martedì 18 dicembre 2012

LIBRAI

 (a R, angelo custode)

     Quella di Sansepolcro aveva fatto l’ostetrica per tutta la vita. Negli anni Settanta, a Firenze, aveva fondato un ambulatorio femminista, che promuoveva il parto in casa e aiutava le donne a praticarlo. Poi si era sposata, aveva avuto tre figli, si era trasferita lì con la famiglia. Anni dopo il marito e i figli se n’erano andati, lei invece aveva aperto una libreria con alcune ragazze più giovani. Mi disse che di quelle ragazze si sentiva un po’ la mamma. Che l’ostetrica e la libraia non le sembravano mestieri poi tanto diversi. Dei suoi figli parlava con orgoglio: uno stava cominciando a esercitare come medico pediatra, l’altra studiava diritto internazionale a Londra, il terzo aveva coltivato il sogno di fare il musicista e inseguendolo si era un po’ perduto.

     Quello di Foggia mi raccontò degli anni di Zeman, e del trio delle meraviglie Baiano-Signori-Rambaudi. Eravamo in macchina dall’aeroporto di Bari, cento chilometri sotto il diluvio. Mi disse che, per lui, quella era l’epoca del sogno, un tempo che non sai più se sia esistito davvero o l’abbia inventato tu dormendo; perché era un bambino, allora, e amava il calcio nel modo dei bambini, studiando a memoria i tabellini delle partite e gli albi d’oro. Ancora adesso ricordava ogni risultato, ogni formazione, ogni gol. L’ultimo era stato quello subito in casa con il Napoli, che aveva negato al Foggia l’ingresso in coppa Uefa e gli aveva spezzato il cuore. Tre rigori ci dovevano dare, mi disse scuotendo la testa. Poi si consolò raccontandomi di Kolivanov, genio incompreso.

     Quello di Fermo era un anarchico, e in un angolo teneva due poltrone e po’ di vino. Gli piaceva offrire un bicchiere alla gente che si sedeva lì a sfogliare un libro. Era esuberante, litigioso e dedito ai vizi come capita spesso agli anarchici, non so ai librai. Nella sua stessa via, solo cinquanta metri più in là, gli avevano aperto una libreria di catena, e lui si rifiutava di passarci davanti: quando doveva andare in piazza prendeva un vicolo laterale e faceva un lungo giro. Si arrabbiò perché all’incontro vennero solo cinque persone. “Città di merda”, sibilò tra i denti, ma più tardi ammise che non l’avrebbe mai lasciata. Bevemmo il suo Rosso Piceno per tutta la sera, la mattina doveva accompagnarmi in stazione molto presto; lo salutai di fretta, col vino che mi picchiava in testa, sapendo che poi di quella fretta mi sarei pentito, correndo fuori dalla sua macchina per non perdere il treno.

     Quello di Palermo mi portò al ristorante e voleva farmi assaggiare tutto. Siccome non potevo ordinare dieci piatti diversi, ognuno dei suoi amici ne ordinò uno e me ne offrì un boccone. Al tavolo di fronte c’erano tre camionisti svizzeri ubriachi: chiesero se stessimo celebrando un addio al celibato, forse perchè ci vedevano allegri o forse nella speranza di unirsi a noi. Il libraio disse di no, che ci eravamo appena conosciuti e stavamo festeggiando il nostro incontro. I camionisti capirono perfettamente. Per via dell’accento il libraio chiese se fossero tedeschi, e loro si offesero a morte. Dissero no, noi siamo normali. Avevano appena ordinato un giro di birre dopo il caffè, ma della normalità ognuno ha la sua idea, e non ci parve il caso di discuterne. Facemmo la pace brindando all’internazionalismo e all’amicizia tra i popoli.

     Quello di Venezia aveva cominciato con una libreria di libri usati. Sgomberava le biblioteche dei morti, che i figli si vendevano per pochi soldi e certe volte senza sapere di dar via rarità preziose. Mi raccontò che a Venezia le cantine non esistono, esistono i solai; ed è lo stesso un problema tenere i libri all’asciutto. A un certo punto, oltre che ai libri usati, si era appassionato ai piccoli editori, e aveva cominciato a vendere anche loro. Di quelli grandi non ne voleva sapere. Entrava qualcuno a chiedergli un Einaudi, un Mondadori, e lui diceva mi spiace, non ce l’abbiamo. Si può ordinare?, domandavano quelli. No, diceva lui, non si può ordinare. Quella sera mi aveva fatto una sorpresa, esponendo in vetrina tutti i libri che avevo citato nel mio.

     Quello di Ivrea mi raccontò di Adriano Olivetti, che si era messo in testa di far leggere gli operai. Per questo, mi disse, a Ivrea c’è il più alto rapporto librerie-abitanti, lo sapevo? Risposi che non lo sapevo. Anche lui prima faceva un altro lavoro, come tutti gli altri. Il venditore di qualcosa che si vendeva meglio dei libri. Disse che però a un certo punto si era accorto di non stare bene, e allora si era licenziato, usando la liquidazione per aprire la libreria; con cui non guadagnava quasi niente, se non la felicità che prima gli sfuggiva.

     Quello di Pietrasanta voleva vendere anche gli e-book. Il suo amico cercava di spiegargli che non aveva senso, ma per lui un senso ce l’aveva eccome: uno viene qui con il suo coso, mi disse, il suo e-reader, mi chiede un libro e io glielo scarico dalla come si chiama, dalla chiavetta no? Tutti i librai discutevano di e-book fingendo di non preoccuparsene affatto, come si snobba l’annuncio di una catastrofe, la fine del mondo. Tutti disprezzavano i best-seller, e in particolare le loro sfumature, ma con i libri brutti ci campavano, mi dissero, a vendere solo libri belli non si arriva a fine mese. Quello di Torino per i libri brutti si era inventato questa cosa: aveva preso un tavolino e gli aveva segato una gamba a metà. I libri brutti li vendeva anche lui, ma li teneva lì sotto a reggere il tavolo.

     Per qualche motivo le libraie erano spesso in due e piuttosto belle, i librai quasi sempre trasandati e soli. Quello di Bari faceva eccezione: secondo me assomigliava a Klaus Kinski, ma secondo i suoi amici a David Bowie, e secondo il cameriere cocainomane a Andy Warhol. Non riuscivamo a metterci d’accordo. La libreria l’aveva aperta da un mese: era specializzata in musica, fumetti, cinema, piccoli editori punk. Era un punk anche lui, magrissimo, capelli biondi ossigenati, abiti attillati e neri, un sorriso che ti faceva venir voglia di sorridere anche te. Le libraie di solito erano gentili, però dopo l’incontro tiravano giù la serranda e mi davano la buonanotte; i librai invece mi accompagnavano al ristorante e al bar. Parlavamo di calcio e letteratura. A volte pure di donne. Sentivo di capirli meglio, e loro capivano me. Le libraie mi facevano trovare sul tavolo un bicchiere d’acqua; i librai mi guardavano in faccia e mettevano il vino.