cui bastava accendere una sigaretta e soffiare il fumo verso l’alto, scompigliandosi il ciuffo sulla fronte, per illuminare la scena. Noi avevamo capelli tagliati in casa, ossa doloranti per la crescita repentina. E più il corpo si allungava, inciampava e disobbediva, più il perfezionamento del lancio diventava la nostra rivincita, un assalto all’arma bianca contro la crudeltà della natura.




Eravamo in cinque a Linate quell’anno. I pesisti erano due dell’istituto tecnico, entrambi alti, grossi, sopra il quintale, uno moro e loquace e l’altro biondo e taciturno, che stavano sempre tra di loro. Grandi pacche sulle spalle dopo una buona misura, prese di lotta libera a tradimento. Il martellista era il figlio del custode, un ragazzo obeso che per qualche mese aveva cazzeggiato a bordo pedana, fumando e sbeffeggiando i nostri tentativi, prima di unirsi al gruppo. Andava in giro per il campo sportivo con una di quelle biciclette dalle ruote minuscole, che abbandonò dopo essere diventato un atleta: arrivava prima di tutti, se ne andava per ultimo, bestemmiava in pugliese stretto quando la palla di sette chili moriva impigliata nella gabbia. Il discobolo era il mio migliore amico. Indolente, spaccone, sempre in ritardo, preferiva le chiacchiere dello spogliatoio e le sedute in palestra, a sfidarci io e lui alla panca, piuttosto che i noiosissimi esercizi di tecnica e il freddo umido che inzuppava le ossa. Però era un esteta degno di Mirone. Altri lanciavano più lontano, lui era convinto di lanciare meglio. Sosteneva che gli sarebbero bastati un po’ più di chili e muscoli, per sbaragliare i muratori bergamaschi che erano i suoi avversari abituali. Ma come in tante altre cose non aveva la costanza di applicarsi. La fatica lo annoiava. Forse avrebbe dovuto allenarsi davanti allo specchio, come i pugili e le ballerine, rapito dalla contemplazione del suo talento sprecato.


A me avevano dato il giavellotto perché ero leggero e veloce, e tra tutti è l’attrezzo che richiede meno forza bruta. È anche quello che va più lontano: Zelezny lo scagliava a novantotto metri, in pratica dall’altra parte dello stadio. Io puntavo a meno della metà per essere ammesso ai campionati italiani. Per un po’ fu il mio attrezzo del mestiere, l’oggetto più familiare per il mio corpo in piena metamorfosi: e ancora adesso, se mi concentro, sento nel palmo della mano l’impugnatura di corda, la lunga lancia in equilibrio sulla spalla prima della rincorsa, le punte del pollice e dell’indice che si toccano, l’odore dell’erba.




Per ognuno di noi, l’allenatore aveva recuperato il video dell’oro olimpico, stampato ogni fotogramma su un foglio A4 e appeso i fogli in fila sul muro dello spogliatoio. Un secondo perfetto, frammentato in una ventina di istantanee, come un’esplosione al rallentatore. Così cambiandomi studiavo i gesti di Zelezny a Barcellona, li mimavo uno per uno, cercavo di impararli a memoria per poi rimettere insieme l’intero movimento. I passi fondamentali del lancio del giavellotto sono gli ultimi tre, ed è una specie di balletto che sapevo danzare a occhi chiusi. Li ripetevo alla fermata dell’autobus, nel corridoio di casa. Piede sinistro, destro, sinistro. Il braccio è teso indietro, in linea con le spalle; la schiena leggermente arcuata. Quando il piede sinistro si blocca, l’energia cinetica accumulata nella rincorsa percorre la gamba destra, sale attraverso la rotazione del ginocchio e dell’anca, fa scattare la schiena come una fionda e poi arriva alle spalle, e poi bum, l’esplosione. C’era il sibilo del giavellotto nell’aria, e quel tempo che sembrava infinito prima che si conficcasse per terra, quaranta metri più in là, vibrando come un diapason.




Non ho mai trovato un gesto che mi venisse più naturale. Anche da bambino non facevo che lanciare le cose. C’erano certi pomeriggi in cortile in cui nessun sasso o ramo o lumaca poteva sfuggire alla cattura e al decollo. O domeniche di silenzi cupi, il mormorio della televisione in salotto, il tintinnio dei piatti in cucina, ma il bambino sul balcone, quello che bombardava uccelli e macchine e qualsiasi oggetto in movimento nella città addormentata, quel bambino taciturno e spietato ero sempre io. Ero cresciuto in un palazzo di otto piani sulla circonvallazione: bastava sporgere una mano e aprirla e tutto cadeva giù, nel fiume stanco di auto dai fanali accesi.


L’aerodinamica e la trigonometria, studiate la mattina a scuola, in pedana diventavano argomento di dibattito. Uno tende a lanciare troppo in alto se nessuno gli insegna la giusta inclinazione. Poi bisognerebbe considerare la direzione del vento, e anche in questo caso il buon senso inganna: nelle gare di velocità, nei salti, le misure vengono annullate quando c’è troppo vento a favore; con i lanci succede l’opposto, è il vento contrario a far decollare un aeroplano. Dunque si trattava di prendere un giavellotto dal mazzo - e c’era sempre il tuo preferito, quello blu, appena più lungo e sottile, spuntato per essere atterrato sul cemento chissà quante volte - e percorrere la pedana fino al punto segnato col gessetto. Lì cominciava la rincorsa misurata tante volte, quei venti metri che erano l’unico spazio al mondo soltanto tuo. Sentire il vento: se soffia sulla nuca bisogna lanciare più in alto, se soffia in fronte più in basso. Respirare. Non pensare più ai gesti a quel punto, fidarsi del corpo, lasciarlo fare. Pensare a Zelezny e ai cieli di Jena in Cecoslovacchia e partire. Tutto il lancio durava un niente. Il giavellotto saliva su, sempre più su, nel vento contrario.