lunedì 2 dicembre 2013

RITORNO A GOTHAM

   (Ecco l'inizio di un nuovo progetto, o la continuazione di uno vecchio. Dedicato ai due fratelli che mi accompagnarono in quei primi giorni: quello che mi spiegò i nomi degli alberi, quello che mi regalò la bici. Grazie a tutt'e due.)

   Uscire dalla porta dell'aereo, di nuovo in città dopo due anni e dritto dalla montagna, è come aprire gli occhi dal sonno e strizzarli alla luce. Non c'è un mese migliore di ottobre per tornare a New York. Il sole del pomeriggio mi manda indietro nelle stagioni fino a un'estate che ormai credevo esaurita da un pezzo, sepolta sotto i maglioni di lana e la prima neve che ho visto cadere partendo. Per via del paesaggio che ho avuto intorno fino a poco fa, appena sbarcato mi sorprendo a osservare non la distesa placida del Queens, né il profilo di Manhattan che vibra all'orizzonte, ma il gran cielo della costa atlantica, le sue nuvole basse e come schiacciate da un peso, la striscia di mare che costeggia l'aeroporto. Sotto i binari della sopraelevata con cui mi avvio in città diventa una zona paludosa: l'avevo mai notata prima? Ed è un airone quello che vedo posarsi tra le canne della riva, accanto a un mucchio di pneumatici incagliati nel fango? Mi ricordavo, sì, di questi atti di guerriglia della natura newyorkese - l'edera sui pali della luce in legno, i gatti randagi nei lotti abbandonati - il suo inselvatichire la città appena volta lo sguardo, e dove è più facile che si distragga. Cerco i nomi degli alberi, camminando verso casa dalla metropolitana. Riconosco l'acero dalla foglia a cinque lobi e il platano dalla corteccia che si stacca come una crosta, lasciando macchie chiare nel tronco. E poi, all'angolo tra Court Street e Carroll, perfino un abete argentato. Oggi non è un abete ma un messaggio per me - è la montagna che mi saluta dopo avermi accompagnato fin qui, come si affida un amico alla sua nuova casa. Chi l'avrebbe mai detto: non le facciate delle brownstone né le zucche di Halloween sui davanzali, ma gli alberi dei giardini di Brooklyn questa volta mi danno il bentornato in città.

   Nel cortile sotto casa c'è un fico. Esco a bere la mia birra rituale sulla scala antincendio e ritrovo le piscine gonfiabili, il sapore della Brooklyn Lager, gli steccati dipinti di fresco e i giocattoli dei bambini. Ma il fico non me lo ricordavo: come c'è finito qui? È proprio vero che non cambiano le cose ma solo gli occhi con cui le guardiamo. Così, in un certo senso, passo i primi giorni a confrontare i cambiamenti del quartiere e i miei. Una volta lo giravo a piedi, ora preferisco la bicicletta: nell'euforia per questa estate d'ottobre ne compro una usata con cui andare a zonzo, a fare il conto degli amici dispersi e registrare le novità. Cose che prima non c'erano: un buon numero di negozi e ristoranti, così tanti bambini e scuolabus, le piste ciclabili. Cose che non ci sono più: la casa con le statue dei santi alla finestra e le due vecchie sorelle che ci abitavano; l'emporio all'angolo tra Union e Hicks Street, quello aperto tutta la notte con il commesso che dormiva sul bancone; i capannoni industriali a sud del ponte e i moli dismessi. Lì stanno costruendo un parco. Si chiama Brooklyn Bridge Park e ha l'aria di essere destinato a diventare un posto magnifico, affacciato com'è su Manhattan e il fiume. Lo scopro una domenica, pieno di gente. Avevo mai visto tanti arabi a Brooklyn? Libanesi e siriani di Atlantic Avenue grigliano spiedini d'agnello accanto ai banchi di frutta e verdura dei coltivatori locali, il mercato di cui avevo trovato il volantino. L'altra novità è la Freedom Tower al di là del fiume, dove una volta c'erano le Torri Gemelle, ma impiego poco a decidere che non mi piace. È fredda e ostile, mi trasmette tutt'altro che un'idea di libertà. Cose che sono rimaste uguali: continuo a preferire questa riva del fiume a quella, questi uomini dai baffi folti, queste donne velate, questi ragazzi e le loro bancarelle a quelle torri di vetro di cui non riesco a cogliere l'anima. Avevo una mezza idea di attraversare il ponte in bici, oggi, ma decido di rimandare. Mi ci vorrà un po' di tempo anche questa volta per fare pace con l'isola.

   Compro un libro sulla cucina degli immigrati d'inizio Novecento, e un altro sulle autoproduzioni alimentari di questi anni. Comincio a raccogliere idee per un discorso su New York e il cibo. Sarà senz'altro la storia di un'ossessione: questa città non fa che mangiare tutto il tempo, perciò bisognerà indagare la natura della sua inestinguibile fame. Prima, penso, dovrei occuparmi della materia prima - il pane e il vino di New York che cosa sono? Poi dei suoi otto milioni di affamati. Seguendo una traccia partita dal farmers market scopro un fenomeno dilagato mentre non c'ero: sui terrazzi e nei cortili, nei parchi pubblici, perfino nei giardinetti di quartiere, sono spuntati centinaia di orti urbani. Ne visito uno grande come un campo sotto le case popolari di Dwight Street, palazzoni di dodici piani ai cui piedi si coltivano lattughe, cavoli, carote, cetrioli, tutta la verdura d'autunno che tra qualche giorno sarà raccolta e distribuita tra gli abitanti. Imparo anche che l'agricoltura urbana non è una pratica inedita a New York - anzi, si potrebbe riscrivere la storia della città attraverso quella dei suoi orti, che scompaiono nei periodi di benessere e ricompaiono con le crisi: è successo negli anni Settanta così come durante la Depressione, e prima ancora nell'epoca che il mio libro chiama Age of Migration, il quarantennio a cavallo tra Otto e Novecento in cui dall'Europa sbarcarono milioni di immigrati. A quanto pare erano italiani i contadini più industriosi. Sfruttavano qualsiasi terreno libero, in una città che intanto veniva furiosamente edificata, e alla peggio si arrangiavano sui tetti di casa, riempiendo scatole e barattoli con la terra portata via dai cantieri. Così le loro finestre si riconoscevano per il basilico sul davanzale, e i loro cortili, quando ne avevano uno, per un albero che, con il tempo, diventò una specie di bandiera. Ne leggo il nome con stupore: quell'albero era il fico. Possibile che sia una coincidenza? La pianta che ho sotto la finestra non ha certo un secolo, ma secondo Bob, mio amico e padrone di casa, il fico era già lì quando lui è arrivato, una trentina d'anni fa, ed è sicuro che allora ci abitassero degli immigrati, perché ricorda non solo gli orti ma anche le galline e i conigli allevati nei cortili. Il che, a suo parere, riduce le possibilità a due: erano italiani o portoricani. Ora che ci pensa, gli torna in mente perfino una capra. Te lo immagini?, dice ridendo. Adesso vedi le sdraio e le piscine gonfiabili, allora erano capre e galline.

   Di mattina dal mio letto ascolto le sirene delle navi. Per colpa del fuso orario è già da un pezzo che mi giro e mi rigiro, sperando di riuscire a dormire ancora un po' prima che faccia giorno. Poi però si sente questo fischio lungo, inconfondibile: in molti quartieri te ne puoi anche scordare, che New York è un porto, ma dove abito io vieni svegliato dai mercantili in partenza, e basta salire sul tetto per vederli prendere il largo. Allora mi alzo, come per un senso di solidarietà verso i marinai in servizio. Mentre aspetto il caffè mi affaccio alla finestra, a osservare il mio fico e i cortili di Brooklyn che una volta erano campi e pascoli. Se il cibo è il legame dell'uomo con la terra, mi dico, allora la mia indagine dovrebbe riguardare questo: i modi in cui le persone si sono impossessate della città, o ne sono state respinte, e i modi in cui la città le ha affamate o nutrite. Tra loro mi ci metto anch'io, non è una posizione più giusta? Non dovrei dire loro, dovrei dire noi. Ci conquistiamo un fazzoletto di terra dove affondare le nostre radici, e subito dopo cominciamo a chiamarlo casa.
   Poi prendo la bici ed esco. C'è un bar a Red Hook dove vado spesso, nelle mattine di sole, solo perché mi piace stare un po' davanti al mare prima di fare qualsiasi altra cosa. È nascosto tra gli imponenti, monumentali magazzini di mattoni rossi del tardo Ottocento, conservati con un rispetto per nulla newyorkese, o forse dimenticati per loro fortuna, chissà. Da fuori ricordano i porti del Nord Europa e l'età dell'oro della marina mercantile, ma dentro vanno via via trasformandosi in laboratori e gallerie d'arte, oltre che negli immancabili ristoranti e nei bar come il mio. Anche se in realtà è solo l'angolo di un supermercato: entri dal reparto ortofrutta, superi corridoi di scatolette, arrivi alla caffetteria e da lì puoi uscire a fare colazione in una specie di veranda sul retro. La veranda è affacciata verso sud, così Manhattan rimane alle spalle e tutto quello che si vede è la baia, l'atollo su cui è piantata la Statua della Libertà, la lunga costa industriale del New Jersey e quella più verde di Staten Island, e poi il ponte di Verrazzano che la collega con Brooklyn. Ora l'acqua è più pulita di un tempo e il viavai di battelli e navi molto meno caotico, e tra i motoscafi della polizia e le petroliere capita perfino di vedere qualche barca a vela. Oltre il ponte c'è l'oceano aperto. Ma è difficile notarlo se non lo sai, è solo un breve tratto di mare nella foschia: sembra un punto dell'orizzonte senza nessuna importanza, non si direbbe che siamo arrivati tutti da lì.

   (fotografia di Luisa Romussi)

martedì 5 novembre 2013

BALLANDO A NOTTE FONDA

    (Racconti, sempre racconti: esce in questi giorni l'ultima raccolta di Andre Dubus, pubblicata nel 1996 e finalmente portata in Italia da Mattioli 1885, come il resto della sua opera. Dubus è un maestro dimenticato e per fortuna riscoperto, il cui lavoro è vicino a quello di Richard Yates, o di Tobias Wolff, o di Charles D'Ambrosio - scrittori di ritratti, mi verrebbe da definirli, ma mi propongo di riparlarne in un discorso più lungo. Per il momento è stato un onore scrivere la prefazione a questo libro.)

     Andre Dubus amava molto un racconto di Hemingway, ambientato in Italia nel 1917 e intitolato "In un altro paese". E' la storia di un gruppo di reduci ricoverati a Milano, dopo essere stati feriti sul fronte austroungarico. A un soldato americano è saltato per aria un ginocchio, e la sua gamba non si piega più; un altro ha il volto sfigurato e nascosto sotto un velo nero; un altro ancora è un maggiore italiano con una mano ridotta a un moncherino. Vengono curati con metodi sperimentali, alla cui efficacia nessuno sembra credere davvero, ma è un modo come un altro per ammazzare il tempo: di sera vanno in osteria, dove gli italiani stanchi della guerra insultano loro e le loro medaglie, e di giorno si ritrovano in ospedale. Qui il soldato americano stringe amicizia con il maggiore, che si mette in testa di insegnargli la grammatica facendo conversazione. Finché un giorno il maestro va su tutte le furie dopo avere scoperto che l'allievo ha intenzione di sposarsi, una volta tornato in patria: se un uomo non vuole perdere qualcosa, gli ripete ossessivamente, non dovrebbe mettersi nella condizione di poterla perdere; altrimenti è sicuro che la perderà. Ma perché dovrebbe perderla?, chiede il soldato. Perché la perderà!, grida il maggiore. Non sta parlando di una mano né di un ginocchio né di un naso: è appena rimasto vedovo, come leggiamo poco dopo, e non riesce a darsi pace. Per un momento cede perfino al pianto. Alla fine si ricompone e chiede scusa per essersi lasciato andare. Da quel giorno continua a presentarsi in reparto ma senza parlare più, solo limitandosi a guardare fuori dalla finestra. E' l'ultima riga del racconto: dove capiamo che l'altro paese del titolo non è l'Italia ma un diverso tipo di terra straniera, quella desolata e buia in cui ci inoltriamo dopo avere subito una grave ferita dello spirito.
     E' lo stesso paese in cui abitano i personaggi di Dubus. Tutti, uomini e donne, si portano dietro una mutilazione. Se la sono procurata in guerra, o nel matrimonio, o durante l'infanzia. Alcuni la nascondono bene, e solo osservandoli attentamente si riesce a notare una leggera zoppia, una mano sempre tenuta in tasca; altri girano con un velo sul volto e allora è proprio impossibile non chiedersi quale ferita ci sia sotto. I più disperati sono quelli che stanno scontando i loro peccati - un adulterio, un atto di violenza, una vigliaccheria, una scelta sbagliata che poi si è rivelata cruciale - e perciò vivono nel rimorso e non riescono a smettere di guardarsi indietro. Noi però li incontriamo quando tutto è già successo, e questo a me pare il più serio motivo per cui Dubus è sempre rimasto fedele alla forma racconto, che è una forma aperta e permette di cominciare dopo che una tragedia si è ormai consumata, lasciarla indietro, occuparsi piuttosto di ciò che rimane. A lui interessava quel dopo, l'altro paese in cui vivono i suoi personaggi smarriti, che hanno perso tutto o quasi.
     Come si curano, o provano a curarsi, questi uomini e queste donne? Di solito con un nuovo amore. Che è un amore guardingo e sospettoso, un amore che ha imparato la lezione del maggiore: se non vuoi perdere non metterti nella condizione di farlo, se non vuoi altro dolore stai lontano dal campo di battaglia. Naturale che non regga, un amore così. Alcuni allora decidono di tagliare prima, non presentarsi all'appuntamento: sempre meglio una ferita pulita, disinfettata e nascosta dalle bende, che una ferita offerta a chi può riaprirla e farla sanguinare. Oppure no? Non è la fiducia il principio di ogni possibile guarigione?
     Dubus non dava risposte certe. Diceva di aver pensato per anni, e di averlo spiegato mille volte ai suoi studenti, che il racconto di Hemingway parlasse dell'impossibilità della cura. Poi gli era accaduto di restare invalido lui stesso, e aveva cominciato a leggerlo in un modo un po' diverso. A notare cose che prima non notava. Per esempio il rapporto tra i soldati: è vero che nessuno di loro crede nella terapia, però almeno si danno ascolto a vicenda, e quanto vale un compagno disposto a ricevere la tua storia? E poi il maggiore: un uomo così potrebbe facilmente tirarsi un colpo in testa, è quello che ci aspetteremmo da lui; invece ogni mattina si alza, va in ospedale e fa gli esercizi che un medico gli dice di fare. Perciò forse, pensò Dubus, è un racconto che parla di gente che prova a guarire. Ci prova come può, però ci prova. E con quell'idea in testa scrisse i suoi ultimi racconti, contenuti in questo libro. Se c'è chi scrive per turbare i giusti e chi per consolare gli afflitti e i peccatori, io direi che Dubus scriveva per dare coraggio a chi ha paura. A quelli terrorizzati da tutti gli sbagli che devono ancora fare. Ogni sua riga mi sembra piena d'affetto verso di loro.
     C'è un finale ricorrente nelle sue storie, che a noi lettori di racconti ricorda Salinger più che Hemingway, e un altro soldato ferito che non chiudeva occhio da giorni. Era il Sergente X, distrutto da ciò che aveva visto in guerra. Poi la lettera di una ragazzina, la sua inaspettata dolcezza, gli faceva venire un gran sonno come per incanto. E lui lo accoglieva pensando: prendi un uomo che abbia veramente sonno, Esmé, e avrai un uomo che ha ancora la possibilità di guarire. Così si addormentano gli insonni di Dubus, come deponendo le armi con cui non smettono di torturarsi, chiudendo gli occhi sul male commesso e affidandosi finalmente alla vita che deve ancora arrivare.


sabato 12 ottobre 2013

TOO MUCH HAPPINESS


Sono giorni di festa per noi lettori di racconti. Chi l'avrebbe mai detto: il Nobel per la letteratura a una narratrice che, in vita sua, non ha scritto nemmeno un romanzo. Certo che per ottenerlo Alice Munro ha dovuto lavorare parecchio: circa centocinquanta racconti scritti in quarantacinque anni di carriera, al ritmo di tre o quattro all'anno, senza fermarsi mai. Nel più vecchio, "Walker Brothers Cowboy", parlava di suo padre e di se stessa bambina, proprio come negli ultimi usciti l'anno scorso, nel libro che ha dichiarato essere il suo addio alla scrittura. Ma in fondo per tutta la vita ha scritto di fughe e ritorni. E ora mi piace ricordare che quando ha esordito lei, nel 1968, Raymond Carver faceva le pulizie di notte in un ospedale, il più delle volte ubriaco, e Grace Paley manifestava contro la guerra in Vietnam per le strade del Village, e adesso che entrambi sono morti da tempo questo premio è anche per loro due, che della Munro sono stati fratelli. E per le sue maestre del sud, Flannery O'Connor e Carson McCullers, e tutti quelli che hanno scelto di scrivere storie di poche parole. "Spero che questo premio faccia vedere alla gente il racconto come una forma importante d'arte", ha detto la Munro, "non solo qualcosa con cui giocare in attesa di avere per le mani un romanzo". Come gli altri, ha sempre sostenuto di essere stata costretta a scrivere racconti, perché non aveva tempo. Che è una battuta ma suggerisce quale sia il suo rapporto col mondo: c'è troppa vita là fuori per chiudersi in una stanza a meditare, e di quella vita i suoi racconti traboccano come bricchi del latte lasciati sul fuoco. Un critico americano ha detto che, più che nei quattordici libri in cui sono stati raccolti, stavano bene sulle riviste in cui via via uscivano, sulle colonne del New Yorker: tra un reportage da un paese in guerra e un'inchiesta di costume, come se il racconto non fosse solo un brano di prosa ma un altro tipo di informazione sul mondo, un modo di capirlo meglio; e che tra le informazioni respirasse, le nutrisse e ne fosse nutrito. E' proprio così: un buon racconto ci informa su come si sta sulla terra. "L'obiettivo della mia scrittura è sempre stato offrire una rivelazione su cos'è davvero la vita. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così. Perché è la reazione che ho io davanti alla scrittura che amo di più. Una sensazione di meraviglioso sbalordimento. E di gratitudine per aver visto la vita in modo così intenso, attraverso la scrittura". Forse per questo la sua ultima raccolta si intitola "Dear Life", come la lettera d'addio di qualcuno che l'ha amata molto.

Osservata dalla fine, è la coesione del suo lavoro che fa impressione. Si parla a volte di "romanzi di racconti", e anche tra le raccolte della Munro ce n'è qualcuna che potrebbe esser letta così (tanti citano un titolo, "Lives of Girls and Women", che in certe sue bibliografie passa per romanzo; io ci aggiungerei "Chi ti credi di essere?" e "La vista da Castle Rock"), però a me sembra che qui la questione perda di significato. Tutti i racconti di Alice Munro dialogano tra loro. Quelli vecchi aiutano molto nella comprensione di quelli nuovi, quando ritrovi per esempio un padre allevatore, una matrigna efficiente e volgare, una figlia divorziata ed eternamente in crisi, un paese che è sempre lo stesso pur cambiando ogni volta nome, e ti sembra di rincontrare dei vecchi amici nelle loro vecchie case. E' come un unico enorme edificio: centocinquanta racconti connessi in un mosaico, al punto che distinguere tra le tante raccolte un giorno non avrà più importanza, com'è successo con Cechov, con la O'Connor, con tutti i bravi scrittori di racconti. Faulkner aveva fondato la contea di Yoknapatawpha, cuore di un immaginario stato del sud, per avere un luogo in cui ambientare racconti e romanzi, e nel caso di Carver fu un critico a ribattezzare Carver Country quella parte di midwest tutta villette, motel e disperazione; con altrettanta legittimità oggi potremmo prendere una mappa d'America, guardare a nord e trovare il paese di Alice Munro. A me non pare molto importante definirne i confini politici (è Canada, ma se fosse Michigan o Minnesota cambierebbe qualcosa? La lingua, la cultura, il paesaggio, le storie delle persone? Ha senso parlare di letteratura canadese, o non è piuttosto un'unica tradizione nordamericana?). E' un territorio sterminato fatto di laghi e boschi, e campi, fattorie, silos di cereali, ogni tanto un paese e molto più raramente una città, che sono sempre Toronto, all'est, e Vancouver all'ovest. Questo paesaggio nei racconti non è scenografia ma personaggio: vivo, misterioso, generatore di conflitti e movimenti narrativi. La campagna è l'infanzia da cui scappare e molto più tardi il ritorno alle origini, un ritorno che non dà pace ma pone domande, scoperchia segreti, riapre ferite. La città è una liberazione in gran parte fallita, come falliscono i matrimoni e certe lotte personali, lotte per cambiare se stessi prima che il mondo intorno. Detto per scherzo ma poi neanche troppo: il primo marito di Alice Munro faceva il libraio, il secondo invece era un geografo. E di geografia, geologia, botanica sono fitti i suoi racconti, le sue donne tese a osservare il paesaggio che hanno intorno, a interrogarlo, a cercar di capire dove sono e come ci sono arrivate. Ogni volta che ricominci, che leggi la prima riga di una delle sue storie ti ritrovi lì. Preferibilmente tra gli anni Cinquanta e Settanta, perché Munro Country non è solo un luogo ma un'epoca - anch'essa fatta di rivoluzioni e restaurazioni, fughe e ritorni. Io non sono mai stato da quelle parti e sono nato subito dopo, eppure, come mi succede con pochi grandissimi scrittori, sento che quello è anche il mio mondo, lo conosco così bene che potrei partire adesso e andare ad abitarci.

In questi due giorni ho letto moltissime inesattezze, diverse contraddizioni e qualche bugia bella e buona. Immagino sia normale se uno scrittore vince il Nobel e un giornalista che lo conosce poco deve buttare giù un articolo in fretta e furia. La lingua di Alice Munro è ridotta all'osso oppure elaborata ed elegante? (la seconda) Ha scritto, incredibilmente, centocinquanta racconti della stessa lunghezza oppure uno è di quindici pagine, un altro di settanta? (la seconda) Il narratore è sempre onnisciente, il protagonista sempre una donna, il Canada sempre sorveglia immenso e glaciale? (va be', avete capito) Non importa. A chi l'ha amata da quando ha imparato a leggere starà per forza sulle balle chi ne sa poco e parla troppo, però un paragone è giusto, e infatti prima dei giornalisti l'ha proposto Cynthia Ozick quando ha detto che "Alice Munro è il nostro Cechov" (tra l'altro la Ozick è un'ebrea statunitense, dunque anche per lei non è un problema chiamare "nostra" una scrittrice canadese). Come per Cechov, anche per la Munro un racconto è sempre il tentativo di arrivare a una verità, far luce in una zona buia. Capire un po' meglio com'è fatta la vita. Sbalordirsi di fronte alla sua meraviglia segreta.

Infine, da appassionato sostenitore dell'editoria indipendente, mi pare doveroso ricordare chi ha portato Alice Munro in Italia. La prima fu la casa editrice Serra e Riva: fondata nel 1977, e dedicata ad autori di lingua inglese sconosciuti o dimenticati, pubblicò "Il percorso dell'amore" nel 1989. Ma soprattutto fu La Tartaruga, storico editore femminista milanese, a diffondere la Munro qui da noi negli anni Novanta: "La danza delle ombre felici" (1994), "Stringimi forte, non lasciarmi andare" (1998), "Segreti svelati" (2000). In mezzo ci fu anche un'edizione e/o di "Chi ti credi di essere?" (1995). Poi dal 2001 Einaudi ha intrapreso un percorso di ripubblicazione dell'intera opera, tutta tradotta magnificamente da Susanna Basso, la cui lingua è per noi lettori di Alice Munro un po' come la voce di Ferruccio Amendola per i fan di Robert De Niro. Ne mancano ancora tre - due vecchie raccolte e l'ultima - e speriamo di vederle presto in italiano. Non so se ce ne saranno altre. La Munro aveva detto basta la prima volta nel 2010, poi ci ripensò, riprese a scrivere e da allora ha pubblicato ben due libri. Nel 2012, dopo "Dear Life", ha ribadito con più convinzione che quelle sono le sue ultime storie. Non è che a ottantadue anni si senta stanca: è che, ha detto, non è più disposta alla solitudine necessaria alla scrittura. Ha perso da poco il marito, e ha voglia di passare gli anni che le restano in compagnia delle persone che ama. Come non capirla? Solo chi non le vuole bene potrebbe rammaricarsene. Auguriamole piuttosto buona vita, e grazie per tutte quelle bellissime storie.

martedì 16 luglio 2013

SETTE PADRI AMERICANI


per Alice, Charles,
Ernest, Peter, Ray,
Richard e Toby

Tuo padre e la sua macchina sembravano una cosa sola. Preferiva le Chevrolet. Parlava dell’Ovest in cui era cresciuto come dell’unica America ancora intatta: dove un uomo poteva avere tutto lo spazio che gli serviva, e una macchina per attraversarlo da parte a parte. Conservi una foto di lui a ventidue anni, appoggiato al cofano di un furgoncino Ford, una sfilza di persici gialli in una mano e una bottiglia di birra nell’altra: fissa l’obiettivo con aria di sfida, come se facesse a gara con qualcuno, ma è il sorriso che lo tradisce, l’impacciata spavalderia di quell’età. La birra è una Bud. Per tutta la vita, senza troppo successo, tuo padre ha cercato di sembrare un duro.
Tuo padre e le sue chiacchiere da imbonitore. Discorsi seri, da uomo a uomo, su argomenti che magari eri troppo piccolo per capire, ma un giorno eccome se gli avresti dato ragione. Ogni tanto ti chiedevi se non stesse parlando da solo. Se accennava a tua madre la chiamava proprio così: tua madre. L’umore di lei oscillava tra il poco arrabbiata e il molto arrabbiata con lui. Una volta che era poco arrabbiata lasciò che tuo padre ti portasse a sciare, alla vigilia di Natale, a patto di essere a casa per cena: soltanto che, nella neve del pomeriggio, lui trovò una qualità rara e preziosa che lo spinse a un’ultima discesa, e poi a un’ultima ancora, e poi a un’ultimissima. Nel frattempo nevicò così tanto che la polizia chiuse la strada. Questa tua madre non me la perdona, disse tuo padre davanti alle transenne. Dovevamo partire prima, commentasti tu, piccolo petulante. E allora come ne uscì, tuo padre, vedendosi preso in mezzo tra una donna e un ragazzino, entrambi convinti di essere più saggi di lui? Oltrepassò il cartello di divieto, spostò le transenne e si fece tutta la discesa nella neve fresca. Tu non lo fare mai, ti disse, capace di darti una lezione anche mentre infrangeva la legge. I bordi della strada non si vedevano più. Sulla neve sembrava di planare. Magari era un irresponsabile, però bisogna ammetterlo, che guidatore: sensibilissime le dita sul volante, leggerissimi i piedi sui pedali.
Tuo padre, l’affilatore di lame. Ricordi il gesto di pulirsi la mano sui calzoni, prima di stringerla ad altri. La bottiglia di whisky da quattro soldi nascosta sotto il lavandino. Davanti alle bizzarrie del mondo, lo stecchino di tuo padre passava da un angolo all’altro della sua bocca mentre lui considerava i modi in cui la gente si rovina. Aveva un amico giù alla segheria che possedeva uno stagno, e si era comprato un barile di trotelle con l’idea di allevarle e rivenderle ai pescatori: solo che a quelle trote finì per affezionarsi troppo. Era uno la cui moglie si vedeva spesso in giro, e forse questo c’entrava. Cristo, guarda che roba, disse tuo padre, quando ti portò a pescare allo stagno del suo amico, e l’acqua ribolliva di pesci. Gli consigliò di tirarne fuori un po’ se voleva far crescere gli altri, e quello in risposta prese il fucile e vi cacciò da casa sua. Tuo padre scosse la testa e non ne parlò mai più - erano le cose che non capiva, oltre al whisky cattivo, quelle che alla fine l’avrebbero ammazzato.
Tuo padre e suo padre: eccone un’altra di cui non parlava mai. Hai una foto di loro due di spalle sulla riva del lago Michigan. Lì tuo padre non è che un ragazzino. Tuo nonno invece è appena tornato dalla guerra, quella grande, e ora indica qualcosa all’orizzonte: forse spiega a tuo padre quant’è profondo il lago, forse gli elenca le città dal nome indiano sull’altra sponda. In casa ha ripreso subito il suo trono a capotavola. Con la mano sinistra indica, ma con la destra stringe il collo di tuo padre, e quella stretta è una morsa. Non sa che, mentre lui era nel Pacifico, suo figlio ha segretamente sperato che non tornasse. Anche se a scuola disegnava suo padre a bordo di una corazzata e scriveva: Giapponesi attenti, arriva papà! Anche se adesso resiste alla stretta di quell’uomo, osserva il lago e si sforza di vedere quello che vede lui.
Tuo padre, il venditore porta a porta. Quale mestiere migliore per uno con la sua parlantina? Ricordi il giorno che ti portò con sé e allungò il solito giro per andare a salutare una vecchia amica: lei abitava in una fattoria, era sola in casa, fu stupita di vederlo e anche un po’ offesa, come per un’antica questione tra loro due. Disse be’, chi non muore si rivede. Benché tu non ti ricordassi affatto di quella donna, lei giurò di averti preso in braccio che eri grande così, e non riusciva a credere quanto fossi cresciuto. Dopo che si fu ammorbidita vi invitò dentro a bere qualcosa di fresco. Era estate. Loro due ne avevano di cose da raccontarsi. Quando la radio passò una certa canzone tuo padre si alzò da tavola e prese la sua amica per i fianchi, e lei accettò di ballare, rise, le si arrossarono le guance, poi però successe qualcosa e il ballo si interruppe a metà, e ve ne andaste dopo non molto, nell’imbarazzo generale. Per una volta, durante il viaggio di ritorno tuo padre non canticchiava. Questo non lo raccontare a tua madre, disse. Non capirebbe.
Tuo padre senza lavoro. Tuo padre che sosteneva di avere un affare per le mani. Tuo padre, l’ottimista: diceva sempre che era l’ora di svoltare, darsi una mossa, traslocare, lasciare quel buco di città e andare dove giravano i soldi, allungare la mano e cogliere una buona volta la maledetta mela americana. Da anni sognava di rapinare una banca. Il piano lo conosceva nei dettagli, avendo rapinato quella banca, nella sua testa, già un milione di volte o due. Più di tutto si era studiato le battute. Tuo padre e la sua convinzione che il punto stesse nel saperci fare, la sua incapacità fisiologica di prevedere i contrattempi, la sua arte di scovare all’ultimo una via di fuga. Quando fu ora di scegliere tra la sua amica e tua madre, entrò nel servizio forestale e se ne andò in montagna a domare gli incendi.
Tuo padre e la guerra che aveva fatto, quella sporca. Le lettere che mandava da laggiù, lettere per tua madre giovane che tu leggesti molto tempo dopo. Era già tornato a quel punto, e da qualche parte ogni tanto riusciva ancora a ripescare quella sua allegria, il sorriso a cui le ragazze non resistevano. Ma nelle lettere aveva perso perfino le parole. Cominciava a raccontare dei villaggi, dei bambini, e poi si fermava di colpo come se ci avesse ripensato, e scriveva di te e di tua madre e diceva che se una cosa gli dava un po’ di sollievo era sapere che c’eravate voi due, in un posto lontano lontano, che non ne sapevate nulla e non ve lo potevate nemmeno immaginare. Però alla fine non ti negò l’esperienza di trovarlo con la testa spappolata, nella sua macchina - e dove altro? - accasciato sul volante coi tergicristalli che andavano, solo che non riuscivano a pulire niente perché tutto lo schifo era all’interno.
Tuo padre il cacciatore, il pescatore. Qualche anno prima di farsi saltare le cervella. Ti insegnò a infilare una cavalletta nell’amo, e per tutta la vita avresti ripensato a lui ogni volta che quel sugo color tabacco ti macchiava le dita. Una notte l’avevi visto praticare un cesareo. Tuo padre il medico degli altri, la malattia di se stesso: al ritorno, sulla barca, lui remava in silenzio e tu accarezzavi la superficie dell’acqua con la mano. Gli chiedesti se era difficile morire, lui ci pensò un po’ su e poi disse: dipende. Ci mettesti del tempo a capire quella risposta evasiva. Il fatto che c’erano cose di cui tuo padre non era per niente sicuro, eppure si sentiva in dovere di fingere di sapere anche quelle. Perché fosse così importante non dire mai: non lo so. E che tuo padre non avrebbe mai ceduto i remi della barca ad altri, né il volante della Chevy, né il comando delle operazioni, perché magari quella strada non portava da nessuna parte, ma finché stavi nella sua macchina si andava dove diceva lui.



(Questo testo è liberamente tratto da due romanzi, sei racconti e una poesia. Chi li trova tutti vince un libro a sorpresa.)

lunedì 17 giugno 2013

IL NUOTATORE

     Ho conosciuto Mara Cerri qualche anno fa, grazie a un amico più vecchio di noi e con la vocazione del ponte: lui ha la passione di far incontrare gli altri, specialmente se hanno la vocazione dell’isola. Mara e io siamo isole. Il primo libro suo che ho letto - anzi letto non è la parola giusta, bisognerebbe trovarne un’altra per le cose di Mara - è stato Via Curiel 8. Era una storia muta, tutta affidata ai disegni, su un bambino e una bambina che crescono nello stesso palazzo senza incontrarsi mai.  Soffrono di due solitudini gemelle, come celle separate da un solido muro. Inventano mondi immaginari dove trovare rifugio, e grazie a questo potere, proprio come se scavassero un buco nella distanza che li separa, finiscono per incontrarsi lì, nell’immaginazione, abbracciarsi in un luogo che esiste solo per loro.

     Quando il libro mi capitò per le mani avevo appena scritto i racconti di Una cosa piccola che sta per esplodere. Erano anche quelle storie di ragazzini, di solitudini e incontri inaspettati, collisioni che cambiano traiettorie alle vite e poi le vite non sono più le stesse. Mi sembrò di ritrovare una vecchia amica. Nella mia fantasia, la bambina e il bambino di Via Curiel 8 eravamo Mara e io: anche noi eravamo cresciuti nella stessa solitudine, avevamo cominciato a disegnare e scrivere per trovare rifugio, e scava scava avevamo finito per incontrarci. Quando successe, scoprimmo di essere molto simili. Non solo per le tante combinazioni nei ricordi di due coetanei, ma perché stavamo immaginando entrambi la storia di una ragazzina in nero. Io in quel periodo scrivevo i primissimi racconti di Sofia, e ogni tanto Mara mi spediva uno di questi disegni: li stampavo, li ritagliavo e li appiccicavo sui miei quaderni, e mi sembravano le illustrazioni ideali delle storie che stavano nascendo. Mi ispiravano atmosfere e stati d’animo. Le storie poi le mandavo a lei, e non so che cosa ne abbia fatto ma spero l’abbiano aiutata almeno un po’ con i suoi disegni.

     Poi una notte d’estate feci uno strano sogno, di me stesso che scrivevo un racconto. Miracolosamente quando mi svegliai lo ricordavo quasi tutto. In una mattina di furore creativo, di quelle che poi rimpiangi per il resto della vita, lo trascrissi più fedelmente che potevo, sapendo che era qualcosa di diverso dai racconti che scrivevo di solito e senza immaginare che cosa ne avrei fatto. Rileggendolo pensai che dentro c’era qualcosa per Mara, e glielo mandai. Da allora abbiamo passato qualche anno a spedirci aveanti e indietro disegni e parole, e anche il racconto è cambiato parecchio da quella versione iniziale, ma adesso eccolo qui: è diventato un libro vero, pubblicato da una casa editrice bella come Orecchio Acerbo, e naturalmente è dedicato al nostro amico, l’uomo-ponte senza cui queste due isole non si sarebbero mai incontrate.

     È la storia del sogno di uno scrittore e di un ragazzino che ha paura dell’acqua. Anzi no: è lo scrittore che ha paura dell’acqua, il ragazzino ha paura di diventare grande. Sott’acqua lui ci sta meglio, e sott’acqua è il posto in cui tornare se lo scrittore vuole trovare le sue storie. È un libro per grandi, ma secondo me lo possono leggere anche i bambini. Io gli sono molto grato. Per gli altri provo sentimenti contrastanti, un misto di orgoglio, vergogna, affetto, distanza critica; per questo pura e semplice gratitudine. Me lo giro e rigiro tra le mani come un dono. Se vivessi molti secoli fa inventerei un proverbio che dice così: non c’è modo migliore di essere amici che fare insieme una cosa bella.

giovedì 2 maggio 2013

IL RAGAZZO SELVATICO

     Esce oggi un libro che i lettori di questo blog hanno visto nascere. Ho cominciato a scriverlo più o meno tre anni fa, senza immaginare che cosa sarebbe diventato: vivevo in montagna da qualche tempo, leggevo i Racconti dell’altopiano di Mario Rigoni Stern e quei ritratti di alberi, animali e uomini divennero la mia enciclopedia, occhi con cui guardare il paesaggio che avevo intorno. Ero immerso in un gran silenzio. Dalla finestra della baita inquadravo un pezzetto di bosco e lo vedevo trasformarsi: frustato dalle piogge primaverili, inghiottito verso sera dalle nebbie che salivano dal fondovalle, popolato dalle ombre nitide della luna piena. Anche lo scorrere del torrente, il soffio del vento nei prati sembravano mormorii e sussurri, di notte mi agitavano i sogni. Ero andato lassù per ricominciare a scrivere, e ora so che la montagna mi stava educando all’osservazione e all’ascolto, all’attenzione necessaria alla scrittura. Finché mi venne naturale aprire un quaderno nuovo e cercare di riprodurre l’eco di quelle presenze in parole. Prima furono alberi. Poi torrenti e nevai. Poi ancora lepri, volpi, cani, mucche, uccelli, caprioli. Infine persone. Due in particolare: uomini che avevo incontrato lassù e con cui stava nascendo un’amicizia profonda.

     Perché mi pare così importante ricordare com’è cominciata? Perché, dopo tre anni e diverse rielaborazioni, il libro ha finito naturalmente per essere un libro su di me. Questo mi imbarazza molto. Uno scrittore dovrebbe coltivare la timidezza, scomparire dentro le sue storie. Deporre le armi della narrativa e dire io, confessandosi a un pubblico di sconosciuti, più che un gesto di coraggio mi sembra un grave peccato di narcisismo. Per questo ho provato a dar voce a un io schivo, come i miei amici montanari: ho eliminato gli specchi di casa e passato molto tempo alla finestra, pur sapendo che scrivere di alberi e animali era un altro modo per scrivere di me, solo nascondendomi nel larice caduto, nella volpe che di notte viene in cerca di cibo, nei ruderi infestati dalle ortiche, nei laghetti d’alta quota e negli ultimi nevai d’agosto. Poi a volte ci sono stato costretto, a dire io. Sono stati i capitoli più penosi, come quei pendii ripidi e brulli che non danno alcun piacere, e li risali a passo lungo e testa bassa per superarli il prima possibile. Scrivendoli mi veniva da chiedere scusa. E mi sono sentito molto meglio quando infine il sentiero ha svoltato e ho potuto tornare a descrivere i suoni del bosco, i gesti di un amico.

     Esiste una tradizione di libri sull’eremitaggio, anzi sull’eremitaggio nella natura, che va da Walden di Thoreau fino al recente, bellissimo, Nelle foreste siberiane di Sylvain Tesson. Ne sono usciti diversi in questi anni e credo di averli letti tutti. Se di fenomeno letterario si tratta, ho idea che non sarebbe mai diventato tale senza Into the Wild: forse io stesso non sarei andato a vivere in montagna se non avessi scoperto la storia di Chris McCandless, un santo cercatore che mi è stato d’ispirazione all’inizio e di conforto nei momenti duri.
     Rispetto alla sua Alaska, la montagna in cui ho vissuto non è affatto un luogo selvaggio, ma una civiltà abbandonata. Ho scritto di ruderi, scheletri, paesi fantasma, vecchie cose seppellite che spuntano dal terreno, e temo ci sia un senso di morte che pervade tutto il libro. Giusto così: anch’io avevo cose seppellite da tirare fuori. Ho sempre scritto di ragazze per un motivo puro e semplice: la paura boia di scrivere di maschi, ma prima o poi sapevo di doverla affrontare. Ora penso di aver cominciato a guardarla in faccia. Qui sono tutti maschi, perfino gli stambecchi e i cani, e si potrebbe anche leggere Il ragazzo selvatico come il libro di un uomo che fa i conti con la sua natura maschile. Anche ritrovando un corpo, assaporandone la libertà e la forza. Ripensando ai vecchi maestri e cercandone di nuovi. Come successe a Chris, ero partito per stare da solo ma poi la mia è diventata una storia di incontri, e non sono sicuro di avere imparato un granché durante il viaggio, ma la cosa più bella che mi è rimasta sono i miei amici. Questo libro è per loro.


mercoledì 17 aprile 2013

UN CANE FELICE


(Mozzo ringrazia tutti per le belle parole che ci stanno arrivando. Sofia, lì accanto, come al solito si sottrae. Quando esce in giardino si veste di verde, naturalmente.)

domenica 10 marzo 2013

STORIA DI UNA SCHIENA

     (Questo racconto è uscito ieri sulla Repubblica. L'ho scritto l'otto marzo ed è dedicato a Grace Paley.)

     Una mattina giocherellavo con la sua schiena. Parlavamo di vecchi amori. Anzi no: lei parlava, io camminavo con le dita su e giù per la sua spina dorsale. Il fatto è che ho sempre pensato che i vecchi amori vadano lasciati dove stanno, non è il caso di svegliarli dalla tomba e portarli a fare un giro. Ma alle ragazze, chissà perché, l’argomento piace da impazzire.
     Più tardi scrissi: Era una schiena color caffelatte, e tutta ossa. Vedeva solo le pance degli uomini e la fine delle cose. Si domandava sempre come fosse di là, dove il mondo ti veniva incontro invece di andarsene via.
    Ti sei offeso, disse, quando le mostrai quelle poche righe.
    Ma no, risposi.
    Le pance degli uomini?, disse lei. Questa non te la perdono. Schiene, pance, ossa, parli di amore e non ci metti nemmeno un bacio.
     È vero che a me piacciono le ossa - costole, vertebre, gomiti, ginocchia, anche - ma mi piacciono pure i baci. Tornai in cucina. Mi venne in mente la frase di Dorothy Parker sulle sei e mezza di sera a New York. Secondo te qual è l’ora più triste della giornata?, le chiesi ad alta voce. Come?, domandò lei dal letto, immersa in qualche Grande Romanzo Americano. L’ora più triste, ripetei.
     Ma che ne so, rispose. Forse le cinque meno dieci.
     Le cinque meno dieci erano l’ora più triste, quella in cui tornavano i fantasmi del passato. La schiena sussultava suo malgrado: ascoltava i singhiozzi soffocati dal cuscino, contemplava il soffitto e ricordava. Lei una volta l’aveva visto, il futuro. Fuori da un bar, a notte fonda, un uomo l’aveva afferrata per i fianchi e costretta a voltarsi, e lì, durante quel bacio da ubriachi, la schiena aveva finalmente potuto guardare avanti. Il futuro era una strada illuminata dai lampioni, scintillante di pioggia, indimenticabile.
     Ecco fatto. Però, ora che il bacio c’era, avevo pure scoperto come finiva la storia. Mi sa che muore, dissi tornando di là. Già mi immaginavo la schiena sdraiata su un prato. La mia schiena color caffelatte si sarebbe addormentata guardando gli uccelli e le nuvole, oppure le formiche e i fiori?
     Lei sbuffò, posò il suo libro sul cuscino, prese il foglio che le porgevo e leggendolo si fece tutta seria.
     Magari non muore, disse alla fine.
     Già, e come?, chiesi io. Una schiena così nostalgica.
     Magari incontra una persona gentile, disse lei. Sai com’è, a volte basta una gentilezza a cambiarti la giornata. Mi restituì quell'inutile pezzo di carta e si rigirò nel letto, tirandosi la coperta sulla testa.
     Gentilezza, gentilezza, pensai seduto al tavolo. Non mi veniva in mente niente.
     Poi sentii un impellente bisogno di chiedere scusa. Vale come gentilezza? Scusa per questo racconto, scusa per l’incapacità di ascoltare, scusa per come qualsiasi ricordo in cui non ci sono mi offende, scusa per quando le provo tutte per farti sentire in colpa. Vorrei essere quello dei baci e non delle ossa. Lasciai il racconto sul tavolo e andai di là per dirglielo, ma la trovai che dormiva. Distesa sulla pancia, con un braccio a coprirle gli occhi dalla luce del giorno, il gatto raggomitolato sulla schiena.

mercoledì 20 febbraio 2013

UN BAMBINO COME NOI


   (Per tutti i bambini di quinta della scuola primaria Alessandro Volta di Lomagna, per le loro maestre e in particolare per Sandra. Il "libro di un altro scrittore" era un racconto di Hemingway, Campo indiano. Spero che adesso Ernest non venga fin qui per darmi un pugno sul muso. Grazie ragazzi, non lo dimenticherò.)

giovedì 14 febbraio 2013

ALL'UOMO CHE CI HA INSEGNATO AD AMARE LA FABBRICA

Sono nato in questa città. 
Amo questa città come si può amare qualcuno a cui ci lega un vecchio rapporto di familiarità e di amicizia. È la città nella quale sono cresciuto. Ha dato forma alle mie passioni, alle mie speranze, alle mie angosce. Ammiro le parti belle e le parti misere del suo corpo, dai quartieri, alle case, ai muri, ai selciati. Ha una sua bellezza e una sua bruttezza, esterne, visibili, che sono l'incarnazione della sua storia, che si esprimono nei suoi caratteri fisici e che acquistano maggior senso nel confronto con altre città. Questa città è simile a un essere vivente, è un organismo che respira e si dilata sopra di noi come un mantello protettivo che ci avvolge e ci confonde nello stesso tempo.


Negli anni è diventata per me come un porto di mare, un luogo privato dal quale partire per altri mari, per altre città, per poi ritornare e quindi ripartire. Un porto cioè un luogo stabilizzato dove accumulare campioni prelevati, reperti e impressioni dei luoghi lontani. Immagini che si depositano nella memoria, come una sostanza che la città sa far propria e trattenere, ma che sa restituire metabolizzata in altre immagini, ricomponendo presente e passato, vicino e lontano, a piacimento, secondo le pulsazioni del cuore. Piccoli reperti di archeologia contemporanea.


Questa città mi appartiene e io le appartengo, quasi fossi un frammento fluttuante nel suo immenso corpo. Mi ossessiona un bisogno costante di conoscenza della sua fisicità, una necessità di rileggere di nuovo i tratti, le parti nascoste ma anche i luoghi noti e le sembianze più conosciute. Tra di noi c’è un varco aperto, che permette uno scambio continuo di percezioni, un punto di vista speciale. Talvolta ho l'impressione che si manifesti più nitidamente e all'improvviso dinanzi agli occhi, che mi informi del suo ingombro, della sua consistenza e della sua materia.
La città mi investe e mi abita.

(Gabriele Basilico, 1944-2013)
 


martedì 8 gennaio 2013

DOV’È LA FRONTIERA?

Tempi duri per noi lettori di racconti, e pure per noi amanti della narrativa americana. Buttando giù la classifica delle migliori raccolte dell’anno trascorso, mi sono accorto che sono quasi tutti libri vecchi, usciti in Italia con molto ritardo. Non che l’età dei libri abbia valore di per sé, ma ti ritrovi a chiederti che cosa stiano scrivendo i tuoi coetanei dall’altra parte del mondo, se nelle storie che leggi il mondo è quello di trenta o quaranta o cinquant’anni fa, e i loro autori sono molto vecchi o molto morti. Forse è la forma racconto che da quelle parti è passata di moda. O forse i bambini bruciati che scoprivamo negli anni Novanta hanno messo su pancia, ottenuto una cattedra di prestigio e comprato una casetta al mare, e nessuno è ancora arrivato a raccoglierne il testimone. Dov’è la frontiera? Chi saprà scrivere una storia di dieci pagine che mi faccia accelerare il cuore? Io sento un gran bisogno, come lettore, di montare in macchina e puntare verso ovest. Spero che qualcuno mi ci porti presto.
Comunque, alla fine ho fatto due classifiche. La prima è quella delle vecchie glorie:

1) John Cheever, I racconti (Feltrinelli)
Non li contiene tutti (ne scrisse centinaia) ma è un best of che in Italia aspettavamo dal 1978, quando questa raccolta uscì in America alla fine di una lunga carriera, e pochi anni prima che Cheever morisse. Io ne possiedo anche un’edizione ridotta, uscita per Garzanti nel 1987 (Addio fratello mio, regalo di mia sorella!), più tutti i libricini in cui Fandango l’ha spezzettata in seguito, facendone scempio e lasciando pure il lavoro a metà. Qui la cosa notevole è la scoperta dei racconti tardivi, molto diversi da quelli degli anni Cinquanta e Sessanta per cui Cheever è famoso: non più casalinghe e pendolari e villette nei sobborghi, ma vecchi scrittori viziosi e un universo di personaggi eccentrici, descritti con uno stile che vira decisamente al postmoderno. Infinita riconoscenza ad Adelaide Cioni, che deve aver passato su Cheever un bel pezzo di vita, traducendo una trentina di questi racconti e i monumentali diari (Una specie di solitudine, sempre Feltrinelli).

2) Andre Dubus, Il padre d’inverno (Mattioli 1885)
È una raccolta del 1980, con cui prosegue la pubblicazione dell’opera di Dubus, fino a pochi anni fa misteriosamente inedito in Italia. Bisogna ringraziare Nicola Manuppelli che l’ha riscoperto e tradotto molto bene. I miei preferiti tra questi racconti sono quelli sulla fine del matrimonio e sul rapporto tra genitori e figli; in particolare, quello che dà il titolo al libro è un capolavoro. A me sembra di aver capito una cosa sui grandi scrittori di racconti: non ha importanza che le loro raccolte abbiano un tema, una cornice geografica, un filo conduttore, perché hanno già lo sguardo a tenerle insieme. Quando leggi Carver o Yates o appunto Dubus hai la sensazione di entrare nel loro mondo, e non importa quanto siano diversi i personaggi e le storie. Quello che dà coerenza al libro è il modo in cui lo scrittore guarda dentro l’animo dei personaggi, e la sua sensibilità, insieme alla sua lingua, costituiscono il vero paesaggio delle sue storie, ovvero lo spazio in cui le cose accadono. Nel caso di Dubus questo paesaggio è la solitudine di chi ha perso qualcosa, la persecuzione del senso di colpa, un continuo dubbio morale; e i suoi racconti, più che a trame, assomigliano a meditazioni. Io che organizzo la libreria secondo le mie parentele emotive l’ho messo accanto a Charles D’Ambrosio e Richard Ford.

3) Alice Munro, Chi ti credi di essere? (Einaudi)
Un altro libro del 1978, che era già uscito per E/O negli anni Novanta (io però non ce l’avevo, nelle librerie dell’usato è introvabile). Un romanzo di racconti su Rose, che nasce e cresce in un paesino di campagna dell’Ontario, poi si sposa e va a vivere a Vancouver, comincia a fare l’insegnante, si separa, cambia uomini e case. Il rapporto con le radici (che nei racconti di Alice Munro sono i vecchi, il paesaggio di campagna, le tante matrigne, la volgarità del loro modo di pensare e di parlare, la vergogna di appartenere a quel mondo) e il bisogno di andarsene da lì a rifarsi una vita (scoprendo i libri, la città, gli intellettuali, le idee di moda negli anni Sessanta, la libertà sessuale, e infine la solitudine e il disincanto). In Rose c’è sempre un senso di impostura (infatti fa l’attrice): il sospetto di essere solo una contadina ripulita, la paura di venire smascherata da un momento all’altro, l’inadeguatezza perenne. Moglie inadeguata, madre inadeguata, intellettuale e artista inadeguata. Non solo temi, ma perfino luoghi, personaggi e trame che noi lettori di Alice Munro conosciamo bene, perché ci ha lavorato sopra per una quindicina di libri. Leggerla è sempre un piacere, però chi come me ama la scrittura chirurgica che ha raggiunto verso i settant’anni (quella di Nemico amico amante) qui riconosce le ruvidezze dell’apprendistato, il lavoro di una narratrice che sta ancora affilando le lame. La lingua suona più elaborata e letteraria, lo sguardo è meno tagliente che nei racconti migliori; e di quell’uso spericolato del montaggio, quella manipolazione del tempo-memoria di cui diventerà maestra, in Chi ti credi di essere? quasi non c’è traccia. 

E ora le novità:

1) Deborah Willis, Svanire (Del Vecchio editore)
La più bella raccolta di racconti che ho letto nel 2012. Deborah Willis è canadese, è nata nel 1982 e ha scritto quattordici storie che parlano di persone che scompaiono e persone che rimangono, anzi soprattutto di queste. C’è la figlia di uno scrittore scappato di casa dopo una lunga crisi creativa, e ci sono gli uomini che nella vita non farà che abbandonare. C’è una coppia di ragazzi giovani, innamorati, stupidi, che sono appena andati a vivere insieme, due idioti innamorati a cui nessuno dovrebbe mai affidare un bambino, e invece una vicina di casa glielo affida e loro pensano bene di portarlo a fare un giro in metropolitana. C’è un medico che ha perso la moglie e non riesce a trovare consolazione se non al tavolo del black-jack: dove si innamora delle mani della croupier, una ex prestigiatrice, e alla fine le chiede di fare sparire anche lui. E poi ci sono i modelli di questi racconti - A.M. Homes e Lorrie Moore su tutti - quelli che riconosci, o ti sembra di riconoscere, quando uno scrittore della tua età ha amato i tuoi stessi libri. Deborah Willis l’ho messa accanto a loro due. Sono contento che l’abbia pubblicata un bell’editore come Del Vecchio.

2) Mary Gaitskill, Oggi sono tua (Einaudi)
Lei è una di quelle scrittrici che aspettavo da tempo, mai arrivata da noi perché ha scritto soprattutto racconti, benché siano usciti su riviste come il New Yorker e abbiano vinto numerosi premi. Ora nello stesso anno Einaudi ha pubblicato questa antologia (che contiene storie tratte da tre raccolte diverse, del 1988, 1997 e 2009) e Nutrimenti un romanzo che non ho ancora letto (Veronica, del 2005). I racconti mi sono piaciuti molto. Parlano principalmente di sesso e delle sue derive, e in particolare di sadomasochismo. Dopo un po’, leggendoli, ti viene da pensare che in realtà la dominazione e la sottomissione siano il gioco preferito di ogni coppia, e anche se non si frustano e sculacciano a vicenda, un uomo e una donna che si mettono insieme siano due che non vedono l’ora di farsi male.

3) Nathan Englander, Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (Einaudi)
Dopo la sua acclamatissima raccolta d’esordio (Per alleviare insopportabili impulsi, del 1999), Nathan Englander aveva ceduto alla solita tentazione e speso otto lunghi anni per scrivere un romanzo che non è andato per niente bene (Il ministero dei casi speciali, 2007). Io lo conobbi nel 2004 per i documentari di Scrivere/New York. Parlammo a lungo di letteratura ebraica e ristoranti etnici di New York (Nathan è cresciuto in una comunità di ebrei ortodossi ma ha abbandondato la religione verso i venticinque anni; dopo aver appeso la kippah al chiodo la sua più grande liberazione è stata poter assaggiare tutto quello che prima gli era vietato). Mi lasciò il ricordo di un uomo gentilissimo, umile e ironico allo stesso tempo, dedito alla letteratura come un monaco. Penso che sia un ottimo scrittore di racconti, sono contento che sia tornato a scriverne e spero non ci trovi niente di limitante - lui che ha per maestri Singer e Malamud. Il racconto che dà il titolo al libro è una specie di parodia di quello di Carver, quello in cui quattro amici sempre più ubriachi - due uomini e due donne - discutevano di cosa fosse l’amore; anche qui ci sono quattro amici sempre più ubriachi, però discutono dell’Olocausto e di Israele. Ci vuole del fegato a scrivere un racconto così, ed è una cosa che ci dimentichiamo spesso: che tra le qualità dei grandi scrittori c’è il coraggio di provare a scrivere la cosa più difficile. Nathan di coraggio ne ha da vendere. Se lo incontro di nuovo al cinese di Elizabeth Street gli offro senz’altro un saké bollente.